Il nuovo Vittorio Emanuele III dà ancora spazio al nuovo Mussolini
Berlusconi si dimetterà solo dopo l'approvazione della Legge di stabilità
Si profilano elezioni o un altro governo di macelleria sociale
L'unica vera alternativa è il socialismo

L'approvazione del Rendiconto dello Stato con solo 308 sì, nella votazione dell'8 novembre alla Camera, nettamente al disotto della maggioranza assoluta di 316 ottenuta con l'ultimo voto di fiducia, ha certificato lo sfaldamento della maggioranza di governo ormai in corso da giorni. Anche perché tra i 321 deputati che non hanno partecipato al voto, secondo le indicazioni dei partiti dell'"opposizione" che non volevano bocciare il provvedimento ma solo certificare la sparizione della maggioranza, ve n'erano anche diversi (una decina) appena usciti, o in procinto di uscire dal PDL. Non è quindi riuscito il tentativo di Berlusconi di convincere uno per uno, con promesse o con minacce, gli indecisi e i "traditori", così come non è riuscita la sua frenetica campagna acquisti in extremis tra le file avversarie per compensare l'emorragia di parlamentari dalla sua già esigua maggioranza.
Il neoduce ha ammesso livido e a denti stretti di avere "un problema di numeri", dopodiché si è chiuso in riunione con i vertici del PDL e della Lega per decidere il da farsi. Quindi si è recato da Napolitano e al termine dell'incontro un comunicato del Quirinale ha fatto sapere che il premier si dimetterà dopo l'approvazione della Legge di stabilità (ex Finanziaria), contenente anche il pacchetto di misure concordato con la UE e il Fondo monetario internazionale, dopodiché il capo dello Stato "aprirà le consultazioni". L'"opposizione" chiedeva invece le sue dimissioni immediate, ma evidentemente il nuovo Mussolini non accetta ancora di darsi per vinto, si abbarbica ancor più tenacemente alla poltrona e le rimanda a una data incerta, così da prendersi altro tempo per escogitare nuove strategie di sopravvivenza.
Intanto si sa benissimo quanto valgono le promesse per il nuovo Mussolini, e poi non è detto che queste dimissioni significhino automaticamente la sua uscita di scena. Se infatti riuscisse a tirare le cose per le lunghe fino ad arrivare a Natale, come aveva già prospettato ai suoi, non ci sarebbero più i tempi tecnici per un nuovo governo, e l'unica ipotesi in campo resterebbero le elezioni anticipate. Elezioni da tenersi a primavera, che gestirebbe lui col suo governo e che si terrebbero con l'attuale legge elettorale favorevole alla coalizione PDL-Lega. Ma anche se non gli riuscisse di tirare per le lunghe, farà fuoco e fiamme per bruciare il terreno a un altro governo e ottenere da Napolitano le elezioni anticipate. Ammesso che il nuovo Vittorio Emanuele III non gliele abbia già promesse, perché già il fatto che gli abbia concesso altro tempo, togliendolo così dall'angolo in cui si era cacciato da se stesso e legando le mani all'"opposizione" (che a questo punto ha dovuto rinunciare al tentativo di una spallata finale con una nuova mozione di sfiducia), è molto grave e conferma la complicità del nuovo Vittorio Emanuele III con il nuovo Mussolini.
In ogni caso, anche se alla fine lo stratagemma del neoduce dovesse fallire, si profilerebbe allora un nuovo governo di "emergenza", o di "solidarietà nazionale", o di "larghe intese" che dir si voglia (per il quale spuntano i nomi del tecnocrate liberista Mario Monti e dell'ex premier Giuliano Amato) che, data la situazione, non potrebbe che essere un governo di macelleria sociale come quello del nuovo Mussolini. Anche perché si è saputo di una nuova lettera della UE in cui si chiedono all'Italia misure aggiuntive a quelle già prese o annunciate finora. Per i lavoratori e le masse popolari equivarrebbe quindi a cadere dalla padella nella brace.

