Un provvedimento liberista imposto dalla Bce e gestito da Napolitano. L'emarginazione dei sindacati era nel piano della P2 e di Berlusconi
La controriforma del lavoro non deve passare
Massacra i lavoratori, i giovani e i sindacati, instaura nuove relazioni industriali mussoliniane
Monti vattene!

Il governo Monti ignorando gli scioperi e le proteste dei lavoratori di questi giorni con arroganza va avanti per la sua strada. Dopo aver chiuso la finta trattativa con le "parti sociali", scontando l'opposizione dichiarata della CGIL, il Consiglio dei ministri, nella riunione di venerdì 23 marzo, ha approvato un lungo documento composto di 26 pagine e 10 capitoli sulla "riforma" del "mercato del lavoro" presentato dal ministro del Welfare, Elsa Fornero; anche se alcuni ministri hanno sollevato dubbi e obiezioni specie sul punto che riguarda i licenziamenti individuali. Su questa base sarà redatto nei prossimi giorni un articolato di legge da presentare in parlamento come disegno di legge. In un primo tempo il duo Monti-Fornero aveva ventilato la possibilità di un decreto legge che avrebbe dato immediata applicabilità alla "riforma", un atto fascista che, di fatto, espropriava le Camere delle loro prerogative. A seguito delle proteste che si sono sollevate contro questa ipotesi, vi hanno dovuto poi rinunciare.
Il documento Fornero approvato dal governo contiene una proposta organica sui temi del "mercato del lavoro" ma senza novità di rilievo rispetto alle anticipazioni che il ministro aveva avanzato di volta in volta nelle settimane scorse. Nessuna marcia indietro, specie nei confronti dello smantellamento dell'art. 18 e della libertà di licenziamento, hanno tenuto a dire sia Monti sia la Fornero. Siamo di fronte a quella "riforma epocale" più volte da essi invocata? Di sicuro si tratta di una controriforma devastante che, complessivamente, peggiora le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori e lascia praticamente intatti i problemi del precariato e dell'inserimento dei giovani nel lavoro, che accantona il metodo della concertazione tra governo e "parti sociali", emargina i sindacati e riduce di molto il loro potere contrattuale, instaura nuove relazioni industriali sul modello Marchionne di stampo mussoliniano. Si tratta della controriforma liberista richiesta e imposta dalla Bce, a partire dalla famosa lettera inviata da Draghi e da Trichet all'ex governo Berlusconi poco prima di dare le dimissioni, fondata su un riordino delle flessibilità in entrata e un ampliamento della flessibilità in uscita, per favorire una maggiore libertà di licenziamento, che prevedesse un ridimensionamento degli "ammortizzatori sociali" da sostituire con un sussidio di disoccupazione. Contrabbandata come assolutamente necessaria per placare le preoccupazione dei "mercati" e per attirare capitali esteri in Italia. Presa in mano e portata avanti dal governo Monti, sostenuto in parlamento dal PDL di Berlusconi-Alfano, dal PD di Bersani e dal Terzo polo di Casini, Rutelli e Fini, e gestita direttamente e personalmente dal nuovo Vittorio Emanuele III, Giorgio Napolitano.
Sul ruolo presidenzialista di Napolitano è bene soffermarsi. Non si era mai visto un presidente della Repubblica intervenire così sistematicamente in una vicenda politica e sindacale come questa della "riforma" del "mercato del lavoro". Non si era mai visto che un presidente del Consiglio, accompagnato dal ministro del Welfare, ad ogni fase della trattativa con sindacati e associazioni padronali si recasse al Quirinale per informare e concordare il da farsi. Così come sono apparse del tutto innaturali e in contrasto con le norme previste nella Repubblica parlamentare qual è ancora, almeno formalmente, l'Italia, le dichiarazioni pubbliche di Napolitano a favore dell'operato e delle proposte del governo e indirizzate a fare pressione nei confronti delle resistenze dei sindacati, della CGIL in particolare. Il suo comportamento per la verità non solo nella circostanza ma in generale nel dopo Berlusconi oggettivamente fornisce una sponda a quelle forze di destra, golpiste e neofasciste che da tempo spingono perché l'Italia si trasformi in una repubblica presidenziale.
