Lo ammette un documento governativo
Solo il 46,3% delle donne lavorano. Nel sud il 31,1%
Il "lavoro di cura" grava interamente sulle donne

"Uno degli obiettivi più qualificanti della Strategia di Lisbona è certamente quello relativo all'occupazione femminile, che dovrebbe raggiungere il 60 per cento entro il 2010.
L'Italia, il cui tasso nel 2006 si attesta al 46,3 per cento, rispetto alla media dell'Unione del 57,4, si trova largamente al di sotto dell'obiettivo finale ed anche dell'obiettivo intermedio fissato al 57 per cento per il 2005. La scarsa occupazione femminile ha riflessi sul tasso d'occupazione dell'intera popolazione, che nel 2006 è stato del 58,4 per cento, rispetto alla media dell'Unione a 27 del 64,4 per cento.
Sulla base di questi dati l'Italia si trova nelle ultime posizioni in Europa".
Ad ammetterlo è lo stesso governo dimissionario Prodi nella "Nota Aggiuntiva", presentata l'11 febbraio nel corso di un convegno a Catania, che integra il secondo rapporto sullo stato d'attuazione del "Piano Nazionale di Riforma" che l'Italia presenta ogni anno alla Commissione europea secondo le procedure previste nell'ambito della Strategia di Lisbona.
Siamo penultimi nell'Europa dei 27, sia per quanto riguarda l'occupazione che sul fronte salariale dove si rileva che una donna, quando lavora, percepisce in media un salario inferiore.
Nel primo semestre del 2007, poi, il tasso di inattività è cresciuto di 110 mila unità. Dove per "inattivi statisticamente", s'intende tutti coloro, specie al Sud, che addirittura hanno perso ogni speranza e hanno smesso perfino di cercare lavoro proprio perché scoraggiati da questa triste situazione.
Il rapporto inoltre evidenzia che, nonostante le donne laureate abbiano superato la percentuale maschile (il 57% contro il 43%), a tre anni dal conseguimento della laurea il "gap gender", cioè il divario con la situazione occupazionale maschile, è pari al 4%. Anche quando lavorano, del resto, le donne sono fortemente penalizzate. A parità di posizione professionale, una donna percepisce tre quarti dello stipendio di un uomo. La differenza nelle retribuzioni è mediamente pari al 23%, da un minimo del 15% a un massimo del 40%, per le libere professioni e i ruoli dirigenziali. I quali, però, sono per lo più preclusi alle donne. Secondo i dati del governo, nel 63% dei casi non figura alcuna donna nei consigli di amministrazione delle aziende quotate (su 2.217 consiglieri, le donne sono 110, il 5%). Stessa cosa per banche e assicurazioni, nonostante l'occupazione sia, per più del 40%, femminile.
In Italia 7 milioni di donne in età lavorativa sono fuori dal mercato del lavoro. Questa odiosa situazione di subalternità è ulteriormente aggravata da una "specificità" tutta italiana, il nostro risulta essere l'unico Paese in cui il cosiddetto "lavoro di cura" ossia maternità , assistenza a familiari malati e/o anziani ecc... grava quasi interamente sulle spalle delle donne, costituendo "un loro affare privato". E a farne le spese sono soprattutto le donne del Mezzogiorno dove il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi in assoluto.
"La situazione - si legge infatti nel rapporto governativo - è molto differenziata all'interno dell'Italia. Nel Mezzogiorno il tasso d'occupazione femminile è del 31,1 per cento, contro il 56 per cento del Nord-Ovest e il 57 per cento del Nord-Est (dati 2006). Il Sud, peraltro, non si è avvantaggiato della crescita dell'occupazione femminile avvenuta a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Dal 1993 al 2006 le occupate sono cresciute di 1.469mila unità nel Centro Nord e solo di 215mila nel Sud. Inoltre, pur diminuendo la disoccupazione nelle regioni meridionali, nel 2004 e nel 2005 sono emersi segnali negativi di aumento dell'inattività femminile che sono proseguiti nel 2006 e anche nel primo semestre 2007 con 110mila inattive in più". Non per altro, si legge ancora nel rapporto: "Le donne del Sud, anche le giovani, in molti casi hanno smesso di cercare lavoro". Inoltre lo smantellamento di quello che una volta era definito "lo Stato sociale" e la quasi completa privatizzazione dei servizi pubblici ha prodotto una situazione davvero paradossale secondo cui le donne in Italia e specie al Sud pur essendo penalizzate e sfruttate due volte: prima perché non trovano lavoro e poi sfruttate perché, in mancanza di adeguati servizi sociali, sono condannate ai lavori domestici "forzati", lavorano in media più ore rispetto a molti paesi europei e vivono in condizioni di "stabile precarietà".
Insomma una situazione a dir poco disperata che continua a produrre miseria, emigrazione e manovalanza mafiosa e contro cui né i governi del neoduce Berlusconi né quelli del dittatore democristiano Prodi hanno mosso un dito. Anzi, come dimostrano le recenti inchieste giudiziarie in cui sono coinvolti proprio Prodi, Mastella e i governatori della Campania, Calabria e Sicilia, Bassolino, Loiero e Cuffaro, insieme a decine di parlamentari e amministratori sia della destra che della "sinistra" del regime neofascista, sono proprio loro che hanno contribuito in maniera determinante al peggioramento della situazione partecipando attivamente alla spartizione dei lauti finanziamenti statali e europei che dovevano servire per il rilancio del Mezzogiorno e sono invece finiti nelle tasche dei boss politici e mafiosi.

27 febbraio 2008