Caporalato e schiavismo nelle Langhe
Lavoratori minacciati e picchiati perché protestavano contro la paga di pochi euro l'ora e condizioni di lavoro disumane
Colpire i committenti: aziende vitivinicole e produttori

Le Langhe sono di nuovo balzate ai disonori delle cronache. Non si tratta del premio a qualche celeberrimo vino che si produce in zona, né dell'elogio del paesaggio collinare definito dall'Unesco “Patrimonio mondiale dell'umanità”. Ancora una volta i titoli di apertura dei mezzi d'informazione sono stati dedicati a questa zona del Piemonte a causa dell'ennesima indagine che ha portato alla luce la pratica del caporalato e le condizioni disumane in cui sono tenuti i braccianti, in larga parte migranti dell'Africa subsahariana.
Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe spontaneamente da dire. Anche il nostro giornale, neppure due mesi fa, pubblicava un articolo su questi temi, emersi da alcune indagini dei carabinieri che riguardavano le stesse zone. I tentativi da parte dei padroni di minimizzare, che anche stavolta si sono preoccupati del “danno d'immagine” causato da “pochi soggetti”, non reggono più all'evidenza. La realtà invece mostra come anche in Piemonte il caporalato e lo sfruttamento schiavistico del lavoro operano in maniera sistematica, nella stesse modalità con cui avvengono nell'Agro Pontino, nella Piana di Gioia Tauro, nella Capitanata foggiana.
Un fenomeno, questo, presente almeno dagli anni '90. Trent'anni fa furono i macedoni i primi ad arrivare, in fuga dalla guerra che portò alla dissoluzione della ex Jugoslavia. Poi sono arrivati i magrebini dal nord Africa e gli Albanesi, gli stessi paesi da cui tutt'ora proviene una parte di lavoratori agricoli, e li ritroviamo spesso anche dalla parte dei caporali e degli aguzzini; la maggior parte dei braccianti adesso proviene dai Paesi a sud del Sahara: Gambia, Guinea, Nigeria, Senegal, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio.
Ma le condizioni dei braccianti stranieri che lavorano nelle vigne delle Langhe uscirono dal limbo solo nel 2012, quando una quarantina di lavoratori e lavoratrici marocchini che lavoravano in una azienda di Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria, si opposero alle disumane condizioni in cui erano costretti a lavorare, incrociarono le braccia per giorni, attuarono un presidio permanente nei campi, denunciarono le paghe da fame e gli alloggi fatiscenti in cui erano costretti a vivere. Su questo schiavismo senza catene sono stati scritti libri e girati film, ma le cose non sono cambiate.
Come nelle piantagioni del primo Novecento, quando non c’erano diritti né rappresentanze sindacali e tutto dipendeva dalla volontà del padrone della terra, da un giorno all’altro, chi protesta si ritrova senza lavoro, oppure è minacciato, non solo a parole; questo è quanto emerge dalle ultime inchieste. Paghe che vanno dai 3 ai 7 euro l'ora, per un orario che si aggira sulle 10-12 ore per sei giorni su sette, niente pause per mangiare o bere, l'unica acqua disponibile è quella dell'irrigazione, telecamere di controllo nei poveri alloggi dei braccianti, vere e proprie aggressioni verso chi protesta.
A inizio luglio sono stati arrestati tre caporali: un marocchino, un macedone e un albanese. Chi reclutava i migranti davanti la stazione di Alba, chi li teneva nelle cantine del casolare dove abitavano gli stessi aguzzini, metodi diversi perché non erano collegati tra loro, particolare che rileva quanto sia diffusa la pratica del lavoro irregolare nelle vigne delle Langhe, del Roero e del Monferrato, dove si producono vini tra i più pregiati d'Italia, come il Barolo e il Barbaresco, che costano decine di euro a bottiglia e un ettaro di terreno può essere valutato fino a un milione di euro.
Come dicevamo non mancano le aggressioni fisiche. In una scena ripresa da un bracciante con il suo telefonino si vedono due lavoratori che protestano perché il caporale non ha rispettato il patto di sette euro l'ora proponendone cinque, quindi si sono rifiutati di tornare tra le vigne. Così l'aguzzino li ha caricati a forza sull'auto per riportarli ad Alba e rispedirli in strada. Lungo il tragitto si è fermato in mezzo al nulla. Li ha fatti scendere e li ha picchiati con un tondino di ferro, sradicato da un vigneto. Il video è stato consegnato alla polizia di Cuneo.
Non si tratta di fenomeni circoscritti, né tanto meno di lotte arretrate, nonostante nel XXI secolo riecheggino condizioni dei secoli passati. Non sono alcuni padroni particolarmente “cattivi” che si accaniscono sui poveri migranti, ma una filiera che si basa su condizioni di lavoro che rasentano la schiavitù, dai campi alla logistica dei supermercati, che è alla base di un importante ed avanzata produzione capitalistica come quella agroalimentare, o del cosiddetto “Made in Italy enogastromico”.
Il governo neofascista della Meloni invece vorrebbe scaricare la colpa sui caporali stranieri (“non sono cose da italiani” ha detto) o sull'immigrazione definita “clandestina”, quando invece sono proprio le leggi anti immigrati, in primis la Bossi-Fini che lega il permesso di soggiorno a un posto di lavoro, a mettere sotto ricatto i migranti gettandoli tra le fauci dei caporali. In questo modo si cerca di sviare le attenzioni dalle grandi aziende vitivinicole e dai produttori. Oltretutto non stiamo parlando di soggetti in difficoltà che potrebbero avere la “tentazione” di puntare sul lavoro nero a basso costo per salvare l'azienda dal fallimento, ma di ditte che fatturano milioni di euro, con larghi margini di guadagno a cui, oltre a quelli del vino, spesso si aggiungono i proventi degli agriturismi di lusso.
Vanno messi nel mirino le aziende e i viticoltori che si avvalgono di questa manodopera, affidandone il reclutamento a ditte e cooperative senza scrupoli, ma che sono perfettamente al corrente dello sfruttamento schiavistico a cui sono sottoposti i braccianti. Del resto dovrebbe bastare le 12 ore di lavoro giornaliero a far capire anche a un bambino che queste non possono essere le regole di un normale e legale contratto di lavoro.

17 luglio 2024