Non si vuol far luce sulla trattativa Stato-mafia
La Corte costituzionale copre Napolitano e dà torto alla procura di Palermo
Ingroia: "Pm cornuti e mazziati, la ragione politica ha prevalso sul diritto"

Com'era facile prevedere la Corte costituzionale ha dato ragione a Napolitano e torto alla procura di Palermo, nel conflitto di attribuzione sollevato il 16 luglio scorso dal capo dello Stato sulle intercettazioni delle sue telefonate con l'allora indagato ed oggi imputato Nicola Mancino, ritenute lesive delle sue prerogative costituzionali: anche se del tutto casuali, perché registrate indagando su un sospettato di reticenza e falsa testimonianza in ordine all'inchiesta palermitana sulla trattativa Stato-mafia del periodo 1992-93, le intercettazioni tra Mancino e Napolitano attualmente custodite dalla procura di Palermo non dovevano essere neanche esaminate per valutarne il contenuto dagli inquirenti, i quali dovevano invece chiedere immediatamente al Gip (Giudice per le indagini preliminari) di disporne la distruzione senza depositarle a disposizione delle parti.
Questo è almeno il senso del comunicato stampa del 4 dicembre (le motivazioni saranno comunicate non prima del prossimo gennaio) con cui la Consulta ha riassunto la sentenza emessa "quasi all'unanimità" dopo quattro ore di camera di consiglio, che accoglie pienamente le ragioni sostenute dall'Avvocatura dello Stato a nome di Napolitano e rigetta in toto quelle dei difensori della procura di Palermo, i quali sostenevano invece che quest'ultima aveva rispettato scrupolosamente le norme vigenti in materia, in quanto esse stabiliscono chiaramente che pur essendo state registrate casualmente e comunque giudicate irrilevanti ai fini dell'inchiesta, le intercettazioni potevano essere distrutte solo dal Gip e previo loro deposito a disposizione di accusa e difesa.
Un comunicato di poche righe, dal linguaggio oscuro e contorto, che riprende quasi alla lettera la memoria presentata dai difensori di Napolitano, in cui si dice che "non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica", e "neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l'immediata distruzione ai sensi dell'articolo 271, 3° comma, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti".
In pratica per trovare una pezza d'appoggio giuridica atta a coprire Napolitano la Corte ha dovuto invocare l'art. 271 del codice di procedura penale, che protegge la segretezza delle rivelazioni fatte in confessione ai sacerdoti e il segreto professionale di avvocati e medici, istituendo una bizzarra equiparazione tra le funzioni del capo dello Stato e quelle di queste particolari categorie di cittadini.
Non bastava evidentemente il solo art. 90 della Costituzione, pur richiamato nel passo in cui si ribadisce che "per salvaguardare i supremi interessi nazionali va affermato il principio della libertà di conversazione del capo dello Stato e dell'assoluta riservatezza". È difficile infatti sostenere che tra gli "atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni", per i quali non può essere considerato responsabile, rientrino anche le telefonate con un privato cittadino qual è attualmente Mancino, il quale lo interpellava affinché usasse i suoi poteri per far avocare ai pm palermitani l'inchiesta che lo riguardava per il ruolo da lui avuto nella trattativa Stato-mafia quando era ministro dell'Interno.