Anche sulle nuove relazioni industriali inaugurate nell'occasione conviene riflettere. Va ricordato che il governo Monti aveva già varato la controriforma pensionistica senza fare almeno una telefonata ai sindacati confederali. Nemmeno aveva preso in considerazione le loro obiezioni quando aveva approvato la legge finanziaria di 25 miliardi di euro tutta sulle spalle dei lavoratori e dei pensionati. Per la "riforma" del "mercato del lavoro" aveva detto il presidente del Consiglio sarebbe andata diversamente, cioè sarebbe stata fatta con l'accordo delle "parti sociali". Non era vero nulla. Come si è già detto, non c'è stata trattativa vera, ma finta. Incontri a senso unico, dove il ministro spiega cosa il governo vuole fare e chiede il consenso, punto e basta. Incontri per giunta accompagnati sempre dalla minaccia: o si fa l'accordo alle nostre condizioni oppure il governo va avanti lo stesso. Il superamento del metodo concertativo lo ha certificato Monti quando ha detto che noi i sindacati li ascoltiamo, ci dialoghiamo ma non gli riconosciamo nessun potere di veto, il governo decide autonomamente. C'è in questo una volontà di ridimensionare il ruolo e il potere dei sindacati, circoscrivendoli nel solo ambito dei contratti di categoria, che già il governo Berlusconi aveva perseguito, anche se la tattica attuata dal ministro Sacconi per ottenere il consenso dei sindacati collaborazionisti, si esplicava negli accordi separati, senza la firma della CGIL. Un obiettivo di questo genere era previsto nel "Piano di rinascita democratica" della P2 di Gelli.

I contenuti della "riforma"
Non bisogna farsi ingannare dai propositi segnalati nella premessa a favore dei giovani, contro il cosiddetto dualismo del "mercato del lavoro", per una trasformazione universalistica delle tutele sociali giacché non c'è proprio nulla di concreto in questo senso. Nemmeno ci si deve confondere su aspetti secondari e marginali. Il giudizio va dato sui punti fondamentali della "riforma" e non può che essere nettamente negativo.
In testa le modifiche peggiorative dell'art. 18 che è sempre stato il vero e principale obiettivo del governo. La soluzione individuata porta inevitabilmente al suo svuotamento e alla sua sostanziale sterilizzazione. Porta alla eliminazione del diritto del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza "giusta causa" e "giusto motivo" e porta, perciò, alla libertà di licenziamento. Tale soluzione prevede che per il licenziamento discriminatorio per ragioni ideologiche, politiche, di razza o di sesso, la norma rimanga intatta. Ma non succede quasi mai che un padrone licenzi apertamente con questa odiosa motivazione, visto che il licenziamento discriminatorio è vietato non solo dall'art. 18 ma anche dalle leggi dello Stato e da norme internazionali. Per il licenziamento disciplinare è previsto che sia il giudice a decidere se reintegrare il lavoratore oppure optare per un indennizzo economico. Infine, per il licenziamento per motivi economici e organizzativi la "riforma" prevede solo l'indennizzo economico anche quando il giudice stabilisce che il motivo adottato è fasullo. Ed è proprio da qui che passa la libertà di licenziamento. Il "datore di lavoro" che vorrà disfarsi di un lavoratore o per motivi politici e sindacali, o perché di salute cagionevole, o perché donna con carichi familiari, o perché anziano e poco produttivo, in ogni caso per ridurre il personale in caso di crisi aziendale, che è proprio il momento economico che stiamo vivendo, userà sempre questo tipo di licenziamento sapendo che al massimo gli costerà un indennizzo economico. Non per caso il giornale di Confindustria, "Il Sole 24 Ore", ha potuto titolare: "Art.18, l'indennizzo diventa regola".
La controriforma del lavoro smantella il sistema degli "ammortizzatori sociali" senza offrire una contropartita che sia vantaggiosa per i lavoratori. Il nuovo sistema prevede solo la cassa integrazione ordinaria e quella straordinaria per ristrutturazioni aziendali. Elimina la cassa integrazione straordinaria e quella in deroga che, in questi ultimi anni di crisi, ha limitato il già esorbitante numero di licenziamenti in caso di chiusura aziendale. Elimina anche la mobilità che insieme alla Cig straordinaria offriva un sostegno salariale ai lavoratori interessati per un periodo importante per arrivare alla pensione (prima della "riforma") o per trovare un lavoro sostitutivo. Insomma, i nuovi "ammortizzatori sociali" tagliano drasticamente i tempi della cassa integrazione terminati i quali c'è il licenziamento. E introduce una nuova indennità di disoccupazione chiamata ASPI (Assicurazione sociale per l'impiego) la cui copertura è fissata in 12 mesi (18 per chi ha oltre 55 anni) e la cifra si aggira sui 1.000 euro o poco più, ridotta del 15% dopo i primi sei mesi e del 30% dopo ulteriori sei mesi. Con dei grossi paletti (due anni di anzianità assicurativa e 52 settimane di lavoro nell'ultimo biennio) per i lavoratori precari che in larga parte non ne potranno usufruire. Il tutto andrà a regime nel 2017. Si noti, tra l'altro, che la cassa integrazione non sarà estesa alle categorie che attualmente ne sono fuori, mancando anche qui al diritto universale che era stato promesso. In sostituzione a ciò si parla dell'istituzione non obbligatoria di "fondi di solidarietà" a spese però di imprese e lavoratori.
