Lo rileva la banca dei regolamenti internazionali
Si è allargato il divario fra profitti e salari
In Italia dal 1983 al 2005 i profitti sono balzati dal 23,12% al 31,34% del Pil
I lavoratori hanno perso 7 mila euro all'anno

In Italia, ma anche negli altri paesi capitalisti sia pur in una misura minore, negli ultimi 20 anni la parte di ricchezza prodotta andata ai salari è drasticamente diminuita e quella andata ai profitti ampliata in modo consistente. Noi del PMLI lo andiamo denunciando con forza da molto tempo. D'altronde questa amara realtà è riscontrata anche dai dati dell'Istat e della Banca d'Italia. Anche inchieste sull'andamento dei salari condotte dal centro studi della Cgil, o quella più recente della Fiom sulle condizioni dei metalmeccanici confermano in pieno l'impoverimento progressivo delle retribuzioni nel nostro Paese, fanalino di coda nell'area Ue.
Insomma, conferme su conferme. L'ultima, anch'essa eclatante, proviene da uno studio della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) condotta in Italia e negli altri paesi industrializzati. Esso rileva che dal 1983 al 2005 i profitti dei capitalisti hanno sottratto ben otto punti del Pil al monte salari, cioè sono aumentati dal 23,12% al 31,34%. Una montagna di soldi valutata attorno a 120 miliardi di euro, una perdita secca pesantissima per i lavoratori dipendenti valutata attorno ai 7 mila euro all'anno. Ma come è stata possibile questa gigantesca rapina del capitale ai danni dei salariati? Dagli anni '60 fino agli inizi degli anni '80 la quota di prodotto lordo distribuita ai profitti superava di poco il 20%, il resto andava ai salari e agli stipendi. Dal 1985 comincia ad ampliarsi in modo progressivo la fetta a favore dei capitalisti. Nel 1994 è già al 29%, nel '95 al 31%. I padroni grandi e piccoli fanno festa, i loro guadagni crescono ininterrottamente fino ad arrivare nel 2001 al 32,7%, per poi assestarsi nel 2005 al 31,34%.
Dunque otto punti percentuali del Pil meno per i salari dei lavoratori, passati ai profitti dei padroni, 120 miliardi di euro con la valutazione di oggi, 7 mila euro all'anno, oltre 500 euro al mese tolti dalle tasche da ognuno dei 17 milioni di lavoratori dipendenti italiani. La Bri nel suo studio mette in evidenza che la crescita dei profitti a scapito dei salari, nello stesso periodo considerato, c'è stata anche negli altri paesi capitalistici. Ma l'Italia, insieme al Giappone (dal 23,6% al 33,9%) è quella messa peggio. Infatti, dal 1983 al 2005 negli Usa l'incremento dei profitti sul Pil è andato dal 30,7% al 33%; in Francia dal 24,6% al 33%. In Inghilterra c'è stata una inversione di tendenza a favore dei salari visto che i profitti sono calati dal 27 al 25,8%.
Più produttività e più competitività, sono le parole d'ordine dei dirigenti della Confindustria, ieri Montezemolo oggi Marcegaglia, per reggere la concorrenza nel tempo della globalizzazione. Quindi riduzione del "costo del lavoro" per finanziare l'innovazione. Balle! La crescita dei profitti, chiarisce lo studio della Bri, "non è stato un passaggio necessario per finanziare investimenti extra". Giacché "gli investimenti sono stati negli ultimi anni relativamente scarsi, rispetto ai profitti". In altre parole "l'aumento della quota dei profitti non è stata la ricompensa di un deprezzamento accelerato del capitale, ma una pura redistribuzione di rendite economiche".
Se occorreva la millesima prova del totale fallimento, bruciante, amaro (ovviamente per i lavoratori che c'hanno perso, non per i capitalisti che c'hanno guadagnato) della "politica dei redditi" praticata dai vertici sindacali confederali in accordo con i governi di "centro-destra" e di "centro-sinistra" che si sono succeduti e le associazioni padronali, è arrivata da una fonte che certo non può essere considerata dalla parte dei lavoratori. Incominciò il governo Craxi nel 1984 che approvò un decreto di stampo fascista per tagliare 4 punti della scala mobile. Nell'estate del '92 fece seguito un accordo interconfederale triangolare sindacati-governo-Confindustria per cancellare la scala mobile su salari e pensioni. L'anno successivo, il 23 luglio del '93 viene siglato un nuovo accordo dello stesso tipo che definisce un "patto" per la "politica dei redditi" e un nuovo modello contrattuale su due livelli: contratto nazionale suddiviso in un quadriennale normativo e due bienni salariali il primo livello, e il contratto aziendale, il secondo livello.
Aspetto centrale di questa "politica dei redditi": contenere la dinamica di salari, prezzi e tariffe entro i tetti d'inflazione programmati dal governo in sede di legge finanziaria. Si sa com'è andata, i tetti d'inflazione programmata hanno funzionato solo per ingabbiare e tenere bassi gli incrementi salariali, con la colpevole complicità dei sindacalisti di regime. L'inflazione reale, ovvero l'aumento di prezzi e di tariffe, si è mangiata pezzi di salario reale, anche grazie al fiscal-drag, ossia un aumento di prelievo fiscale drogato, sul lavoro dipendente. Mentre quasi tutti gli aumenti di produttività se li sono pappati i padroni.
Di fronte a questi risultati pare impossibile, o meglio criminale, che i segretari di Cgil, Cisl e Uil Epifani, Bonanni e Angeletti abbiano appena varato una proposta unitaria di "riforma" della contrattazione per smantellare il contratto nazionale, che è l'unico strumento che in qualche modo ha ridotto i danni, a favore del contratto aziendale non alla portata delle piccole aziende che sono la stragrande maggioranza, e gli incrementi salariali legati alla produttività aziendale.

11 giugno 2008