Mazzette, appalti, svendita di aree e palazzi storici
Indagato il sindaco di Venezia Brugnaro. Arrestato l'assessore Boraso
“Un sistematico perseguimento di interessi personali”
Che aspetta il sindaco a dimettersi?

Lo scandalo rivelato dall'inchiesta dei giudici di Venezia sembra una fotocopia della tangentopoli ligure, con una forte aggravante: in Liguria c'era una commistione tra il governatore Toti e un gruppo di imprenditori che spadroneggiavano dettando alla giunta regionale delibere, varianti e concessioni a loro favorevoli, mentre nel Comune di Venezia non c'è stato nessuno sdoppiamento tra pubblico e privato e il conflitto di interesse è macroscopico, perché gli imprenditori sono essi stessi, attraverso il sindaco Brugnaro e il suo capo e vicecapo di gabinetto, gli amministratori pubblici che gestiscono gli sporchi interessi e il malaffare a favore loro e dei loro beneficiari. E sono impressionanti le analogie nell'operato delle amministrazioni messe in luce dalle rispettive inchieste giudiziarie: dagli incontri con i collaboratori e trattative segrete senza i cellulari ai cellulari non infiltrabili, al militare infedele che faceva la talpa e li informava delle indagini in corso.
Nella bufera giudiziaria che ha investito il comune di Venezia, sono due le figure centrali: uno è l'assessore comunale alla mobilità Renato Boraso (che ha mosso i suoi primi passi in politica con Forza Italia), finito in carcere insieme all'imprenditore Fabrizio Ormenese; l'altro è il sindaco di “centro-destra” (indicato da Forza Italia) e leader di Coraggio Italia Luigi Brugnaro, indagato dala Procura della Repubblica di Venezia per una serie di reati contro la pubblica amministrazione. Le contestazioni nei confronti di funzionari comunali, di partecipate pubbliche e imprenditori, sono relative ad alcuni episodi di corruzione, in particolare per la vendita di Palazzo Papadopoli. Oltre a Brugnaro, sono indagati anche il capo di Gabinetto del sindaco e direttore generale del Comune, Morris Ceron, il vicecapo di Gabinetto, Derek Donadini.
La vicenda che coinvolge Brugnaro riguarderebbe le trattative di vendita all’imprenditore Chiat Kwong Ching, di Singapore, dell’area dei “Pili” (di proprietà del primo cittadino) che si affaccia sulla laguna di Venezia. Gli accertamenti riguardano il blind trust che gestisce il patrimonio di Brugnaro e che il sindaco creò quando venne eletto. Il procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi, ha spiegato su cosa verte l’indagine a carico del primo cittadino: “Stiamo valutando la correttezza della gestione del blind trust del sindaco, quindi l’avviso di garanzia è stato emesso a suo favore, per correttezza nei suoi confronti”. Il procuratore Cherchi ha aggiunto che “forse poteva anche non essere necessario, però per trasparenza dell’attività della Procura abbiamo ritenuto che fosse messo a conoscenza che stiamo valutando questo. Non c’è niente di segreto per cui abbiamo ritenuto di poterlo fare, nonostante non sia stato attinto nemmeno da perquisizione“.
Per le altre persone coinvolte l’accusa è sempre quella: rapporti opachi tra pubblica amministrazione e appalti: corruzione, ossia tangenti per ottenere affidamenti delle gare pubblici. Per questo motivo l’assessore Renato Boraso, dimissionario, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza. Casa sua è stata perquisita, così come il Comune e la sede del gruppo del trasporto pubblico lagunare Avm/Actv. Nell’inchiesta sono 32 gli indagati, a vario titolo, e le misure cautelari eseguite sono una ventina. Nell’ordinanza di custodia cautelare il Gip di Venezia Alberto Scaramuzza scrive che l’assessore veneziano “ha sistematicamente mercificato la propria pubblica funzione, svendendola agli interessi privati” degli imprenditori indagati. Lo scrive il Gip di Venezia Alberto Scaramuzza, nell’ordinanza di custodia cautelare relativa all’inchiesta. La sua condotta, ininterrotta negli ultimi quattro anni, risulta secondo il Gip caratterizzata da “pericolosità sociale eccezionalmente elevata” e “intenso pericolo di reiterazione”. Un “sistema criminoso”, con pressioni sugli uffici comunali “ridotti al servizio del privato”. Si aggiunge l’inquinamento delle prove con la eliminazione di documentazione anche con la collaborazione delle propria segreteria privata.
