La Consulta: la Fiat non poteva escludere la Fiom dall'azienda
La legge impugnata da Marchionne giudicata anticostituzionale
Ma la questione della democrazia nelle fabbriche rimane

La Corte Costituzionale ha stabilito che l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori è anticostituzionale e quindi la Fiat non può impedire alla Fiom (il sindacato dei metalmeccanici Cgil) di svolgere regolare attività sindacale in azienda. È l'ultima, importante e decisiva sentenza della lunga battaglia tra la Fiom e la casa automobilistica torinese che si è svolta, e si svolge tuttora, nelle fabbriche, nelle piazze e anche nelle aule dei tribunali di tutta Italia.
Marchionne e la Fiat per escludere la Fiom si erano basati su questo articolo dello Statuto poiché esso recita: "rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva". Se lo Statuto dei Lavoratori introdotto nel 1970 sulla spinta di grandi lotte operaie complessivamente rappresentò un miglioramento delle leggi che regolavano le relazioni industriali e sindacali fino ad allora rimaste ancorate al fascismo, è evidente come questa specifica norma entri in contrasto con la stessa Costituzione, in particolare con gli articoli 2, 3 e 39 , ossia sulla lesione del principio solidaristico, la violazione del principio di uguaglianza e del principio di libertà sindacale, e dello stesso avviso è stata la Consulta.
In concreto la Fiom potrà esercitare la propria attività negli stabilimenti Fiat usufruendo di permessi sindacali, assemblee, bacheche (la Fiat aveva proibito anche queste!). Si tratta di un altro colpo dato al famigerato modello Marchionne che prevede relazioni sindacali di stampo mussoliniano introdotto per primo a Pomigliano. Bonanni e Angeletti lo accettarono subito assicurando che si trattava di un accordo transitorio e limitato alla fabbrica campana; ben presto invece, com'era prevedibile, è stato esteso a tutti gli stabilimenti del gruppo Fiat e in seguito anche alla maggior parte delle fabbriche del Paese.
La Fiat già negli anni '50 del secolo scorso era alla testa della repressione padronale e in seguito si è sempre distinta per i suoi atteggiamenti antidemocratici e fascisti e se li elenchiamo tutti la lista è infinita, quindi la Fiom ha ben ragione a dire che la Costituzione e la democrazia (seppur borghesi, aggiungiamo noi) è di nuovo entrata in Fiat. Non è ammissibile che in questa azienda non valgano le stesse regole vigenti in tutti gli altri luoghi d'Italia, non si può permettere che i diritti dei lavoratori conquistati con le lotte e con il sangue si fermino davanti ai suoi cancelli. Si tratta quindi di una vittoria per la Fiom e per tutti i lavoratori, ma che non chiude la questione della democrazia nei luoghi di lavoro come del resto ha ammesso lo stesso Landini.
La Costituzione sul tema è molto vaga e fino agli anni '70 i rappresentanti aziendali erano generalmente espressione diretta delle varie sigle sindacali mentre i lavoratori avevano poca voce in capitolo. Solo con le lotte del '68-'69 e il forte protagonismo operaio vi furono le prime regole stabilite dalla legge 300 del 1970, che altro non è che lo Statuto dei lavoratori. Tutte le leggi e accordi in materia hanno sempre mirato a favorire il monopolio di Cgil, Cisl e Uil che di fatto rappresentavano la stragrande maggioranza dei lavoratori. Ma proprio negli anni '70 questo monopolio ha iniziato ad essere messo in discussione dai lavoratori che non si allineavano più alle direttive dei vertici sindacali sempre più collaborazionisti con i padroni e spesso conducevano le lotte in modo autonomo e sperimentavano nuove forme di rappresentanza più democratiche come i Consigli di Fabbrica e le assemblee generali dei lavoratori, oppure rivolgevano la loro attenzione a sindacati più combattivi e collocati più a sinistra che in quegli anni andavano costituendosi.
Gli innumerevoli accordi degli anni '90 e 2000 hanno sempre avuto questi obiettivi: assicurare la pace sociale e frenare le fabbriche più combattive, emarginare i "sindacati di base". In questi accordi ci sono sempre una o più di queste regole antidemocratiche: voto solo agli iscritti, liste bloccate e decise dalle sigle sindacali, premi di maggioranza, quote riservate a Cgil, Cisl e Uil, esclusione dei sindacati che non hanno firmato accordi nazionali e/o aziendali, tutte regole che noi marxisti-leninisti rifiutiamo categoricamente. Non fa eccezione l'ultimo firmato il 31 maggio 2013 che sancisce un "patto tra produttori", ovvero un'innaturale alleanza tra padroni, lavoratori e governo Letta-Berlusconi.
Per noi qualsiasi legge o intesa sulla rappresentanza sindacale deve nascere dalla spinta delle lotte dei lavoratori e non può prevedere privilegi per i confederali né tanto meno esclusioni per chi non accetta gli accordi imposti dai padroni e dal governo. Ma una vera democrazia sui luoghi di lavoro si potrà raggiungere solo con la realizzazione della nostra proposta di costruire dal basso un grande Sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati (SLLPP), fondato sulla democrazia diretta e sul potere sindacale contrattuale delle Assemblee generali. Il modello di sindacato che il PMLI propone si basa sul sistema di elezione dei delegati di fabbrica su scheda bianca e sul principio: tutte le lavoratrici e i lavoratori sono elettori ed eleggibili; i delegati agiscono su mandato dei lavoratori e da questi possono essere revocati in ogni momento; opera in modo indipendente e autonomo dai governi, dal padronato e dai partiti; poggia la sua azione sulla lotta di classe; ha come asse, per le sue politiche rivendicative e finalità strategiche, la centralità della classe operaia.

10 luglio 2013