Nel discorso di Capodanno
Napolitano, in nome della sua trascorsa militanza comunista (revisionista), chiede ai lavoratori di sacrificarsi per far uscire il capitalismo dalla crisi
In precedenza, davanti alle più alte cariche del regime neofascista, aveva negato il golpe con cui ha imposto il governo Monti

Mai come stavolta il tradizionale messaggio di Capodanno a reti unificate era stato sfruttato tanto sfacciatamente dal nuovo Vittorio Emanuele III, Giorgio Napolitano, in sostegno al governo in carica e per chiamare i lavoratori e le masse popolari a piegare docilmente la schiena alla sua politica di lacrime e sangue. Gli è tornata utile alla bisogna anche la celebrazione del Centocinquantenario dell'unità d'Italia, dal cui "successo superiore alle previsioni più ottimistiche" è partito per lanciare un appello al Paese affinché accetti con spirito nazionalista e patriottardo i sacrifici necessari per salvare il capitalismo italiano dalla bancarotta.
Il rinnegato del Quirinale è ben consapevole della rabbia che sta montando tra le masse per l'odiosa iniquità delle misure prese dal governo Monti, che impongono ancora nuovi e più inauditi sacrifici ai lavoratori, ai pensionati e ai ceti popolari, mentre salvano sfacciatamente i grandi patrimoni, le rendite finanziarie, gli evasori fiscali e i privilegi della "casta" dei politicanti borghesi. E sa anche che non bastano certo le fanfare, i tricolori e gli inni patriottardi del Centocinquantenario a colmare il fossato che divide sempre più il Paese tra ricchi e poveri e a spegnere la ribellione di classe. Ne è consapevole al punto dall'ammettere ipocritamente che "nell'animo di molti, la fiducia che ho sentito riaffiorare e crescere nel ricordo della nostra storia rischia di essere oscurata, in questo momento, da interrogativi angosciosi e da dubbi che possono tradursi in scoraggiamento e indurre al pessimismo"; e che "la radice di questi stati d'animo, anche aspramente polemici, è naturalmente nella crisi finanziaria ed economica in cui l'Italia si dibatte".
È per questo che il capo dello Stato si rivolge direttamente a chi è chiamato a sopportare tutto il peso dei sacrifici - "chi ne soffre di più o ne ha più timore" - (tradotto: i lavoratori, i pensionati, le masse popolari), da una parte rampognandoli a non sentirsene esentati per avere già dato abbastanza ("nessun gruppo sociale - sentenzia infatti con arroganza - può sottrarsi all'impegno di contribuire al risanamento dei conti pubblici, per evitare il collasso dell'Italia"); e dall'altra cercando di convincerli che fino ad oggi hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità perché lo Stato è stato troppo di manica larga nell'elargire pensioni e assistenza sociale: e quindi, secondo lui, è giunta l'ora di "definire nuove forme di sicurezza sociale che sono state finora trascurate a favore di una copertura pensionistica più alta che in altri paesi o anche di provvidenze generatrici di sprechi".
Che ipocrisia! che perfidia! Secondo questo rinnegato e lacchè del capitalismo i lavoratori italiani avrebbero goduto finora di trattamenti pensionistici tra i migliori d'Europa.
Ma a parte la palese malafede e la falsità di una simile affermazione, perché costui non parla anche dei salari nettamente più bassi, della crescente disoccupazione, della penuria di abitazioni e a prezzi inaccessibili, della drammatica insufficienza della sanità e dell'assistenza sociale, dei trasporti fatiscenti per i pendolari e della scuola ridotta allo sfascio, che affliggono la vita quotidiana delle masse italiane molto più che negli altri paesi europei?