Le accuse a suo carico prodotte dall'accusatore Claudio Vanin, dirigente aziendale trevigiano di 56 anni che a un certo punto della sua vita ha deciso di rompere gli argini e denunciare questa storia di malaffare, sono concussione per induzione, corruzione per l’esercizio della funzione, corruzione per compimento di atto improprio, con la creazione di falsa documentazione contabile da parte di società a lui intestate e autoriciclaggio.
L’indagine è nata nel 2021 sulla scorta di un esposto relativo all’uso di alcuni terreni della periferia di Venezia. Secondo il procuratore capo Bruno Cherchi, dopo la segnalazione le indagini sono scattate nel 2022, mentre l’attività delittuosa sarebbe proseguita fino ad oggi, nonostante Boraso fosse venuto a conoscenza degli accertamenti in corso. “Abbiamo iniziato con le intercettazioni – ha detto Cherchi – per poi passare ai riscontri documentali grazie all’attività della Guardia di finanza, alla quale è stata affidata l’indagine. Stamane con ordinanza del Gip abbiamo dato il via alle misure cautelari e alle perquisizioni in abitazioni ed uffici perché eravamo a conoscenza, attraverso le intercettazioni, che Boraso stava distruggendo i documenti”. Il capo della Procura lagunare ha poi specificato che Boraso “si era messo a disposizione, da assessore ma con le sue svariate società, per attività che nulla avevano a che fare con la pubblica amministrazione, facendosi pagare con fatture per prestazioni inesistenti in modo ripetuto; interveniva su appalti e servizi e modificando piani comunali a favore di diversi imprenditori, che poi lo pagavano”. Nel corso dell’operazione il 16 giugno sono stati impegnati 200 militari della Gdf e sono stati sequestrati preventivamente e per equivalente oltre 2 milioni di euro alle società di Boraso e alle imprese coinvolte.
Nella fattispecie sono due le ordinanze di custodia cautelare in carcere e sette quelle agli arresti domiciliari. Oltre a Boraso, in carcere è finito l'imprenditore edile, Fabrizio Ormenese, ai domiciliari figurano funzionari comunali e di partecipate pubbliche, tra cui come detto l’azienda dei trasporti comunale Actv. Per altri sei indagati è stata disposta l’interdizione per 12 mesi dai pubblici uffici. In tutto gli indagati sono 18, e ci sono il direttore generale dell’Actv, Giovanni Seno, e il responsabile del settore appalti del Comune Fabio Cacco. Tra gli indagati anche Matteo Volpato, Fabrizio Salis, Alessandra Bolognin, Daniele Brichese, Francesco Gislon e Luis Lotti, manager italiano di Ching Chiat Kwong. L’interdittiva per 12 mesi emessa dal Gip di Venezia riguarda Gaetano Castellano, Stefano Comelato, Helio Constantini, Francesco Piccolo, Sergio Pizzolato e Stefano Pizzolato.
L'assessore Boraso, 56 anni, risiede nel quartiere veneziano di Favaro Veneto. Laureato in Economia aziendale a Cà Foscari, è stato nelle file di Forza Italia. Dal 1997 è sempre stato eletto consigliere comunale. Nel 2005 è stato consigliere anziano e dal 2005 al 2010 presidente del Consiglio Comunale (di opposizione) durante l’ultimo mandato di Massimo Cacciari. Alle elezioni comunali del 2015 si è presentato con una propria lista civica in appoggio al candidato del “centro-destra” Luigi Brugnaro, nella cui giunta è assessore a Mobilità, Infrastrutture stradali, Viabilità, Piano del traffico, Rapporti con le Municipalità e Rapporti con il mondo dell’agricoltura. Alle elezioni 2020 si è presentato ed è stato eletto nella lista civica di Brugnaro, ed è stato confermato assessore.
