Clamorosa intervista del premier a "Repubblica" dopo la sconfitta elettorale
Aut aut del dittatore DC Prodi: "O si fa come dico io, o prendere o lasciare"

Dapprima, subito dopo la batosta elettorale, ha cercato di assorbire il colpo, dichiarando con la sua solita faccia di bronzo che "in fin dei conti i risultati sono positivi, non c'è stata la spallata che voleva Berlusconi". Ma poi, vedendo sfaldarsi la maggioranza e crescere le sorde critiche verso la sua politica di governo per aver causato la bruciante sconfitta del "centro-sinistra", Romano Prodi ha perso le staffe e ha battuto i pugni sul tavolo per cercare di ristabilire la sua autorità su una coalizione di cui sente sfuggirgli il controllo.
Come altre volte in circostanze simili, ha usato come megafono il quotidiano "La Repubblica", sempre pronto a fiancheggiarlo e difenderlo. "O si fa come dico io, o prendere o lasciare", è l'aut aut che il premier ha lanciato ai suoi alleati dalle colonne del quotidiano di De Benedetti e Scalfari, diretto da Ezio Mauro, attraverso una lunga intervista a Massimo Giannini pubblicata nell'edizione del 30 maggio. A spingere il dittatore democristiano a questa stizzosa dimostrazione di forza erano stati i mugugni e i segnali di fronda tornati improvvisamente ad agitare la coalizione dopo lo shock elettorale. L'ottimismo consolatorio e ipocrita del premier non cozzava soltanto con le giaculatorie allarmate del PRC e del PdCI, che attribuivano apertamente la sconfitta all'astensionismo operaio a causa della politica antisociale del governo. Ma neanche nell'Ulivo Prodi aveva trovato molte sponde alla sua linea minimizzatrice, arrivandogli piuttosto all'orecchio le richieste di un "cambio di passo" nella politica del governo (Fassino), e quelle di un'accelerazione nella costituzione del Partito democratico, e in particolare della nomina subito di "un vero leader" (Rutelli), e non di un semplice "speaker" come vorrebbe il premier.
A tutti costoro quest'ultimo rispondeva a muso duro, respingendo al mittente ogni richiesta di cambio o anche di solo aggiustamento della politica del governo, a costo di sbattere l'uscio e andarsene. "Il risultato del voto? Certo che non mi è piaciuto. E certo che mi preoccupa il calo di consensi nel Nord", ha ammesso Prodi, ma soltanto per aggiungere subito dopo: "Ma sa che le dico? Questo Paese era ed è ancora malato. Io gli ho fatto una bella operazione chirurgica. E non ho mai visto un malato che, dopo l'operazione, si mette a correre e ti dice 'come godo'. Quindi io vado avanti, perché sono sicuro che la terapia è quella giusta. E se c'è qualcuno che ne ha un'altra, si accomodi pure".
Quindi, avanti a tutta forza con la politica di "risanamento" già avviata con la Finanziaria, la cui prossima tappa è il taglio delle pensioni, dice in sostanza il capo del governo; che difatti ne ha anche per i sindacati, che "si devono convincere che questo Paese deve cambiare", e che "la riforma (della previdenza, ndr) è necessaria". Altrimenti trovatevi un altro premier, minaccia il dittatore democristiano agitando lo spauracchio delle elezioni anticipate che seguirebbero inevitabilmente alla crisi di governo. Una prospettiva che non può non spaventare tutti i partiti della coalizione di "centro-sinistra", specialmente dopo la batosta elettorale del 27 e 28 maggio che ha messo in evidenza il profondo scollamento con la base, e mentre i due principali partiti della maggioranza, DS e Margherita, sono ancora in mezzo al guado per dar vita al Partito democratico e si stanno accapigliando sulla sua leadership.
Prodi, insomma, si comporta esattamente come Berlusconi, che tutte le volte che sentiva aria di fronda nella sua Casa del fascio reagiva minacciando la crisi di governo e le elezioni anticipate, ottenendo come d'incanto il ricompattamento della coalizione sotto la sua indiscussa leadership. Cambiano i suonatori, ma la musica che si suona a Palazzo Chigi è sempre la stessa musica neofascista e presidenzialista. Anche il dittatore democristiano, come il neoduce di Arcore, si comporta come se governasse in una repubblica presidenziale di fatto, dove il premier è investito di poteri mussoliniani, decide da solo la politica del governo e può sciogliere il parlamento e provocare le elezioni anticipate se gli si toglie la fiducia. Non soltanto la politica interna e internazionale di Prodi è uguale a quella di Berlusconi, ma persino il metodo egocentrico e dittatoriale nel governare è lo stesso.
Il copione è lo stesso della mini crisi dello scorso febbraio sull'Afghanistan, quando il premier rimise in riga la coalizione imponendo il "dodecalogo" con cui si attribuiva poteri di arbitro assoluto della maggioranza. Tant'è vero che l'intervista è piena di espressioni ultimative e arroganti come "altrimenti avanti un altro", "se va bene è così, se no mi si mandi via", eccetera. A chi gli chiede di "cambiare passo" risponde a brutto muso che invece "è il momento di andare avanti per la strada che abbiamo intrapreso". All'accusa di essere ostaggio della "sinistra radicale" ribatte stizzito: "questa è una balla!". Il che è verissimo. E infine, riguardo alle manovre dei leader della Quercia e della Margherita, che si sono spartiti i posti nel "comitatone dei 45" che dovrà promuovere la nascita del già asfittico PD, Prodi lancia un minaccioso avvertimento a non tentare di scavalcarlo e metterlo da parte anzitempo: "Ma quante volte ho detto che i partecipanti a quel comitato non dovevano avere incarichi nei partiti? 'Levatrici' del PD, dovevano essere: così avevo detto, e mi hanno attaccato in tanti. Ma adesso basta. D'ora in poi cambia la musica. O si fa come dico io, o prendere o lasciare", tuona il capo del governo. E sembra di vederlo gonfiare il petto e sbattere in fuori la mascella come Mussolini.
Dunque non avevamo esagerato a ribattezzarlo "dittatore democristiano", quando la sua vera natura neofascista e presidenzialista si rivelò appieno, sotto l'abituale maschera bonaria e cardinalizia di vecchio volpone DC, tirando fuori dal cassetto il suo famigerato dodecalogo mussoliniano. Se n'è accorto - meglio tardi che mai - persino un suo fiancheggiatore come il trotzkista Valentino Parlato, normalmente abituato a mettere la sordina alle critiche al governo, osservando su "il manifesto" del 31 maggio, che "quando un leader - Prodi è anche tale - afferma che la ragione è tutta sua e le responsabilità della sconfitta sono tutte degli altri, senza neppure indicare nome e cognome (mettendo cioè sul banco degli imputati eletti ed elettori), allora siamo proprio alla fine del racconto. Se lo sconfitto si appaga di egolatria, siamo al delirio".
E se ne sono accorti - ma lo sapevano già - anche i manifestanti dei comitati No Dal Molin e No Tav che domenica 3 giugno hanno contestato Prodi a Trento, ai quali il dittatore democristiano ha opposto un silenzio sprezzante, con un atteggiamento tipicamente mussoliniano da "me ne frego delle vostre proteste".

6 giugno 2007