Una vecchia forma di sfruttamento giovanile con una veste nuova (Perché opporsi)
Il governo vara la 'riforma' dell'apprendistato
Avrà veste di contratto d'ingresso. Potrà essere utilizzato in tre tipologie. Potrà durare da 3 a 6 anni. Inquadramento inferiore e salari bassi. Nessuna garanzia di assunzione a tempo indeterminato. Solo vantaggi per le aziende

La condizione giovanile nel nostro Paese - di cui si è occupato recentemente il Comitato centrale del PMLI adottando un importante documento che è stato pubblicato su "Il Bolscevico" n. 14 - ha raggiunto livelli drammatici inediti, specie per quanto riguarda il problema occupazionale: la disoccupazione ha raggiunto una media nazionale attorno al 30%, ma in alcune zone del Mezzogiorno schizza fino al 50%; meno del 50% dei giovani riesce a trovare qualche lavoro a un anno dal termine degli studi; le assunzioni sono effettuate, in netta prevalenza, con contratti precari, a termine, con bassi salari e senza diritti. Ebbene, l'unica cosa che è riuscito a fare il governo del neoduce Berlusconi, per "affrontare" questa enorme emergenza sociale, è il rilancio della vecchia forma di sfruttamento giovanile che è l'apprendistato con una veste giuridica nuova. Il consiglio dei ministri il 5 maggio scorso ha infatti approvato lo schema di decreto legislativo di attuazione della delega per la "riforma" dell'apprendistato.
È da tempo che il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, sta lavorando per rilanciare l'apprendistato la cui utilizzazione da parte delle imprese ha subito un drastico calo: nel 2008, 645.958 contratti, nel 2009, 567.843 con una riduzione di 78.144 unità. Già nel febbraio 2010 aveva elaborato delle linee guida. Nell'ottobre dello stesso anno aveva sottoscritto con le regioni, le associazioni delle imprese e i sindacati, compresa la CGIL, un "patto sull'apprendistato" che in buona sostanza delineava i contenuti che poi son stati ripresi nel suddetto decreto legislativo che ha assunto il nome di "Testo unico dell'apprendistato". Un decreto che, così com'è, ridefinisce l'apprendistato come un contratto di primo impiego per i giovani, supersfruttato, sottoinquadrato e sottopagato, tre tipologie applicabili in tutti i settori, anche nella pubblica amministrazione, la formazione professionale delegata quasi totalmente alle aziende, con una durata che può arrivare fino a 6 anni, senza una vera garanzia, al termine, dell'assunzione a tempo indeterminato.

Non garantito il lavoro a tempo indeterminato
Nell'esaminare il decreto legislativo, composto di 7 articoli, è bene subito in premessa confutare due inganni. Non è credibile la tesi secondo cui il nuovo apprendistato diverrebbe se non l'unica la principale forma d'ingresso dei giovani al lavoro perché allo stato il governo non ha alcuna intenzione di abolire i tirocini, gli stage, e men che mai gli altri numerosi contratti precari, a tempo determinato e parziale, l'interinale, quelli a progetto, il lavoro a chiamata, il voucher e altri ancora. Inoltre, non è fondata l'affermazione che si trova in cima del decreto che recita: "L'apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla occupazione dei giovani". Non c'è in questo senso alcun obbligo per il datore di lavoro. Anzi sì dà ad esso la possibilità di risolvere il rapporto con l'apprendista senza particolari vincoli e adempimenti.