Secondo i magistrati, gli stessi Brugnaro, Ceron e Donadini, in un incontro a Venezia "concordavano con Ching la cessione dell'immobile comunale Palazzo Papadopoli al prezzo di oltre 10 milioni di euro, inferiore al valore di 14 milioni... e ciò al fine di facilitare le trattative con Ching per la cessione del terreni dei Pili, di proprietà del Brugnaro". Riduzione del valore dell'immobile effettivamente avvenuta, tramite "atti contrari ai doveri di ufficio posti in essere da Brugnaro, da Ceron e Donadini, che agivano per conto del primo".
Felice Casson, ex magistrato, ex parlamentare ed ex capogruppo in consiglio comunale a Venezia, dopo aver letto le intercettazioni telefoniche dello scandalo in Laguna, non ha dubbi: “Le voci non sono una notizia di reato, ma se espresse in forma specifica, un pubblico ufficiale che le raccoglie, come il sindaco Brugnaro, ha l’obbligo giuridico della denuncia, a meno che non sia consenziente”.
La sintesi del "sistema Boraso", per il gip di Venezia Alberto Scaramuzza, è però tutta in quelle parole: "Bisogna fare una causa di 10 milioni di euro ai danni del Comune, che ci ha preso per il c..., come ho sempre detto". A dirlo è Renato Boraso, assessore del Comune lagunare dove bazzica da molti anni. Si lamentava dell’autorizzazione che non arriva per un maxiparcheggio dalle parti dell’aeroporto Marco Polo. Il giudice: "Invece di perseguire l’interesse dell’ente arriva al punto di proporre una causa milionaria contro lo stesso, che dovrebbe in teoria rappresentare". I valori in ballo non sono trascurabili.
L’imprenditore Fabrizio Ormenese, finito in carcere, gli propone un regalo da 200 mila euro: "Quando è a posto l’operazione, siccome tu mi hai dato una mano in tutto, ti faccio un bonus di 200 mila. Non ti ho detto niente! Abbiamo fatto un accordo nostro, ti do 200 mila, tu fai quello che vuoi".
Dall’ordinanza che lo ha portato in carcere, Boraso esce come un vulcanico uomo d’affari, molto attento alle imprese "amiche". Alle quali applica comunque il suo personalissimo tariffario: il 3 o 4% sull’ammontare dei lavori ottenuti (arrotondati talvolta da una quota fissa annua). È il caso della Tecnofon di Daniele Brichese, indagato, per il quale si è speso anche quando a vincere la gara era stata un’altra impresa. Si trattava di appalti riguardanti la ristrutturazione di un emeroteca e la manutenzione di una scuola. "Boraso aveva convocato il dirigente comunale perché contattasse il direttore della ditta aggiudicataria in modo che una parte dei lavori fossero dati alla Tecnofon... - scrive il Gip - In caso contrario assicurava al Brichese la sua intenzione di far inviare ispettori dello Spisal al cantiere di quella ditta".
Boraso aveva tessuto una rete di contatti e di interessi che non poteva essere passata inosservata a chi ci lavorava assieme o gestiva il Comune di Venezia. Non trascurava nulla su cui potesse mettere le mani. Dai giardini del Casinò alle lottizzazioni, dai parcheggi vicino all’aeroporto “Marco Polo” ai servizi di pulizia alla sicurezza, dalla vigilanza nelle aziende controllate dal Comune ai sistemi informatici per la notifica delle contravvenzioni.
Il network Boraso è come una piovra. Innanzitutto, una questione di numeri: 73 mila euro per la vendita del Palazzo Papadopoli, almeno 86 mila per gli affari di Park 4.0, 10 mila all’anno (e 4 per cento) per le attività Tecnofon, 38 mila per acquisizione di un terreno, 45 mila (più altri promessi) per supportare Open (informatica). E poi 40 mila euro per la vendita di un terreno (con la promessa di un attico). Ci aggiungiamo 163 mila euro ricevuti da imprenditori trevigiani e 200 mila euro promessi per la Variante Pertini a Marghera.
