La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo
Questo articolo è stato pubblicato sul n. 5, 1953 della rivista teorica mensile dell'Istituto di Filosofia dell'Accademia delle Scienze dell'Urss "Voprosy filosofii". I titolini sono nostri.

La legge economica fondamentale del capitalismo nel suo insieme, che agisce già nell'epoca del capitalismo premonopolistico, è stata scoperta dal fondatore del comunismo scientifico Karl Marx. E' la legge del plusvalore, che, come disse Engels, offre la chiave per comprendere l'intera produzione capitalistica.
La legge del plusvalore rivela quella che è l'essenza dello sfruttamento capitalistico e, con ciò stesso, rappresenta il fondamento economico dell'antagonismo di classe tra il proletariato e la borghesia insuperabile - entro i limiti del capitalismo, - e sempre più acuto. Questa legge spiega l'origine e la natura di tutte le forme di reddito delle classi e dei gruppi sfruttatori della società borghese: il profitto industriale e commerciale, l'interesse di prestito e la rendita fondiaria. Tutte queste forme di reddito, come Marx ha dimostrato nel terzo volume del "Capitale", altro non sono che forme trasformate del plusvalore stesso. Rilevando il valore determinante della produzione del plusvalore in tutt'intera l'economia capitalistica, Marx ha indicato che la creazione del plusvalore è "l'anima motrice della produzione capitalistica".
Tuttavia, la legge del plusvalore - essendo una legge generale del capitalismo che agisce in tutti gli stadi di sviluppo del modo di produzione capitalistico, - di per sé ancora non caratterizza la specificità del moderno capitalismo monopolistico.

Capitalismo premonopolistico e capitalismo monopolistico
La legge del plusvalore, nei diversi stadi di sviluppo del capitalismo, si realizza in forme concrete differenti. Nelle condizioni del capitalismo premonopolistico essa si attua innanzitutto nella forma di garantire un saggio medio di profitto. Nell'epoca del capitalismo monopolistico invece, come ha dimostrato Stalin, il motore della produzione capitalistica è non già un profitto medio e nemmeno un sovraprofitto, - che è, di regola, soltanto un certo superamento di quello medio, - ma il massimo profitto.
Concretizzando e sviluppando la legge del plusvalore relativamente alle condizioni del capitalismo monopolistico, Stalin ha scoperto la legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo.
"I tratti principali e le esigenze della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo - scrive Stalin, - potrebbero formularsi all'incirca in questo modo: realizzazione del massimo profitto capitalistico mediante lo sfruttamento, la rovina e l'impoverimento della maggioranza della popolazione di un determinato paese, mediante l'asservimento e la spoliazione sistematica dei popoli degli altri paesi, particolarmente dei paesi arretrati, e infine, mediante le guerre e la militarizzazione dell'economia nazionale, utilizzate per realizzare i profitti massimi" ("Problemi economici del socialismo nell'URSS"). Questa classica definizione, che è la generalizzazione teorica della moderna realtà capitalistica, svela sia lo scopo della produzione capitalistica nelle condizioni del capitalismo monopolistico, sia i mezzi utilizzati dai monopoli per conseguire questo fine.
Il massimo profitto rappresenta una particolare categoria economica che si distingue in modo sostanziale dal profitto medio. Essi si distinguono: 1) per i destinatari, 2) per entità, 3) per le fonti.
Nell'epoca del capitalismo premonopolistico il profitto medio lo riceveva ogni capitalista individuale nella cui impresa ci fossero condizioni di produzione socialmente normali. Per ciò che riguarda il massimo profitto - tipico dell'epoca del capitalismo monopolistico, - esso invece non è affatto intascato da tutti i capitalisti, ma soltanto dalle unioni monopolistiche dei capitalisti: le piccole e medie imprese capitalistiche non monopolizzate non ricevono alcun massimo profitto. Per di più, siccome i monopoli accrescono i loro profitti a spese di un travasamento, con vari mezzi, di una parte del valore aggiunto delle imprese non monopolizzate, la ricezione del massimo profitto da parte dei monopoli porta a una diretta diminuzione del profitto delle imprese non monopolizzate.