Quante volte abbiamo sentito Monti e Fornero dire che la "riforma" è per riequilibrare il "mercato del lavoro" pro giovani, favorendo il loro inserimento, riducendo le forme precarie. Balle! Di concreto c'è solo la riproposizione dell'apprendistato, che peraltro esiste già, come forma dominante di inserimento dei giovani nel lavoro però a condizioni economiche e normative sfavorevoli rispetto a quanto prevedono i contratti collettivi nazionali di lavoro, licenziabili in ogni momento, e soprattutto senza alcuna garanzia dell'assunzione a tempo indeterminato alla fine del triennio di apprendistato. Assomiglia tanto a un'altra forma di lavoro precaria. Il fatto che ci siano dei paletti e degli obblighi per il "datore di lavoro" non cambia la sostanza. Che si va ad aggiungere agli altri e più di 40 contratti precari che la "riforma" non cancella, salvo il "contratto di associazione in partecipazione", tra i più abusati dai "datori di lavoro". Tutti gli altri, dalle partite Iva, ai co.co.pro., dal lavoro in affitto al lavoro a chiamata o intermittente e via elencando, rimangono in funzione, una specie di supermercato delle braccia a disposizione delle aziende. È vero che sono stati introdotti dei provvedimenti tendenti a disincentivarne l'uso, facendone lievitare i costi. Costi che però il padrone potrebbe scaricare sul lavoratore. In ogni caso non c'è stata nessuna riduzione della precarietà, nemmeno di quella che la Fornero chiamava "flessibilità cattiva". Sui contratti a tempo determinato occorre precisare che la "riforma" non ha inserito il vincolo dei tre anni di attività con lo stesso committente, dopodiché scatta l'assunzione a tempo indeterminato, perché questa norma esisteva già.

Sciopero generale subito
Se i contenuti della controriforma del lavoro sono questi, è davvero incomprensibile e sbagliata la posizione di CISL e UIL le quali nell'ultimo incontro avevano dato a Monti e Fornero il loro sostanziale nulla osta. Anche la posizione assunta dalla maggioranza della CGIL suscita perplessità ed evidenzia aspetti contraddittori. Bene ha fatto la Camusso a dire no allo smantellamento dell'art. 18, bene ha fatto il direttivo della CGIL a indire 16 ore di sciopero. Ma non condividiamo la proposta di mediazione a perdere, tesa ad assumere il modello tedesco sulle regole dei licenziamenti individuali che rappresenta un arretramento rispetto alle norme attuali che prevedono l'obbligatorietà del reintegro in caso di licenziamento illegittimo. Perché non difendere l'intangibilità dell'art. 18? I lavoratori che in questi giorni hanno scioperato e manifestato lo hanno fatto gridando: "Giù le mani dall'art. 18". Su questo obiettivo c'è un grande consenso popolare. Non condividiamo i giudizi positivi della Camusso sugli altri punti della "riforma", e contestiamo la decisione di rimandare a fine maggio lo sciopero generale diluendo e depotenziando la mobilitazione di piazza.
La linea emendativa della Camusso, su cui stanno convergendo, opportunisticamente anche Bonanni e Angeletti, si muove di concerto con il PD di Bersani che, per ragioni elettorali e per tacitare i mugugni che provengono dalla sua base, punta ad ottenere la modifica sull'art. 18 e così varare l'insieme della "riforma". Noi la pensiamo in modo diverso. Per noi essa va bocciata in blocco per il suo impianto liberista, per le relazioni industriali mussoliniane che instaura e perché non aumenta le tutele ma le diminuisce, non estende i diritti ma li sopprime. Non risolve nessuno dei problemi in materia di "mercato del lavoro": un lavoro a tempo indeterminato, a tempo pieno, a salario intero, sindacalmente tutelato per i giovani; la riduzione drastica del lavoro precario; "ammortizzatori sociali" applicabili in tutte le categorie e in tutte le aziende indipendentemente dal numero dei dipendenti; strumenti di ricollocazione dei lavoratori ultracinquantenni espulsi dal lavoro e di sostegno al reddito visto che, a seguito della controriforma previdenziale di Monti, il momento della pensione si è allontanato; un'indennità di disoccupazione seria nella cifra e nel tempo che sia sufficiente per ritrovare un nuovo lavoro.
Questa controriforma non deve passare. Sarebbe un'illusione affidarsi alla discussione parlamentare, giacché nessun partito presente nelle Camere è disposto a battersi per questo obiettivo. Ci vuole la mobilitazione dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, dei giovani, occorre muovere la piazza. Sarebbe necessaria la immediata proclamazione dello sciopero generale di 8 ore con manifestazione nazionale a Roma. Il nostro auspicio è che tutte le forze politiche, sindacali, sociali, culturali, religiose antifasciste e democratiche si uniscano in un movimento di popolo non solo per respingere la controriforma del lavoro ma per mandare a casa Monti, degno successore di Berlusconi, e Elsa Fornero, la Marchionne del governo Monti.

28 marzo 2012