Marx e Lenin su speculazione e parassitismo imperialista
La bufera finanziaria infuria in tutto il mondo e si abbatte sull'"economia reale"
La crisi costerà 1400 miliardi. Crescita zero per Usa e Ue

Dopo il "lunedì nero" del 29 settembre le Borse mondiali hanno dovuto soffrire un'intera "settimana nera", quella che va dal 6 al 10 ottobre scorsi, quando nonostante il frenetico affaccendarsi dei governi e delle istituzioni monetarie per arginare la crisi planetaria i titoli hanno continuato a franare inesorabilmente ad ogni apertura di seduta, in oriente come in occidente, mandando in fumo ogni giorno migliaia di miliardi di dollari dei risparmiatori.
Ogni giorno e dappertutto le Borse registravano perdite tra il 5 e il 10 per cento, insensibili ai fiumi di liquidità iniettati in continuazione dalla Fed americana, dalla Bce europea e dalle altre istituzioni monetarie per "raffreddare" i mercati; incuranti degli appelli, delle misure d'emergenza e delle rassicurazioni dei governi nazionali; indifferenti alle riunioni straordinarie effettuate o annunciate dalle organizzazioni politiche interimperialistiche, G4, G7, G8, G20 e chi più ne ha più ne metta. Anzi, ognuno di questi interventi "straordinari" sembrava non far altro che confermare la paura e la sfiducia che ormai dominano nei mercati. In questa specie di apocalisse annunciata dell'economia capitalistica mondiale non è mancato nemmeno, come uno spettro riemerso dalle tenebre del Medioevo, l'intervento del papa nero Ratzinger ad ammonire ipocritamente le masse che "i soldi sono niente" e che solo la parola di Dio è "stabile come il cielo e più del cielo".
Neanche la decisione senza precedenti del taglio di mezzo punto dei tassi di interesse, deciso contemporaneamente dalla Fed, dalla Bce e dalle banche centrali di Canada, Svizzera, Gran Bretagna e Svezia, seguito perfino da un taglio di un quarto di punto dalla Cina, è servito a rassicurare i mercati e a frenare l'ondata di panico generale. Dappertutto code agli sportelli per ritirare i depositi, agenti tempestati di telefonate di ordini di vendita, titoli in picchiata, persino Borse chiuse per eccesso di ribasso, come quelle di Mosca e di San Paolo del Brasile. Ad aumentare il pessimismo arrivava anche una lugubre previsione del segretario al Tesoro americano, Paulson, secondo il quale dovranno arrivare altri crac bancari.

Il costo della crisi
La paralisi del credito è ormai quasi totale, con le banche che non si prestano neanche il denaro fra di loro per paura di insolvenze, e men che mai lo concedono alle imprese e alle famiglie, strangolando progressivamente sia la produzione che i consumi. Non a caso, parallelamente al crollo dei titoli, precipita anche il prezzo del petrolio, segnale evidente della crisi mondiale dei consumi che si prospetta. In America, fatto senza precedenti, la Fed si è dovuta sostituire alle banche nel prestare direttamente denaro alle imprese per "stasare" i canali otturati del credito. Perfino Stati ricchi come la California e il Massachusetts hanno lanciato l'allarme per l'esaurimento dei fondi per pagare i servizi e gli stipendi. Secondo il Fondo monetario internazionale la crisi costerà 1400 miliardi di dollari, di cui 580 già accertati, il 40% a carico dell'Europa; e questo calcolando solo le ricadute dei mutui subprime. Da notare che un anno fa Bernanke aveva predetto che la crisi dei subprime sarebbe costata al massimo un centinaio di miliardi.
L'Islanda è sull'orlo della bancarotta, con la corona che si è svalutata del 30%, e ha dovuto chiedere un prestito alla Russia, dopo la nazionalizzazione delle sue due banche principali e il blocco dei conti correnti. Misura che ha fatto infuriare il governo inglese e terrorizzato migliaia di risparmiatori britannici che avevano investito i loro soldi nell'isola attirati dagli alti tassi di remunerazione. Il governo inglese, a sua volta, ha varato un gigantesco piano di semi-nazionalizzazione delle sue banche principali, stanziando a questo scopo ben 250 miliardi di sterline, a riprova che nemmeno l'economia britannica è messa tanto bene, dopo il boom economico e finanziario, evidentemente molto gonfiato, di questi anni.