Inoltre, per entità il massimo profitto supera di gran lunga il profitto medio. Certo, la statistica borghese non offre dati degni di fiducia né sul saggio medio di profitto, né sul massimo profitto intascato dai monopoli capitalistici. Tuttavia, perfino quelle poche informazioni che si hanno a tale proposito testimoniano di quanto il tasso di profitto dei monopoli capitalistici superi il saggio medio di profitto. Così, per esempio, nel 1929 il tasso di profitto di tutte le corporazioni degli USA, detratte le contribuzioni, consisteva del 6,7 %, mentre il tasso di profitto di 615 grandi compagnie del 13,4 %. Probabilmente queste cifre sono fortemente ribassate, dato che le compagnie capitalistiche, falsificando i propri bilanci, celano notevoli profitti sotto forma di esagerate detrazioni di ammortamento e di varie riserve più o meno nascoste. Nel suddetto caso, tuttavia, per noi sono importanti non tanto le cifre assolute, quanto la loro correlazione e il fatto che il tasso di profitto di 615 grandi compagnie si sia rivelato due volte maggiore di quella di tutte le corporazioni.
Questo superamento, poi, sarà assai più notevole se si prendono non tutte le grandi corporazioni, ma soltanto le maggiori associazioni monopolistiche. Per esempio, nel 1951 il tasso di profitto in tutta l'industria di lavorazione degli USA era del 27,9 %, ma, oltre a ciò, nel suo capitale la compagnia "Dupont de Nemours" ricevette il 43,3 % dei profitti, la "General Electric Company" il 52,8 %, e la "General Motors Company" il 61,6 %; e questo mentre, dall'altro lato, nelle piccole e medie compagnie con attivi fino a 250mila dollari il tasso di profitto equivaleva soltanto al 17,2 %.
Il profitto massimo si distingue da quello medio non soltanto sotto l'aspetto quantitativo, ma anche qualitativo. Mentre il profitto medio, nell'epoca del capitalismo premonopolistico, aveva quale sua fonte il plusvalore prodotto dal lavoro degli operai salariati, il massimo profitto - caratteristico dell'epoca del capitalismo monopolistico, - si ricava non soltanto a spese dello sfruttamento degli operai salariati, ma anche con lo sfruttamento dei piccoli produttori di merci sia negli stessi paesi capitalistici che in quelli coloniali e dipendenti. In tal modo, se la categoria "profitto medio" esprimeva i rapporti di produzione tra la classe degli operai salariati e la classe dei capitalisti, la categoria "massimo profitto" esprime i rapporti, in primo luogo, tra la borghesia monopolistica e la classe operaia; in secondo luogo tra la borghesia monopolistica e i piccoli produttori di merci all'interno dei paesi capitalistici e, in terzo luogo, tra il capitale monopolistico delle metropoli e le masse lavoratrici sfruttate dei paesi coloniali e dipendenti.
Il massimo profitto si distingue da quello medio anche per i metodi della sua appropriazione. Per il capitalismo monopolistico è innanzitutto caratteristica la vendita delle proprie merci, da parte dei monopoli, al di sopra del loro valore e l'acquisto da parte loro della forza-lavoro al di sotto del suo valore.
Tratto caratteristico del massimo profitto è altresì il fatto che esso esprime altri rapporti all'interno della classe dei capitalisti che non il profitto medio. Mentre la legge del plusvalore significa equiparazione del tasso di profitto per i capitalisti di tutti i settori della produzione, la legge del massimo profitto, al contrario, pone in una posizione diseguale i vari capitalisti in quanto essa presuppone una ridistribuzione del valore aggiunto all'interno della loro classe a tutto vantaggio dei monopolisti e a danno delle imprese non monopolizzate.
Sarebbe però sbagliato ritenere che col sorgere della legge del massimo profitto la legge del plusvalore cessasse la propria azione. Lenin ha indicato che il capitalismo monopolistico rappresenta una sovrastruttura sul vecchio capitalismo della libera concorrenza. Le leggi che sono proprie del capitalismo in generale non cessano di agire neanche nell'epoca del capitalismo monopolistico. Ma la questione di come propriamente agisce la legge del profitto medio nelle condizioni del capitalismo monopolistico esige una specifica elaborazione ed esula dai limiti del presente articolo.
Distinguendosi in modo sostanziale dal profitto medio, il massimo profitto si distingue anche dal comune sovraprofitto che si ricavava ancora nell'epoca del capitalismo premonopolistico.
Un tipico modo di ricavare il sovraprofitto è il perfezionamento della tecnica nelle singole imprese capitalistiche, il quale porta a una crescita del grado di sfruttamento nelle date imprese. A seguito dell'introduzione di perfezionamenti tecnici il valore delle merci, in queste imprese, si abbassa rispetto al valore sociale di queste stesse merci, mentre la differenza tra il valore sociale e quello individuale i singoli capitalisti la intascano nella forma di eccedente valore aggiunto o di sovraprofitto. Inoltre essi ricavano il sovraprofitto soltanto temporaneamente, fino a quando cioè le loro imprese superano le altre del dato settore industriale per attrezzamento tecnico e, di conseguenza, per il livello di produttività del lavoro.
