Proponendosi come grande potenza finanziaria
La Cina abbandona il dollaro
Il valore dello yuan non è più agganciato alla valuta Usa ma a un paniere composto da dollaro, yen ed euro

La Banca centrale cinese, la Banca popolare della Cina, ha annunciato alla fine del luglio scorso lo sganciamento della moneta nazionale dal dollaro, la sua rivalutazione del 2% e la possibilità di una oscillazione di più o meno lo 0,3% che potrebbe essere allargata in futuro in base "alle condizioni dei mercati". Il valore dello yuan, o renminbi, è stato stabilito a 8,11 per un dollaro contro gli 8,27 precedenti, un valore che sarà agganciato non alla sola valuta americana ma a un paniere composto dal dollaro, dall'euro e dallo yen giapponese.
Il governo di Pechino e la Banca centrale potranno agire con maggiore libertà nelle relazioni monetarie con gli altri paesi, nelle manovre sui tassi di interesse e altri strumenti di controllo di un'economia che rischia di esplodere per "eccesso" di sviluppo, con una crescita del prodotto interno lordo (pil) superiore al 9% annuo negli ultimi tre anni, di gran lunga superiore a quello delle concorrenti Usa e Europa, e una costante crescita di ingresso di capitali stranieri che nel 2004 hanno superato il valore di quelli entrati in Usa. Una crescita di ricchezza che sta facendo salire l'inflazione attorno al 4% e crea situazioni speculative e artificiose come nel mercato immobiliare.
La cricca revisionista e fascista di Pechino aveva deciso nel 1994 di agganciare al dollaro lo yuan con un valore di 8,7 yuan per un dollaro. Il rapporto tra le due monete era stato ritoccato solo nel 1998 e portato a 8,27. Il rapporto fisso tra le due monete ha fatto sì che il deprezzamento del valore del dollaro trascinasse automaticamente lo yuan rendendo ancora meno cari i prodotti cinesi sui mercati mondiali. Un elemento che ha favorito la rapida crescita delle esportazioni cinesi in particolare in Europa dove l'euro si apprezzava sul dollaro.
Certo il vantaggio dai capitalisti cinesi e delle multinazionali che si sono precipitate a investire nel paese non dipende solo dal valore della moneta; il cosiddetto "miracolo" cinese si basa su bassisimi salari, che a seconda dei settori industriali varia da un ventesimo alla metà di quelli americani e europei, sul supersfruttamento dei lavoratori, assieme a elevate qualità dell'istruzione e della ricerca scientifica messe al servizio dei profitti della borghesia.
Quando nel 1997 la crisi finanziaria asiatica provocò la svalutazione di molte monete il governo di Pechino decise di mantenere lo yuan agganciato al dollaro. Una decisione che ottenne gli elogi americani perché contribuì a non allargare la voragine della crisi, che poteva avere ripercussioni pesanti sul resto del mondo, anche se le esportazioni cinesi in Asia ne uscirono penalizzate; il "sacrificio" di Pechino fu tra l'altro compensato con il via libera all'ingresso della Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto, nella sigla inglese). Allora la cricca revisonista e fascista di Pechino non era comunque pronta al salto successivo, deciso lo scorso 21 luglio.
Secondo le analisi degli economisti, la Cina con la rivalutazione dello yuan pagherà meno le crescenti importazioni di petrolio e altre materie prime e potrà ridurre il rischio inflazione. Di contro rischia di frenare le proprie esportazioni: da una stima della banca centrale tedesca, l'attivo commerciale cinese pari a 32 miliardi di dollari nel 2004 poteva diventare di circa 100 miliardi nel 2005 mentre dopo la rivalutazione della moneta si dovrebbe fermare a 72 miliardi, che comunque è il doppio sull'anno precedente.
La decisione "tecnica" sulla moneta avrà vantaggi e svantaggi per l'economia cinese ma si presenta soprattutto per il valore politico che sottintende: la seconda economia del mondo sgancia lo yuan dal dollaro quale unica moneta di riferimento e si presenta a tutto tondo come la grande potenza finanziaria che attualmente è. Come una superpotenza non più impegnata solo a produrre merci e a ampliare le poprie esportazioni ma che, con la piena disponibilità di tutti gli strumenti finanziari, può competere a armi pari sui mercati mondiali in difesa dei propri interessi imperialisti.

26 ottobre 2005