Anche l'incertezza e la mancanza di accordi credibili tra i governi europei contribuivano all'instabilità generale. Non c'erano solo le discordie tra Gran Bretagna e Irlanda e tra Gran Bretagna e Islanda a seminare sfiducia, ma anche tra Francia, Belgio e Olanda, dopo l'acquisizione della banca belga-olandese Fortis da parte della francese Paribas, alimentando i sospetti che alcuni Paesi sfruttino la debolezza di altri per ingrassarsi a loro spese. Per non parlare della riluttanza della Germania ad accettare piani di intervento comuni nel timore di dover pagare anche per gli altri. L'unica decisione che gli europei riuscivano a prendere era quella dell'Ecofin di fissare un tetto di protezione comune per i conti correnti, portandolo a un minimo obbligatorio di 50 mila euro e "consigliato" di 100 mila.
Berlusconi, mentre moltiplicava gli appelli rassicuranti e i "consigli" ad investire in azioni Eni, Enel e Mediaset, tra promesse di tagliare le tasse, notti passate in discoteca e serate al Bagaglino, si è lasciato sfuggire che a un certo punto tra i governi del G7, riuniti d'urgenza a Washington il 10 ottobre tramite i loro ministri economici ricevuti anche da Bush, si è presa in considerazione l'ipotesi di chiudere i mercati in attesa di una nuova Bretton Woods per riscrivere le regole della finanza internazionale. Dichiarazione poi regolarmente declassata dal neoduce al rango di semplici "voci" sentite dalla radio francese, non appena è arrivata la gelida smentita di Washington, ma che fotografa eloquentemente lo stato confusionale e di impotenza in cui sono precipitati i "potenti" del mondo di fronte a questa crisi; che del resto era tutt'altro che imprevista, annunciata da almeno un anno, da quando era scoppiata la bolla speculativa dei mutui subprime americani.
Di fronte all'incalzare della crisi anche il governo Berlusconi, come già avevano fatto la Merkel, Gordon Brown, Zapatero e altri leader europei, è dovuto correre ai ripari e ha varato un decreto per prepararsi al salvataggio del sistema bancario italiano. Che anche se Berlusconi non fa che ripetere che è "il più solido d'Europa" ha cominciato a dare più di un sinistro scricchiolio. Mentre infatti non si è arrestata l'emorragia dei titoli Unicredit, malgrado la ricapitalizzazione da 6,6 miliardi di euro, anche i titoli di Intesa Sanpaolo hanno cominciato a subire pesanti perdite in Borsa. Da qui la convocazione d'urgenza l'8 ottobre di un vertice al Tesoro, a cui hanno partecipato il governatore di Bankitalia Draghi, i vertici bancari dell'Abi, Confindustria e Mediobanca, per definire le linee del decreto salva-banche, poi varato dal Consiglio dei ministri.

Un decreto salva-banche e uno salva-bancarottieri
Il decreto prevede sostanzialmente l'aggiunta di un fondo di garanzia statale a quello interbancario a maggior tutela dei conti correnti, la facilitazione delle procedure di concessione dei crediti da parte di Bankitalia agli istituti finanziari e l'impegno del governo, senza limiti di spesa, ad interventi di ricapitalizzazione delle banche che dovessero trovarsi in pericolo di fallimento, attraverso l'acquisto da parte del Tesoro di azioni privilegiate delle stesse, quindi senza diritto di voto. Un particolare, questo, presentato come riprova della volontà del governo di non entrare nella "governance" delle banche, per non turbare il loro carattere privato e la loro "autonomia dalla politica". In realtà le cose non stanno proprio così, perché comunque Bankitalia e lo stesso Tesoro (cioè il governo), non solo avranno potere nel decidere a quali banche concedere aiuto e quali no, ma potranno anche mettere il becco su ogni cambiamento di assetto interno. In questa luce appare inquietante la presenza di Mediobanca al vertice convocato da Tremonti, banca in mano a Geronzi e a Berlusconi, tramite sua figlia Marina che è entrata recentemente nel Cda di piazzetta Cuccia.