Il presidenzialismo di Napolitano
Ma intanto come si è arrivati a questo passaggio cruciale? Dopo la "lettera di intenti" da macelleria sociale di Berlusconi, approvata dalla UE e avallata da Napolitano, alla vigilia del G20 di Cannes a cui il premier si sarebbe dovuto presentare con un pacchetto di misure per attuarla, e mentre lui se ne andava a passare tranquillamente il week end nella sua villa in Sardegna, i mercati finanziari non sembravano affatto "rassicurati" e la situazione continuava anzi a precipitare, come mostravano i nuovi e ripetuti crolli in Borsa e le ulteriori impennate del differenziale (spread) tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi ben oltre quota 400. Ciò provocava un'allarmata presa di posizione critica nei confronti della latitanza del governo di tutte le associazioni imprenditoriali e bancarie (Confindustria, Rete imprese Italia, Abi, Alleanza cooperative e Ania), mentre la presidente degli industriali, Marcegaglia, tornava ad ammonire l'esecutivo chiedendogli di presentarsi al G20 "con cose fatte e non con una lista di cose da fare. Altrimenti ne tragga le conclusioni".
Anche Napolitano interveniva di propria iniziativa, convocando con un piglio presidenzialistico senza pari per "consultazioni" i leader dei partiti di maggioranza e "opposizione", svolgendo ancora una volta un ruolo decisivo per favorire la piena attuazione dei diktat europei: "Ho il dovere di verificare le condizioni per una larga condivisione nelle scelte che l'Europa ci impone", si giustificava il capo dello Stato facendosi garante egli stesso della manovra di lacrime, sudore e sangue chiesta dalla UE e scritta da Berlusconi.
Convinto da Letta a rientrare anticipatamente a Roma, Berlusconi convocava allora una riunione straordinaria del governo per approvare un decreto legge con le misure da presentare al G20, ma la riunione si dimostrava più difficile del previsto. In particolare riemergevano i contrasti che da tempo sono insorti tra il neoduce e il ministro dell'Economia Tremonti. Sembra che Napolitano, a detta del premier su istigazione del ministro, si sia opposto a inserire le misure in un decreto, cosa che contrastava col suo tentativo di coinvolgere l'"opposizione" nel sostegno alla manovra. E sempre per questo motivo avrebbe chiesto anche di non inserire alcune misure annunciate nella lettera, come la libertà di licenziamento e altre sulla giustizia. Alla fine il compromesso è stato trovato sull'inserimento del pacchetto di misure in un maxiemendamento alla Legge di stabilità presentata in parlamento.

Sfaldamento della maggioranza
Intanto la maggioranza cominciava a dare evidenti segni di sfaldamento. Dopo alcune defezioni alla spicciolata, i "malpancisti" del PDL cominciavano a venire allo scoperto, con sei deputati, tra cui gli (ex) fedelissimi berlusconiani Giorgio Straquadanio e Isabella Bertolini, che firmavano una "lettera a Berlusconi" in cui gli chiedevano "una svolta politica" e un "allargamento della maggioranza". Successivamente, dopo un fitto lavorio sottotraccia di Casini e Cirino Pomicino, altri deputati ex democristiani abbandonavano la maggioranza per iscriversi al gruppo misto in attesa degli eventi, e qualcuno addirittura, come l'ex berlusconiana di ferro Gabriella Carlucci, passava direttamente nelle file dell'UDC. Manovre a cui faceva riscontro, nel campo opposto, una frenetica caccia da parte dei reclutatori del premier a comprare parlamentari per compensare le perdite. In questo quadro il neoduce aveva anche condotto personalmente una serrata trattativa con Pannella e i 5 deputati radicali, attualmente in freddo con il PD, che però gli assicuravano i loro eventuali voti solo su singoli provvedimenti ma non la fiducia al governo.
Casini e Bersani, forti della nuova situazione di indebolimento della maggioranza, facevano presente a Napolitano che i tempi erano ormai maturi per un "governo di transizione", guidato da un'alta personalità "indipendente" come Mario Monti, per portare avanti le misure di "risanamento" e fare alcune riforme urgenti, come una nuova legge elettorale, per poi andare al voto. Napolitano rispondeva che "saranno gli sviluppi dell'attività parlamentare a consentire di valutare concretamente l'effettiva evoluzione del quadro politico-istituzionale". Come dire che prima di prendere qualsiasi iniziativa occorreva verificare se Berlusconi aveva ancora i numeri in parlamento per continuare a governare.
In sostanza l'inquilino del Quirinale continuava a coprire Berlusconi e dargli ossigeno, tant'è vero che parlando durante una visita in Puglia il 4 novembre, ha continuato a battere sul tasto della necessità di una "straordinaria coesione sociale e nazionale", per approvare "decisioni dolorose che potranno apparire impopolari" e che rendono "indispensabile un riavvicinamento tra i campi politici contrapposti". È facendosi scudo della sua copertura e di quella della UE e del FMI, che hanno praticamente commissariato il nostro Paese, che Berlusconi è tornato dal G20 dichiarando di averne ricevuto un avallo al suo governo, di avere ancora i numeri per governare e che "chi lascia la maggioranza compie un atto di tradimento nei confronti non del PDL ma del Paese".
Ciononostante le defezioni nella maggioranza continuavano, al punto che i suoi uomini, soprattutto Letta, Alfano, ma perfino il reclutatore Verdini, cominciavano a prospettargli seriamente la possibilità di non avere più ormai la maggioranza in parlamento, e che era tempo di "fare un passo indietro" e accettare delle soluzioni di riserva. La proposta era quella di dimettersi di propria iniziativa, prima di cadere in parlamento, così da mantenere un sufficiente potere contrattuale per imporre a Napolitano le elezioni anticipate. Oppure accettare un governo Letta, (o Alfano-Maroni, come gli proponeva la Lega), allargato all'UDC. Maroni arrivava addirittura a dichiarare in tv che questa maggioranza non esisteva più e che era "inutile accanirsi".

