Indagine dell'antimafia
Ex-collaboratore di Berlusconi favorì la mafia negli appalti per il Ponte sullo Stretto
Coinvolto anche un senatore

Si prevedono nuovi guai giudiziari per alcuni affaristi senza scrupoli, pescecani mafiosi e politicanti borghesi legati all'entourage del neoduce. La nuova indagine dell'Antimafia parte da numerose intercettazioni riguardanti uno dei maggiori affari sporchi mai partoriti dalla mente antipopolare e criminale dei governi nazionali della destra e della "sinistra" borghese: la mostruosa opera del Ponte sullo Stretto.
La ricostruzione giudiziaria parte dall'estate del 2003, quando in un hotel romano viene programmato un incontro a cui partecipano, tra l'altro, un noto avvocato milanese e Giuseppe Zappia, legato al clan Rizzuto di Montreal. "Joseph" Zappia, ingegnere italo-canadese, già arrestato nel 2005 per un'indagine partita da una segnalazione della polizia canadese sulle operazioni finanziarie dei Rizzuto, veniva successivamente accusato di aver fatto da "schermo" al tentativo di avviare un'imponente operazione di riciclaggio: l'investimento di 5 miliardi di dollari nella progettazione e nei lavori di costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, e condannato, nell'aprile del 2010, dal Tribunale di Roma a tre anni e sei mesi di reclusione e a due anni di libertà vigilata, anche se è stato assolto dall'accusa di turbativa d'asta per le gare relative al Ponte.
Una famiglia mafiosa, quella dei Rizzuto, ben inserita negli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi, come ha rivelato un'altra recente inchiesta, che nell'ottobre del 2007 sfociava in 19 provvedimenti cautelari, relativa alle compravendite dei pacchetti della società quotata in Borsa (Milano) e facente capo al boss della famiglia italo-canadese originario di Cattolica Eraclea (Agrigento), "don" Vito.
Da questa inchiesta veniva già fuori che i mafiosi siculo-canadesi riuscivano a trasferire titoli e denaro anche di provenienza illecita al di fuori del territorio dello Stato canadese, depositandoli su conti correnti presso banche estere, grazie alla collaborazione di funzionari di banche svizzere, italiane, canadesi e di professionisti di varie nazionalità.
Ma le intercettazioni recentemente rese note dalla magistratura, mostrano un importante elemento, che ad un'attenta analisi politica non poteva sfuggire di certo, ma che, finora, da un punto di vista giudiziario non aveva conferma: le operazioni della famiglia mafiosa, dagli investimenti, al riciclaggio di denaro sporco avvenivano con la collaborazione attiva, in taluni casi definita "fondamentale" di esponenti delle istituzioni borghesi di levatura nazionale.
All'incontro, di cui parliamo in apertura dell'articolo, tenuto nel 2003 nell'hotel romano e finalizzato a trovare gli strumenti più adatti a recuperare un credito che la famiglia Rizzuto vantava con gli Emirati Arabi, per poi investirlo nell'affare del ponte, partecipa anche un senatore che grazie al fatto di avere "contatti con Abu Dhabi" ed essere "amico dell'emiro da 20 anni" è scelto come soggetto di intermediazione.
"Il senatore - affermava un pluripregiudicato per reati di mafia - sta dietro Pasini e vogliono mangiare", cioé avere la loro parte, quando si sarebbe recuperato il credito negli emirati.
Il Pasini, cui si riferisce il mafioso, legato al senatore Marcello Dell'Utri, è stato per decenni responsabile dei rapporti istituzionali di Assolombarda, associazione delle imprese industriali e del terziario dell'area milanese, e nel 2001 è chiamato direttamente dal neoduce a ricoprire la carica di consigliere per la comunicazione a Palazzo Chigi. Anche lui partecipa all'incontro. È del 2004 l'intercettazione in cui tenta di aiutare Vito Palazzolo, il cassiere dei Corleonesi, a risolvere i suoi guai con la magistratura, mettendogli a disposizione per facilitargli affari anche i suoi contatti nel mondo imprenditoriale e dell'alta finanza milanese.
Il mafioso che fa il nome del collaboratore di Berlusconi e amico del senatore dell'Utri, Pasini, è Cannalire, finito sotto inchiesta alla fine degli anni Ottanta per la finanziaria Intercafim, con sede nello stesso palazzo che nel 1983 era nel mirino delle inchieste sugli affari dello stalliere di Arcore, Vittorio Mangano.
Rimane, tuttavia, "ignoto", almeno per il momento il nome del senatore. Qualche giorno prima dell'incontro nell'hotel romano, gli intercettati parlano ancora di un politico nazionale: "È potentissimo non è parte del governo, questo è il numero uno, numero due. E per evitare scandali in futuro non dovrà prendere un euro. Lui ha detto: vi dirò a chi dovere dare i soldi". È il medesimo senatore dell'altra intercettazione? Si tratta di qualcun altro?
Un'inchiesta dai contorni esplosivi questa, le cui intercettazioni, già da sé, dimostrano come siano saldi i rapporti tra l'imprenditoria e la finanza del Nord e la borghesia mafiosa siciliana e non solo. Elemento ben più rilevante, le intercettazioni rivelano che i politicanti borghesi a livello locale e nazionale non hanno più soltanto un ruolo di generale rappresentazione degli interessi della mafia, attraverso l'approvazione di leggi a favore della mafia o lo stanziamento di finanziamenti ecc., ma vi partecipano attivamente, con un ruolo non solo di apripista agli affari e agli investimenti sporchi sul territorio nazionale, ma addirittura di rappresentazione, mediazione e pressione internazionale a favore di questo o quel clan mafioso. Una vicenda che, in sostanza, mostra chiaramente che la testa della piovra mafiosa si trova nell'alta finanza, nei circoli dell'industria, dell'agricoltura, del terziario e nelle istituzioni. Cioè dentro la classe dominante borghese, lo Stato borghese e l'economia capitalista.

9 febbraio 2011