Con la "riforma" del modello contrattuale
La Confindustria vuole sostituire il contratto nazionale con il contratto individuale
Renderebbe inutile il sindacato e riporterebbe i lavoratori a un paio di secoli fa
Tra gli obiettivi che la Confindustria si propone di raggiungere con la "riforma" del modello contrattuale c'è con tutta evidenza la demolizione del contratto collettivo nazionale di lavoro e accanto, non in modo altrettanto evidente, un po' nascosto tra le pieghe, l'intenzione di sostituirlo oltreché con la contrattazione di secondo livello (aziendale e territoriale), col contratto individuale. Un obiettivo padronale questo, iperliberistico e ultrareazionario, di cui forse non c'è sufficiente coscienza, che se passasse renderebbe praticamente inutile l'esistenza del sindacato e riporterebbe indietro di alcuni secoli i lavoratori e la capacità di tutelare e rivendicare i loro diritti contrattuali e salariali collettivi.
"L'idea del contratto individuale per tutti - ha detto in proposito di recente il professore di diritto del lavoro, Luciano Gallino - non è ovviamente nuova, tra gli imprenditori, i politici ed i giuslavoristi. Di fatto da parecchi lustri la legislazione italiana sul lavoro si muove in tale direzione". Sulla progressiva individualizzazione del rapporto di lavoro palesemente si fondano, per esempio, la legge 30 del 2003 e il decreto attuativo 276/2003. Inoltre, il bersaglio dichiarato della "riforma" contrattuale è per l'appunto il contratto collettivo nazionale.
Il contratto collettivo nazionale di lavoro e il contratto individuale sono due concezioni opposte, la prima più favorevole ai lavoratori la seconda sfacciatamente a favore dei padroni. "Ma in questa opposizione - precisa Gallino - non sono in gioco soltanto architetture contrattuali. La insistita proposta di tale tipo di contratto rappresenta infatti una negazione autoritaria delle stesse ragioni di esistenza del sindacato dei lavoratori. Tre secoli fa - aggiunge - essi cominciarono ad associarsi per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Nessuno poteva sognarsi da solo di ottenere simili progressi. Troppa era la debolezza contrattuale di ciascuno di fronte al potere economico, politico e sociale degli imprenditori, dei mercanti, delle pubbliche autorità".
Per approfondire questo concetto, il professore cita Adam Smith, uno dei massimi teorici di economia politica della borghesia liberale, non certo dalla parte del proletariato, nella sua opera "La ricchezza delle nazioni" (1776), mette in evidenza che gli interessi delle due parti, lavoratori e padroni, non sono affatto gli stessi, e per entrambe l'associazione è indispensabile al fine di difenderli. "Gli operai - scriveva - desiderano ottenere quanto più è possibile. I padroni di dare quanto meno è possibile. I primi sono inclini ad associarsi per innalzare il prezzo del lavoro, i secondi ad associarsi per abbassarlo". Il livello del salario "dipende dal contratto concluso ordinariamente tra le due parti". Cioè tra l'associazione dei lavoratori e quelle dei padroni.
L'idea settecentesca del contratto individuale, riesumata e rilanciata dalla Confindustria in un clima da terza repubblica, si fonda sul presupposto della formale "uguaglianza" di diritto tra le due parti. "Un presupposto che ignora - insiste Gallino - la abissale diseguaglianza di risorse economiche e giuridiche, di mezzi di sussistenza, di peso politico, di capacità di resistere senza lavorare e produrre che sussiste tra il singolo lavoratore e la singola impresa".
Discende proprio da questa disparità la necessità di un sindacato che al tavolo della contrattazione sappia portare la forza dei singoli lavoratori che si uniscono per difendere al meglio il salario e le condizioni di lavoro. Riproporre il concetto falso e non corrispondente alla realtà di "uguaglianza di diritto tra le parti" significa in pratica negare le ragioni sostanziali di esistenza dell'associazione sindacale. Lungo questa via si potrebbe procede all'abolizione del sindacato.
Basterebbe, ricorda come monito, rispolverare le disposizioni del "Combination Act", una legge antisindacale del 1800 approvata nel Regno Unito che vietava la stipula di accordi collettivi per ottenere aumenti salariali, oppure ridurre o cambiare l'orario di lavoro e prevedeva anche fino a tre mesi di prigione per i trasgressori, a discrezione del giudice. "Ho ricordato questa famosa legge antisindacale del passato - dice Gallino - perché al fondo inclinato su cui il sindacato come istituzione pare rapidamente scivolare, a forza di diluire la vocazione originaria di attore che traduce la debolezza economica individuale in una forza collettiva per sua natura conflittuale, potrebbe trovarsi in un futuro non troppo distante davanti a qualcosa di simile".

22 ottobre 2008