A differenza del sovraprofitto il profitto massimo rappresenta un fenomeno non di breve durata, ma a lungo termine. Probabilmente anche il massimo profitto non è una grandezza costante, dato che esso è soggetto a oscillazioni spontanee, in particolare a seguito dell'alternarsi di riprese, crisi e depressioni industriali. Ciò nonostante, rispetto al profitto delle imprese non monopolizzate esso sta pur sempre ad un livello notevolmente più elevato.

La realizzazione del massimo profitto capitalistico
Il concetto di massimo profitto quale motore della produzione capitalistica contemporanea ha un suo determinato contenuto. Il massimo profitto non è semplicemente un maggior profitto. Ogni capitalista cerca sempre di ricavare un maggior profitto. Marx, nel suo lavoro "Teorie del plusvalore", ha sottolineato che scopo della produzione capitalistica è sempre la creazione del massimo di valore aggiunto col minimo di capitale anticipato. Ed è proprio nella loro corsa per un maggior profitto che i capitalisti distolgono i capitali dai settori con una bassa norma di profitto e li investono nei settori con una norma di profitto più elevata. Questo travaso di capitale, tuttavia, e indipendentemente dalla volontà e dai desideri dei singoli capitalisti, porta alla creazione di una norma media di profitto.
Accanto alla concorrenza intersettoriale, che si esprime nel travaso di capitali da alcuni settori di produzione ad altri, si ha anche una concorrenza intrasettoriale. I capitalisti individuali, nella loro corsa per il maggior profitto, introducono nelle loro imprese dei perfezionamenti tecnici, elevano la composizione organica del proprio capitale. Ma, dato che tutti i capitalisti agiscono nella stessa direzione, risultato oggettivo di ciò è un aumento della composizione organica del capitale sociale complessivo, il che, a sua volta, genera la tendenza a una riduzione del tasso medio di profitto.
Il capitalismo monopolistico si distingue da quello premonopolistico per il fatto che il ricavo del massimo profitto, quale profitto che supera non soltanto quello medio ma anche il sovraprofitto, diventa per esso una necessità economica. La questione non sta tanto nel fatto che gli affaristi del capitalismo monopolistico contemporaneo tendano al massimo profitto, ma nella circostanza che l'appropriazione del massimo profitto è per loro una necessità obiettiva, una condizione obbligatoria della riproduzione allargata.
Perché per realizzare una riproduzione più o meno allargata, nelle condizioni del capitalismo monopolistico, è necessario il massimo profitto, allorché nell'epoca del capitalismo premonopolistico per tale scopo era sufficiente il profitto medio?
Tratto caratteristico del capitalismo monopolistico è la concentrazione della produzione in grandi e gigantesche imprese capitalistiche. Stante l'enorme entità di tutto il capitale investito nelle grandi imprese, in esse assai elevato è il peso specifico del capitale fisso investito nelle macchine e nell'attrezzatura, negli edifici di fabbrica e officina e negli impianti. Stante una più rapida crescita del capitale costante rispetto a quello variabile, a più rapidi ritmi cresce quella parte del capitale costante che è investita nel capitale fisso. Così, per esempio, nell'industria americana, nel periodo 1899-1929, il valore delle materie prime consumate è cresciuto di 5,9 volte, allorché il valore dell'usura delle macchine è salito di 10,4 volte. Ma quanto maggiore è l'intero capitale che opera nelle imprese, e quanto maggiore, in particolare, è il capitale fisso, tanto maggiore sarà il capitale aggiunto che si richiede per la riproduzione allargata. Come Marx ha indicato, "le proporzioni in cui può allargarsi il processo della produzione si determinano non secondo arbitrio, ma sono imposte dalla tecnica". Stante un elevato livello della tecnica nelle grandi imprese capitalistiche, per la riproduzione allargata si richiede un notevole capitale aggiunto, e quindi non ogni profitto è sufficiente per la riproduzione allargata.
La necessità di grandi investimenti aggiuntivi di capitale condiziona altresì il fatto che, con un rapido sviluppo della tecnica, si ha un rapido invecchiamento delle attrezzature, cosicché ai capitalisti non di rado capita di dover rinnovare il proprio capitale fisso molto prima del suo invecchiamento fisico, per cui questo rinnovamento si accompagna solitamente con un aumento della somma generale del capitale operante. In verità, nell'epoca del capitalismo monopolistico agisce anche la tendenza opposta: i monopoli, investendo grandi capitali nei macchinari delle proprie imprese e temendo la perdita di una parte di questi capitali nel caso di un rinnovamento delle attrezzature prima della scadenza della loro utilità fisica, frenano il rinnovamento del capitale fisso. E, ciò nondimeno, la lotta di concorrenza impone necessariamente, di quando in quando, di rinnovare il capitale fisso giunto ad invecchiamento.