Conversione totale al liberalismo borghese
Questa disgustosa tesi il rinnegato Napolitano l'aveva già avanzata e teorizzata alcuni giorni prima, in una lettera alla rivista Reset, e pubblicata con grande risalto dal quotidiano portavoce della "sinistra" borghese, e ultimamente anche del governo Monti, la Repubblica del 29 dicembre. In questa lettera, facendo una grande esaltazione del liberalismo di Einaudi, Napolitano attribuiva alla "sordità e alle contrapposizioni nella sinistra legata al mondo del lavoro" (cioè alla CGIL e al PCI revisionista di cui lui stesso era tra i principali dirigenti), rispetto "a quel filone liberale" di cui Einaudi era il teorico, il peccato originale che avrebbe prodotto a partire dagli anni della guerra fredda "le degenerazioni parassitarie del Welfare all'italiana". Ma ora, sempre secondo questo rinnegato convertito totalmente al liberalismo borghese, la crisi offre l'occasione per rimediare e applicare in pieno la lezione einaudiana, "rifondando motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l'epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all'Italia".
È la stessa sporca tesi che ha riproposto anche nel discorso di Capodanno, sentenziando che "bisogna dunque ripensare e rinnovare le politiche sociali e anche, muovendo dall'esigenza pressante di un elevamento della produttività, le politiche del lavoro: per la fondamentale ragione che il mondo è cambiato, che l'epicentro della crescita economica - e anche di quella demografica - si è spostato lontano dall'Europa, e non solo il nostro paese, ma il nostro continente vedono ridursi il loro peso e i loro mezzi, e debbono rivedere il modo di concepire e distribuire il proprio benessere, e concentrare i loro sforzi nel guadagnare nuove posizioni e opportunità nella competizione globale. Senza mettere in causa la dimensione sociale del modello europeo, il rispetto della dignità e dei diritti del lavoro".
Quest'ultima precisazione sui diritti dei lavoratori, ovviamente, è solo un atto dovuto, un'affermazione pro-forma per coprire con un velo di ipocrisia la sua sfacciata ricetta neoliberista e antioperaia. Particolarmente disgustoso, a questo proposito, è stato il richiamo alla sua trascorsa militanza nel PCI revisionista e al "contatto con gli operai e i lavoratori della mia Napoli", per prima spargere lacrime di coccodrillo sulla sua "comprensione" delle "difficoltà di chi lavora e di chi rischia di perdere il lavoro, come quelle di chi ha concluso o sta per concludere la sua vita lavorativa mentre sono in via di attuazione o si discutono ancora modifiche del sistema pensionistico"; e subito dopo per chiedere a queste stesse vittime sacrificali di immolarsi volontariamente per salvare l'economia capitalista dal fallimento: come già il PCI revisionista fece loro fare nel primo dopoguerra col "patto per la ricostruzione" di Di Vittorio e alla fine degli anni '70 col "compromesso storico" e la "solidarietà nazionale" di Berlinguer.
"Ma non dimentico come nel passato, in più occasioni - prosegue infatti il nuovo Vittorio Emanuele III asciugandosi le false lacrime di scena - sia stata decisiva per la salvezza e il progresso dell'Italia la capacità dei lavoratori e delle loro organizzazioni di esprimere slancio costruttivo, nel confronto con ogni realtà in via di cambiamento, e anche di fare sacrifici, affermando in tal modo, nello stesso tempo la loro visione nazionale, il loro ruolo nazionale. Non è stato forse così negli anni della ricostruzione industriale, dopo la liberazione del paese? Non è stato forse così in quel terribile 1977, quando c'era da debellare un'inflazione che galoppava oltre il 20 per cento e da sconfiggere l'attacco criminale quotidiano e l'insidia politica del terrorismo brigatista"?

Duro attacco alle resistenze della CGIL
Dunque - è il sottinteso del rinnegato del Quirinale - per salvare oggi il Paese dalla crisi la classe operaia deve sostenere il governo Monti e accettare docilmente la sua politica di sacrifici e di massacro sociale, così come fece allora caricandosi sulle spalle il peso della ricostruzione capitalista e poi con la politica di "patto sociale" e la rinuncia progressiva alle conquiste e ai diritti delle lotte sindacali e sociali degli anni '60-'70. Per Napolitano non è ammissibile rifiutarsi di sottostare a questo preciso "dovere nazionale".
Non a caso, parlando il 20 dicembre al Quirinale in occasione degli "auguri ai rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile", egli aveva duramente attaccato le posizioni di chiusura della CGIL sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, su cui la ministra Fornero era tornata prepotentemente alla carica chiedendone l'abolizione: "Credo non giovino - aveva detto il capo dello Stato chiaramente rivolto a Susanna Camusso - qualunque posizione di principio o gruppo sociale si rappresenti, i giudizi perentori, le battute sprezzanti, le contrapposizioni semplicistiche. Si discuta liberamente e con spirito critico, ma senza rigide pregiudiziali e non rifuggendo da spinose assunzioni di responsabilità". E a ribadire il concetto, appena finito il discorso, non degnando neanche di uno sguardo Camusso, si era invece diretto verso la titolare del Welfare, abbracciandola calorosamente in segno di solidarietà per le polemiche sindacali che l'avevano costretta per il momento a rinfoderare le unghie.
La classe operaia, i lavoratori e la CGIL devono quindi guardarsi bene dal considerare questo rinnegato come un loro difensore, tantomeno come un loro alleato naturale per il suo passato di dirigente revisionista. Egli è invece colui che con piglio presidenzialista e in deroga a ogni regola costituzionale ha imposto al Paese il governo Monti della grande finanza, della UE e del massacro sociale, con il preciso mandato di far uscire il capitalismo dalla crisi scaricandola interamente sulle loro spalle.
Non a caso il 20 dicembre scorso, davanti alle più alte cariche del regime neofascista radunate al Quirinale, Napolitano aveva negato sfrontatamente il golpe con cui egli ha imposto il governo Monti e lo aveva rivendicato come "mio preciso dovere istituzionale", "titolo di merito e non motivo di imbarazzo per i partiti che lo sostengono": "Solo con grave leggerezza - aveva aggiunto - si può parlare di sospensione della democrazia, in un paese in cui nulla è scalfito". E anche allora aveva invocato l'unità attorno al nuovo governo e al varo delle "riforme costituzionali". Che faccia di bronzo!
Napolitano ha inaugurato di fatto la repubblica presidenziale tanto invocata e perseguita dal neoduce Berlusconi. Un esempio? "La crisi politica ha messo in luce il ruolo del capo dello Stato. Dobbiamo agire sul fronte dell'emergenza economica, ma anche della modernizzazione, proponendo la scelta presidenzialista", ha dichiarato di recente il capogruppo PDL alla Camera, il fascista Gasparri. E intanto è partita una raccolta di firme tra i suoi deputati, che ha già superato quota 120, per una proposta di legge costituzionale per l'elezione "a suffragio universale e diretto" del presidente della Repubblica e per "la forma di governo semipresidenziale" alla francese. Che secondo i suoi promotori si basa proprio sulla motivazione che "se il governo del presidente è già nei fatti, la politica deve dargli valore costituzionale e regolamentazione".

4 gennaio 2012