Le telefonate di Mancino e le mosse del Quirinale
Ricordiamo brevemente come è nata questa vicenda, che abbiamo già trattato dettagliatamente ne Il Bolscevico n. 30 del 2 agosto 2012: a fine 2011 Mancino era sospettato di reticenza e falsa testimonianza dalla procura di Palermo, che aveva chiesto e ottenuto dal Gip l'autorizzazione a intercettare le sue telefonate. Le registrazioni durarono dal 25 novembre 2011 al 5 aprile 2012, periodo durante il quale Mancino, non sapendo di essere intercettato, tempestava ogni giorno di telefonate il Quirinale per invocare un intervento presso le alte sfere della giustizia che gli evitasse interrogatori e confronti imbarazzanti, e possibilmente anche l'avocazione dell'inchiesta da Palermo verso una procura più compiacente. Il suo interlocutore era Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano, successivamente deceduto per infarto dopo l'esplosione dello scandalo, che non solo lo ascoltava e ne raccoglieva le lamentele, ma gli prometteva l'interessamento suo e del capo dello Stato. Interessamento che si spinse fino al tentativo non riuscito di invocare direttamente l'intervento del Procuratore nazionale antimafia, Grasso, per "coordinare meglio", ossia far avocare l'inchiesta del tribunale di Palermo; e fino al punto di arrivare all'invio, il 4 aprile 2012, di una lettera del Quirinale al Procuratore generale della Cassazione affinché sollecitasse lui stesso, come "suo superiore", un nuovo intervento avocatorio di Grasso. Il quale però, non ravvisandone i presupposti, si rifiutò anche stavolta di prestarsi al gioco.
Tra queste migliaia di telefonate ve ne erano quattro intercorse personalmente tra Mancino e Napolitano, che a norma di legge erano state chiuse in cassaforte dalla procura palermitana, dopo averne constatato l'irrilevanza ai fini dell'inchiesta, in attesa di consegnarle al Gip per disporne l'eventuale distruzione sentite le parti interessate. È a questo punto che Napolitano, dopo aver ingiunto invano a Palermo un'immediata quanto irrituale distruzione dei file che lo riguardavano, è ricorso alla Corte costituzionale col pretesto di salvaguardare - secondo le sue stesse parole - non le sue personali, ma le prerogative costituzionali della sua carica da consegnare "intatte" al suo successore. Eppure i pm palermitani avevano dimostrato di custodire assai rigorosamente la segretezza di tali telefonate, e del resto ne avevano confermato l'irrilevanza, e dunque di che cosa aveva paura Napolitano? Visto anche che già in un caso precedente, quando la procura di Firenze, nell'ambito dell'inchiesta sulla "cricca" degli appalti della Protezione civile, aveva intercettato (e depositato) certe sue telefonate con Bertolaso, senza che l'inquilino del Quirinale avesse avuto nulla da ridire e men che mai sollevare conflitto di attribuzione alla Consulta?
Il sospetto più che legittimo è che a preoccuparlo sia proprio il contenuto di quelle telefonate, che non vuole sia conosciuto. Perché? Non sarà perché in esse c'è la prova di aver brigato contro l'inchiesa di Palermo per trarre fuori dai guai giudiziari il suo vecchio amico Mancino, come lui uomo delle massime istituzioni, ex presidente del Senato e vicepresidente del CSM? O ancor più esattamente: non sarà perché coprendo lui mirava a coprire l'intero apparato dello Stato implicato nella trattativa con la mafia dopo l'assassinio del giudice Falcone? A impedire che si faccia luce su un'oscura e tragica stagione in cui pezzi dello Stato e del governo hanno trattato con la mafia, fino al punto da abbandonare alla sua vendetta il giudice Borsellino, stagione che poi ha avuto come sbocco l'avvento di Forza Italia e del neoduce Berlusconi al potere nel 1994?
Quel che è certo è che l'aver sollevato il conflitto con Palermo è suonato oggettivamente come una sconfessione del pool di magistrati che conducevano l'inchiesta sotto la direzione dell'allora procuratore aggiunto Antonio Ingroia, e del processo che da quest'inchiesta è scaturito e che oggi vede imputati, insieme ad alcuni capi di cosa nostra anche gli ex ministri DC Mancino, Mannino e Conso. È questo infatti il risultato più importante dell'azione ritorsiva di Napolitano e della sentenza della Consulta: l'aver gravemente delegittimato l'inchiesta e il processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia come primo passo verso il suo insabbiamento.

Una sentenza già scritta
Questo spiega anche l'esultanza per la sentenza dei partiti del regime neofascista, dal PD al PDL, e dei pennivendoli al loro servizio, tra cui brilla ancora una volta per faziosità e livore contro Ingroia e i pm palermitani e quelle poche voci che si sono schierate al loro fianco, il liberale ex fascista Scalfari, che in un'editoriale sul quotidiano da lui fondato, ora diretto da Ezio Mauro, e di proprietà del magnate De Benedetti, la Repubblica, ha avuto la faccia tosta di definire quei magistrati e quelle voci nientemeno che "fascismo di sinistra". Il che, detto da chi negli anni '40 sulla stampa fascista esaltava l'impero dell'Italia e la "supremazia della razza", suona quantomeno grottesco. Perfino l'Associazione nazionale magistrati, evidentemente imbeccata dalle segreterie dei partiti a cui le sue correnti fanno riferimento, ha difeso la sentenza della Consulta sostenendo col suo presidente Sabelli che "parlare di decisione politica è assolutamente impossibile e del tutto fuori luogo".
Una bacchettata, questa dell'ANM, rivolta chiaramente all'ex titolare dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, Antonio Ingroia, che dal Guatemala dove si è trasferito si era detto "profondamente amareggiato" per la sentenza, perché con essa "le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto". Ingroia ha fatto anche notare che se allora lui e i suoi colleghi avessero applicato la logica della sentenza consegnando immediatamente al Gip le intercettazioni, anziché chiuderle in cassaforte in attesa di chiarire il loro destino, questi per legge le avrebbe dovute distruggere ma solo dopo averle depositate, e con ciò avrebbe finito per renderle di pubblico dominio. La rigorosa condotta della Procura di Palermo ne ha impedito che fossero rese pubbliche, ecco perché "oggi siamo cornuti e mazziati", ne ha concluso amaramente l'ex pm, ricordando come già l'ex membro e poi presidente della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, avesse previsto questa sentenza come già scritta in quanto, dato il momento politico grave, la Consulta non avrebbe potuto che dare ragione al capo dello Stato.
"Se, per improbabile ipotesi, desse torto al presidente - scriveva infatti allora Zagrebelsky su la Repubblica parlando della Corte - sarà accusata di irresponsabilità; dandogli ragione sarà accusata di cortigianeria". È chiaro che per la Consulta questa seconda conseguenza rappresentava tutt'al più un male minore.

12 dicembre 2012