C’è però anche una questione di metodo, il meccanismo è collaudato nel tempo, costruito su contratti e fatture fasulle. All’origine c’è la strana vendita di una casa in montagna (a Forno di Zoldo) che risaliva al 2013. Boraso e la moglie Tiziana firmarono un preliminare di vendita all’imprenditore Nievo Benetazzo della Venezia Marco Polo Parking. Prezzo pattuito di 140 mila euro, ma non pagato subito, solo nel 2018 e del 2017 in due tranches di 80 mila e 50 mila euro. Un prezzo esorbitante, secondo la Finanza, anche perché Fornesighe in Val di Zoldo non è una zona di lusso. La casa fu pagata, ma mai acquistata. Infatti Boraso la vendette realmente nel 2018, incassando 55 mila euro, da una persona che nulla aveva a che fare con il munifico veneziano.
Per quanto riguarda Brugnaro e il suo blind trust nella ricostruzione “Un cinese a Venezia”, effettuata l’anno scorso da Report, molti capitoli di questa storia erano già stati raccontati.
Il procuratore Bruno Cherchi ha precisato che l’avviso di garanzia inviato a Brugnaro è “a sua tutela”, eppure l’ipotesi d’accusa è piuttosto circostanziata. Cherchi ha fatto capire che le indagini puntano a verificare la natura del blind trust con cui il sindaco ha congelato le proprie attività imprenditoriali nel momento in cui è stato eletto, affidandone la gestione a un legale di New York.
Un primo capitolo della vicenda giudiziaria per corruzione vede l’offerta che l’imprenditore Ching Chiat Kwong di Singapore aveva presentato nel luglio-agosto 2016 per acquistare i terreni di proprietà di Brugnaro, attraverso la società Porta di Venezia, di cui Donadini era legale rappresentante fino al giugno 2015 e amministratore di fatto fino al 2018. L'accusa è di aver concordato il versamento di un prezzo di 85 milioni di euro (con quote societarie del fondo titolare dell'intervento immobiliare e immobili tra cui un palasport della capienza di diecimila posti) in cambio della promessa di far approvare, grazie al ruolo di amministratore, il progetto edilizio ad uso anche commerciale e residenziale che sarebbe stato presentato da una società di Ching. Il comune di Venezia avrebbe adottato le varianti urbanistiche necessarie per varare l’ambizioso progetto edilizio. L’accordo prevedeva “la maggior somma di 70 milioni di euro come sovrapprezzo che remunerava la promessa di adozione dei provvedimenti edilizi”. L’area era stata pagata 5 milioni di euro nel 2006 da Brugnaro e messa in posta a bilancio a un valore di 15 milioni di euro nel 2018.
Una seconda ipotesi di corruzione riguarda la stessa partita, ma viene collocata tra il dicembre 2016 e il novembre 2017. Sempre in ballo gli stessi terreni, concordando con Ching il versamento di 150 milioni in cambio della promessa di far approvare varianti.
Brugnaro ha sempre giurato che non c’era mai stato alcun interesse privato nel tentativo di vendere i 41 ettari in questione. Così si sarebbe arrivati a poter costruire 348 mila metri quadrati di volumi commerciali e residenziali.
Un terzo affare, nel centro storico di Venezia, riguarda invece la cessione di Palazzo Poerio Papadopoli al prezzo di 10,7 milioni, inferiore rispetto al valore di 14 milioni di stima risalente al 2009. Il palazzo rientrava nel piano comunale delle alienazioni e l’affare doveva facilitare le trattative con l’imprenditore asiatico per i terreni Ai Pili. La compravendita del palazzo avvenne nel 2019. Qui c’è lo zampino dell’assessore Boraso, che avrebbe ricevuto 73 mila euro sotto forma di consulenza da una società di Ching, attraverso i suoi collaboratori Luis Lotti, Claudio Vanin e Fabiano Pasqualetto.
C’è un’intercettazione, agli atti dell’inchiesta che ha portato all’arresto di Renato Boraso, che racconta come il sindaco Luigi Brugnaro (indagato ma per fatti diversi da quelli contestati a Boraso) fosse a conoscenza delle lottizzazioni che interessavano il suo assessore. Lo scrive il Gip nell’ordinanza di arresto: il primo cittadino rimarca “il fatto che lui ha sistemato le lottizzazioni d’interesse del Boraso”.
Davanti a questo nuovo ennesimo spaccato della corruzione senza fine delle istituzioni borghesi del regime neofascista imperante e dei suoi rappresentanti, che aspetta il sindaco Brugnaro a dimettersi?

24 luglio 2024