A proposito del film "Fahrenheit 9/11"
Non è solo questione di petrolio
di Nadia - Rufina (Firenze)

Vorrei esprimere il mio parere sul film del regista americano Michael Moore che, dati i temi che affronta e le tesi che sostiene, ha sollevato nell'opinione pubblica un certo scalpore. Se da un lato, proprio per questo, è giusto dire che il film ha il merito di avere mosso le acque, suscitato polemiche, interrogativi, discussioni - lo si potrebbe paragonare ad una pietra infilata negli ingranaggi della macchina mediatica che sforna ogni giorno la solita versione preconfezionata della situazione irachena - è bene altresì cercare di andare più a fondo nell'analisi e nella critica del film. Lasciarsi conquistare solo dalla prima impressione di odio e avversione per Bush che il film comunica potrebbe infatti, a mio parere, portare a far proprie tesi che mi paiono spesso contraddittorie, incomplete, se non anche errate o comunque fuorvianti.
Il documentario di Moore, sempre con il ritmo veloce, con il commento ironico e pungente tipici del regista, ci descrive con vari filmati l'intreccio degli interessi e affari - soprattutto petroliferi - tra l'amministrazione Bush e l'Arabia Saudita, Bin Laden e famiglia compresi. Un'altra parte del film, piuttosto breve però, ci mostra gli effetti devastanti dei bombardamenti terroristici e della guerra, chiamata dagli Usa "di liberazione", sulla popolazione irachena inerme; molto toccante la scena della madre irachena che urla verso la telecamera tutto il suo strazionate dolore per la perdita dei suoi cari. Un'altra parte, piuttosto lunga del film, descrive il caso di una famiglia americana il cui figlio, un marine, muore in Iraq.
Ciò premesso vorrei focalizzare alcune questioni. Mi sembra che la tesi principale del film sia quella di sostenere che Bush è un'"anomalia" della fondamentalmente "sana democrazia" americana, e che la guerra in Iraq è un prodotto essenzialmente degli interessi industriali e petroliferi della banda corrotta e criminale che ruota attorno a lui. Che il clan Bush sia corrotto e criminale è senz'altro vero, com'è vero che ci sia anche il petrolio tra gli obiettivi dell'invasione dell'Iraq. Tuttavia ritengo questa una verità che non è sufficiente per spiegare quanto sta avvenendo: suggerire, come sembra fare Moore, che eliminato Bush elettoralmente il problema sia risolto e si torni alla "normalità" fa nascere immediatamente un'altra domanda (che però non sembra interessare il regista), e cioè: qual è la normalità della politica americana? La realtà che Moore evita di affrontare è che la politica guerrafondaia di Bush non è un netto cambiamento rispetto alla politica imperialista americana del passato, quella di Clinton compresa, ma piuttosto una sua più estesa e brutale applicazione, che sfrutta lo shock dell'11 settembre e il pretesto della "lotta al terrorismo globale".
Concentrarsi poi come fa Moore quasi esclusivamente sui rapporti di affari - che pure esistono - tra il clan Bush e i regnanti sauditi, significa omettere che tutte le amministrazioni Usa, dalla 2¨ guerra mondiale in poi, sono state in stretta alleanza con i sauditi. Dove sta allora la novità? E perché nel film non si parla mai del ruolo di Israele come agente diretto della politica imperialista Usa in Medio Oriente? Certo questa è una lacuna molto grave, spiegabile, temo, solo con l'intento di non urtare l'elettorato democratico ebraico. Ma anche questo contribuisce a rendere monca, contraddittoria e ambigua la sua rappresentazione della realtà al pubblico americano a cui il regista dice di voler aprire gli occhi. Come del resto troppo debole e superficiale, al limite della caricatura, risulta la parte in cui il film tratta le leggi speciali antiterrorismo e i gravissimi abusi commessi in suo nome.
Anche con la lunga parte dedicata alla madre che ha perso il figlio in Iraq e si reca alla Casa Bianca additandola come l'origine della sua sciagura, Moore sembra volerci dire che mandando via Bush la guerra finirà. Una pia illusione, stando alle dichiarazioni del suo stesso avversario, Kerry.
E dopo averci fatto giustamente vedere in che ambienti poveri, senza prospettive né futuro, e con che squallidi metodi vengono reclutati i marines, e poi con quali idee di violenza e di sopraffazione nel cervello li ritroviamo a far la guerra in Iraq, il film sembra però sostenere la tesi che l'esercito Usa sia un corpo fondamentalmente sano, solo temporaneamente deviato da un'amministrazione stupida e rapace, e composto da bravi ragazzi che rischiano la vita per difendere - dice incoerentemente Moore nel finale - "la nostra libertà". Travisando così del tutto la realtà di fatto rappresentata dall'esercito Usa, una macchina micidiale esportatrice di morte tramite un orrendo arsenale di armi di distruzione di massa, introvabili come si sapeva in Iraq, ma molto, troppo presenti in Usa.
Forse era pretendere troppo da un liberal-democratico americano, ma avrei apprezzato di più se il pur capace regista americano fosse andato più a fondo sul disegno imperialista Usa, tanto repubblicano quanto democratico, di dominare il mondo con la guerra. Disegno che si serve (vedi anche l'Italia di Berlusconi) del controllo dei media che drogano e cloroformizzano la propria opinione pubblica sottoponendola continuamente al ricatto del terrore, come il film d'altronde mostra abbastanza efficacemente.
Forse dare questo senso al film avrebbe contribuito a strappare la benda che copre gli occhi ai suoi connazionali che non vedono i misfatti compiuti dalle proprie amministrazioni presenti e passate e anziché illuderli di risolvere il problema cambiando semplicemente presidente, sollevare la questione di far nascere e progredire un movimento antimperialista e anticapitalista il più ampio possibile. Questa non è certo una piccola impresa, ma la strenua e coraggiosa resistenza irachena sta lì a dimostrare che l'imperialismo non è invincibile.

13 ottobre 2004