Le tre tipologie
Il decreto prevede tre tipologie di apprendistato utilizzabili in tutti i settori di attività pubblici e privati.
"L'apprendistato per la qualifica professionalizzante" per i giovani dai 15 ai 18 anni con una durata massima di tre anni. Sono dunque interessati anche i quindicenni ancora in età della scuola dell'obbligo da "concludersi" in fabbrica.
"L'apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere" per i giovani in età compresa tra i 18 e i 29 anni per una durata tra i tre e i sei anni. Per i giovani "in possesso di qualifica professionale", il contratto di apprendistato può essere stipulato a partire dai 17 anni di età.
"L'apprendistato di alta formazione e ricerca", anche in questo caso i giovani interessati hanno tra i 18 e i 29 anni e la durata massima è pari a 6 anni. Anche in questo caso il giovane può essere assunto a 17 anni se in possesso di una "qualifica professionale conseguita ai sensi del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 225".
Una caratteristica di questo nuovo apprendistato è un certo intreccio tra scuola e lavoro, non però così positivo come potrebbe sembrare in apparenza perché si realizza attraverso un disimpegno dell'istruzione pubblica e una delega alla formazione alle imprese private, oltretutto compensate con generosi sgravi contributivi. Questo accade in particolare nella prima tipologia (apprendistato per la qualifica professionale) dove si permette che giovani quindicenni ancora in età della scuola dell'obbligo abbandonino anzitempo per terminare gli "studi" lavorando con un contratto di apprendistato. Ancor di più avviene nella terza tipologia (apprendistato di alta formazione e ricerca) che sarebbe finalizzata "per attività di ricerca o - si legge nel decreto - per il conseguimento di un titolo di studio di livello secondario superiore, per il conseguimento di titoli universitari e della alta formazione, compresi i dottorati di ricerca per la specializzazione tecnica superiore". Marginale il coinvolgimento delle Regioni che pure avrebbero voce in capitolo in virtù ai poteri acquisiti con la modifica del titolo V della Costituzione. Le quali sono tenute ad organizzare per gli apprendisti un corso di formazione di sole 40 ore per il primo anno e di 26 per il secondo.
È soprattutto in questo punto che emerge un legame stretto tra questa "riforma" dell'apprendistato e la controriforma della scuola della Gelmini che ha tra i suoi scopi principali il rilancio delle scuole professionali per i figli degli operai e dei ceti meno abbienti, e più in generale la sottomissione dell'istruzione alle necessità del mercato capitalistico.
Il decreto non è di immediata attuazione in quanto prevede un iter di 12 mesi di completamento della normativa sul piano applicativo affidato alle Regioni, alle associazioni di categoria dei datori di lavoro, ai sindacati "maggiormente rappresentativi" per definire, anche attraverso accordi interconfederali e i contratti collettivi nazionali di lavoro la durata dei contratti di apprendistato e le modalità della formazione professionale. Il che porterà, nelle migliori delle ipotesi, a una applicazione notevolmente diversificata della normativa zona per zona, settore per settore, azienda per azienda nella più deleteria logica federalista di marca bossiana.

Fuori dal computo per definire la dimensione dell'azienda
Altre questioni negative non di poco conto sono: il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere fino ad arrivare al 100 per cento "delle maestranze specializzate e qualificate presso il datore di lavoro stesso". L'esclusione degli apprendisti nel computo dei dipendenti di un'azienda per l'applicazione dello Statuto dei lavoratori, con in testa l'art.18. Le sanzioni ridicole, piccole multe pecuniarie, oltre la restituzione dei benefici fiscali ricevuti, previste per il datore di lavoro in caso di violazione, per sua colpa, dell'impegno preso per la formazione professionale degli apprendisti.
Non stupisce che Confindustria abbia accolto con favore la proposta del governo. Anche il giudizio dei sindacati complici CISL e UIL è tutto sommato positivo, sia pure con qualche piccolo distinguo. Diversa la posizione della CGIL che questa volta ha preso le distanze. Con una lettera inviata al ministro Sacconi, ha mosso 11 obiezioni al provvedimento del governo. "Nel decreto di riforma dell'apprendistato - si legge - sono previste norme che rendono non condivisibile il decreto legislativo". Perché "non si riduce la durata dell'apprendistato professionalizzante che resta prevista fino a sei anni", mentre manca una durata minima. Così come emerge evidente "la contraddizione tra l'enfasi sul carattere a tempo indeterminato del rapporto di apprendistato e la mancanza di qualsiasi vincolo di stabilizzazione degli apprendisti che, assieme alla esclusione degli apprendisti dal computo per il raggiungimento delle soglie, conferma che si sia rimasti nella condizione della licenziabilità al termine del rapporto".
Inoltre non si fa "alcun riferimento - prosegue la lettera - ad ammortizzatori sociali" così come "nulla si dice delle misure da prendere per contrastare il cannibalismo verso il contratto di apprendistato di altre tipologie, come stage, tirocini e collaborazioni". Ancora: "nessuna attenzione è posta al contrasto che si crea tra contratto di inserimento e l'estensione proposta dell'apprendistato ai lavoratori in mobilità". Allo stesso tempo "non è chiarito, e per come è scritto nel testo difficile da accettare, la facoltà di svolgimento dell'apprendistato attraverso la somministrazione". La CGIL contesta anche il "rinvio delle scelte a ogni livello di contrattazione collettiva con il risultato di suggellare di fatto la dimensione puramente aziendale e derogatoria rispetto al Ccnl".
In questa discussione manca il parere più importante, quello dei soggetti direttamente interessati dalla "riforma", i giovani a cominciare dagli studenti. Che invece dovrebbero farsi sentire forte e chiaro su un tema che riguarda la loro vita, il loro futuro.

25 maggio 2011