I co.co.co. diventeranno "collaboratori a progetto"
La condizione di precariato non cambia, anzi peggiora
A tre anni dall'approvazione della legge n. 30 che rese precario tutto il "mercato del lavoro" tanto da far dire al neoduce Berlusconi "siamo il Paese che ha la maggiore flessibilità nella Ue", e a due anni dal decreto di applicazione di essa, il 25 ottobre scorso è scaduta l'ultima proroga concessa per la cessazione dei contratti di collaborazione coordinata continuativa (co.co.co.) e la loro trasformazione in contratti di collaborazione a progetto (co.co.pro.).
È quindi un'occasione per verificare se questo passaggio è effettivamente avvenuto e in che misura, per evidenziare quali sono le condizioni di lavoro e il trattamento sindacale di questi lavoratori a progetto. Ma prima è bene ricordare gli obiettivi sbandierati dal ministro leghista del welfare, Roberto Maroni, al momento del varo della controriforma: favorire in generale una maggiore occupazione; far assumere a tempo indeterminato coloro che svolgono un lavoro non "parasubordinato" ma dipendente; ridurre l'uso di questa forma di contratto, ma solo di quello legato allo svolgimento di un progetto specifico; oppure far diventare a tutti gli effetti dei lavoratori autonomi con tanto di partita Iva, coloro che prestano la loro attività di fatto nell'ambito della libera professione.
La faccenda è molto seria in quanto coinvolge una massa enorme di persone. I co.co.co. introdotti dal governo Dini, hanno avuto in pochi anni una diffusione ampissima e capillare in tutte le parti d'Italia e in tutte le categorie lavorative private e pubbliche. Le cifre rese pubbliche dai vari enti interessati non sempre coincidono, comunque sono sempre alte. Nell'ultimo trimestre 2004 l'Istat ne contava 407mila, mentre Nidil-Cgil (il sindacato che si interessa dei lavoratori "atipici") parla di oltre 1 milione e 100 mila. Più o meno il 30% dell'insieme dei lavoratori "atipici", interinali, occasionali, pari a 3.243.660 unità.
Le ragioni padronali di questa diffusione stanno nella flessibilità estrema e nello sfruttamento bestiale di questi lavoratori. I quali non hanno garanzie di nessun tipo: né di lavoro né assistenziali né di tutela sindacale, possono essere licenziati in ogni momento, percepiscono bassi salari, hanno difficoltà persino ad ottenere un mutuo per la casa e alla fine della "carriera" avranno una pensione non oltre il 30-40% della retribuzione.
Già in un articolo apparso sul n. 41/2004 de "Il Bolscevico" confutammo le affermazioni ingannatorie del governo secondo cui la "riforma" avrebbe messo ordine nel marasma dei co.co.co., sanato le ingiustizie e facilitato l'assunzione fissa dei presunti lavoratori "atipici". E si precisava che le conseguenze del provvedimento in questione portavano, insieme agli altri della legge 30, a una riduzione complessiva dei lavoratori a tempi indeterminato, ad un aumento conseguente del lavoro precario, alla mancata crescita reale e assoluta dell'occupazione in Italia. La quale, è bene sottolinearlo, è negli ultimi posti in Europa nella classifica occupati-popolazione in età lavorativa, e rimane assai distante dall'obiettivo stabilito dalla stessa agenda di Lisbona, cioè del 70% di tasso occupazionale da realizzare entro il 2010.
Si denunciava inoltre che nel primo anno di applicazione della "riforma" il passaggio dei co.co.co. verso il contratto progetto (appena il 2-3%) aveva fatto fallimento e che le aziende preferivano di gran lunga spingere gli "atipici" verso il lavoro autonomo, per quanto prestassero la loro opera, di fatto, come lavoratori dipendenti. Le cose ad oggi sono rimaste pressoché identiche! Solo il 6,5% degli ex co.co.co. ha oggi un contratto a tempo indeterminato. Per il resto (cioè il 93,5%) transita da un contratto precario all'altro, oppure è passato direttamente al lavoro "nero".
Secondo un'indagine condotta da Nidil e Ires-Cgil, il passaggio dei co.co.co. a lavoro a progetto sarebbe aumentato in percentuale ultimamente. Va precisato però che il cambiamento è solo formale: precario prima e precario dopo senza tutele sindacali previdenziali. La stessa indagine segnala comunque una parte consistente di co.co.co. che è rimasta tale nonostante la fine della proroga. Infine, c'è un 5,8% "convinto" dall'azienda, pena la perdita del posto di lavoro, ad aprire la partita Iva, pur svolgendo a tutti gli effetti un ruolo dipendente, subendo così oltre alla beffa il danno, visto che dovrà pagare più tasse.
Per il futuro le cose non andranno meglio, anzi! Nelle legge finanziaria 2006, per esempio, è previsto un drastico taglio dei co.co.co. nella pubblica ammnistrazione. Dunque, il passaggio tanto decantato sarà quello verso la disoccupazione. Inoltre, a sentire Paolo Citterio, presidente di Gidp, associazione di 1.250 direttori del personale, dei co.co.co. rimasti solo il 10% otterrà contratti di lavoro di vario genere: a termine, apprendistato, lavoro a progetto, lavoro autonomo con partita Iva e una minima parte del suddetto 10% a tempo indeterminato.
Insomma, ancora una volta c'è la prova che il problema non è di trasformare i co.co.co. in lavoro a progetto o nelle altre decine di forme di lavoro precario quali il lavoro a chiamata, il lavoro ripartito in più persone, il lavoro in affitto anche a tempo indeterminato per citare i più odiosi, ma di abrogare l'intera legge 30, non però per tornare al "pacchetto Treu", ma per rilanciare la piena occupazione fondata sul lavoro stabile, a tempo e a salario intero e tutelato sindacalmente.

30 novembre 2005