Continuità della politica di macelleria sociale
Ma il neoduce non ne voleva sapere di tutte queste proposte, continuava a ripetere che mai avrebbe mollato la poltrona, e che voleva "vedere in faccia chi aveva il coraggio di tradirlo" in parlamento. L'occasione si sarebbe presentata l'8 novembre, nella votazione sul Rendiconto di Bilancio, già bocciato e ripresentato alla Camera. Posizione che continuava a tenere ostinatamente anche dopo l'ennesimo drammatico tonfo di Borsa e rialzo dello spread fino a sfiorare quota 500, con una breve ma significativa inversione di tendenza quando il 7 novembre, lanciata da Giuliano Ferrara, si è diffusa la voce, poi da lui stesso smentita, delle sue imminenti dimissioni.
Quello stesso giorno, in piena tempesta finanziaria, il nuovo Mussolini si chiudeva nella sua villa di Arcore con i figli Marina e Piersilvio, il presidente di Mediaset Confalonieri e il fido avvocato Ghedini, per valutare le conseguenze di una eventuale caduta del suo governo sulle sue aziende e i suoi molteplici interessi privati. A dimostrazione che la sua pervicacia nel voler restare al potere non è dovuta al suo "carattere di combattente", come cianciano i suoi scherani, bensì alla necessità di difendere i suoi interessi economici e della sua famiglia, e anche di non fare la fine di Craxi, una volta privato dello scudo politico che lo protegge dalla giustizia.
Si è così arrivati al voto dell'8 novembre a Montecitorio che ha certificato la fine della sua maggioranza, ma non ancora del suo governo neofascista.
In ogni caso, lo ripetiamo, anche se il nuovo Mussolini dovesse alla fine arrendersi andare alle elezioni anticipate o passare la mano ad un "governo di salute pubblica" a guida Monti o Amato, o di qualche altro tecnocrate o politicante della destra o della "sinistra" borghese, su un fatto non ci piove: la politica di macelleria sociale imposta da Berlusconi continuerà. Nel mirino di questo governo, d'accordo con l'UE e il FMI imperialisti, saranno ancora le pensioni, la libertà di licenziamento e i diritti dei lavoratori, la svendita del patrimonio pubblico ai privati, le privatizzazioni e liberalizzazioni dei servizi pubblici, i lavoratori del pubblico impiego, i tagli alla sanità, alla scuola, ai trasporti, ai servizi sociali e all'assistenza, una nuova ondata di cementificazione del territorio e le "riforme istituzionali" di stampo neofascista, presidenzialista e federalista.
Solo il socialismo può rappresentare una vera alternativa alla macelleria sociale con cui i governi della borghesia mirano a scaricare sui lavoratori e le masse popolari la crisi irreversibile del capitalismo. Intanto la parola d'ordine che il nuovo Mussolini va abbattuto dalla piazza è tuttora più attuale e adeguata che mai.

9 novembre 2011