Un decreto-cavallo di Troia per permettere al neoduce e ai suoi amici di approfittare della crisi per mettere le mani sul sistema bancario nazionale? Ad alimentare il sospetto c'è stata l'emersione dello scandalo - rivelato solo grazie ad un'inchiesta della trasmissione di Rai3 "Report", ripresa da "la Repubblica" - dell'approvazione al Senato di un emendamento del Pdl al decreto Alitalia che eliminava ogni responsabilità penale per i dirigenti se le aziende che hanno mandato in malora non sono state dichiarate fallite. Significava che bancarottieri come Tanzi, Cragnotti e lo stesso Geronzi erano al riparo dalla galera. Un'altra legge-vergogna, approvata alla chetichella, fra l'altro nell'indifferenza dell'opposizione parlamentare, che non si era "accorta" dell'inghippo, e che il governo ha dovuto ritirare dopo che anche Tremonti, per salvare la faccia, ha minacciato in caso contrario le sue dimissioni. Nonostante tutto ciò Veltroni ha offerto l'ampia disponibilità del PD a collaborare col governo in nome della "emegenza nazionale", al punto da contemplare anche l'ipotesi di un rinvio della manifestazione del 25 ottobre. Ricevendo per giunta dal neoduce un beffardo "non me ne frega niente".
Malgrado le misure decise dal governo italiano e quelle dei governi della zona dell'Euro riuniti a Parigi il 12 ottobre, che hanno approvato un altro pacchetto comune di interventi di salvataggio ma da applicare ognuno in casa propria, e che hanno ridato un po' di fiato alle Borse stremate e all'"economia di carta", le preoccupazioni si appuntano adesso sull'"economia reale". Dietro la crisi finanziaria si sta profilando infatti una pesante recessione mondiale, i cui sintomi cominciano ad apparire evidenti con la paralisi del mercato delle automobili, che negli Usa sta portando al tracollo giganti come GM, Chrysler e Ford, e che in Europa ha già costretto BMW e Fiat a ridurre la produzione e a ricorrere ad un uso massiccio della cassa integrazione.
Il presidente del Fondo monetario internazionale Strauss-Khan ha detto senza mezzi termini che "siamo sull'orlo di una recessione globale" e che "le ricadute della crisi sull'economia reale sono peggio delle attese". Se gli Stati Uniti e la Ue sono ormai alla crescita zero, per il Fmi Italia e Regno Unito sono già alla recessione, e ci aspettano almeno due anni di "crescita" sotto zero. E nemmeno i paesi emergenti e quelli più poveri ne saranno risparmiati, tanto che il presidente della Banca mondiale prevede 44 milioni di affamati in più per quest'anno.
La presidente di Confindustria, Marcegaglia, ha ammesso che "ci siamo sbagliati, la realtà è peggiore delle previsioni" (rispetto alla crescita poco superiore allo zero) e che "la crisi avrà effetti significativi", con una riduzione dello 0,5% del Pil nel 2009. Anche le associazioni dei commercianti prevedono ricadute pesanti sulla miriade di piccole e medie imprese, strette tra il taglio del credito e il calo dei consumi, già sceso del 2% ancor prima dell'attuale crisi, con un saldo negativo di 10 mila aziende entro l'anno. Sono già 1.200 le imprese che hanno fatto ricorso alla cassa integrazione, +25% rispetto al 2007. Dall'inizio dell'anno sono già 73 mila i lavoratori a zero ore, ma si teme che saliranno presto a centinaia di migliaia quando la crisi dei subprime comincerà veramente a far sentire i suoi effetti.
La battaglia per il lavoro, gli aumenti dei salari e delle pensioni, il blocco dei prezzi e delle tariffe, il taglio delle tasse agli operai e ai pensionati e per respingere il nuovo contratto di lavoro è quanto mai necessaria e di attualità.

15 ottobre 2008