Se perfino per allargare le imprese già operative con un elevato livello tecnico si richiedono capitali assai notevoli, capitali ancor più cospicui sono necessari per organizzare nuove imprese.
Nelle condizioni del capitalismo monopolistico per la riproduzione allargata si richiede l'investimento di assai notevoli capitali aggiunti. Inoltre, via via che cresce la composizione organica del capitale il tasso medio di profitto diminuisce. Se la riproduzione allargata si fosse realizzata soltanto a spese del profitto medio le possibilità di crescita della produzione si sarebbero sempre più ridotte. Ancora Marx, rilevando che "con la riduzione del tasso di profitto si riduce anche la norma di accumulazione", indicò: "In quanto la norma di crescita del valore dell'intero capitale, il tasso di profitto, serve da stimolo della produzione capitalistica (parimenti a che la crescita del valore del capitale serve quale suo unico scopo), una riduzione del tasso di profitto rallenta la formazione di nuovi capitali autonomi e, in tal modo, rappresenta una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione" (K. Marx, "Il Capitale", vol. III).
Un importante fattore di riduzione del tasso di accumulazione è il crescente impiego improduttivo del reddito nazionale. Con la crescita del parassitismo e della putrefazione del capitalismo una sempre maggiore quota del reddito nazionale viene spesa sia per il consumo improduttivo degli stessi capitalisti, sia per la copertura di varie spese improduttive quali il mantenimento di un parassitario apparato statale borghese e di un sempre più pletorico apparato commerciale. Infine, la norma di accumulazione si riduce anche a seguito del fatto che, nelle condizioni del capitalismo monopolistico, sono sempre più frequenti, si inaspriscono e rivestono un carattere di lunga durata le gravi crisi economiche che attanagliano il capitalismo, durante le quali l'accumulazione del capitale viene seguita da una drastica caduta della produzione.
Sicché, se da un lato la colossale concentrazione della produzione, l'elevato livello tecnico e il grande peso specifico del capitale fisso soggetto a rapida usura comportano che, per la riproduzione allargata, si richieda un investimento di enormi capitali aggiunti, dall'altro lato, a seguito della crescita del parassitismo e della putrefazione del capitalismo, aumenta l'impiego improduttivo del valore aggiunto e dell'intero reddito nazionale. E' in forza di queste condizioni che, per assicurare una più o meno regolare riproduzione allargata si rende necessario, nell'epoca del capitalismo monopolistico, non già un profitto medio, ma il massimo profitto.
Sarebbe certamente sbagliato presumere che i monopoli capitalistici tendano a intascare i massimi profitti in nome della riproduzione allargata. Scopo dei monopoli, infatti, non è tanto la crescita della produzione come tale, ma proprio l'appropriazione del massimo profitto. Tuttavia, indipendentemente da questi motivi che guidano i capitalisti nella loro attività, una più o meno regolare attuazione della riproduzione allargata costituisce una necessità oggettiva. La lotta di concorrenza impone ai capitalisti di allargare la produzione, dato che ogni capitalista che non lo facesse inevitabilmente verrebbe eliminato da concorrenti più potenti e sarebbe privato dell'intero capitale. Come indica Marx, "lo sviluppo della produzione capitalistica rende la continua crescita del capitale investito nell'impresa industriale una necessità, mentre la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi esterne coercitive. Essa gli impone di allargare continuamente il proprio capitale al fine di conservarlo; ma allargare il proprio capitale egli può soltanto mediante una progressiva accumulazione" ("Il Capitale", vol. I).

Le crisi capitalistiche
La necessità di un massimo profitto per attuare una più o meno regolare riproduzione allargata non significa affatto che la riproduzione allargata, nelle condizioni del capitalismo monopolistico, abbia sempre luogo. Nel capitalismo in generale la riproduzione allargata non ha un carattere continuo, dato che la produzione capitalistica si sviluppa in modo ciclico e che, oltre a ciò, la crescita della produzione viene interrotta dalle crisi economiche. Nell'epoca del capitalismo monopolistico questo carattere discontinuo dello sviluppo della produzione capitalistica si rafforza ancor di più, mentre le crisi di sovrapproduzione, che portano a una distruzione delle forze produttive della società, sono più frequenti e si inaspriscono. Per una maggiore lunghezza, profondità e asprezza si caratterizzano le crisi economiche nel periodo della crisi generale del capitalismo, il che, in notevole misura, concorre a un rallentamento dei ritmi medi della riproduzione allargata. Tuttavia, una riduzione dei ritmi di crescita della produzione non significa che la riproduzione allargata cessi di essere una necessità oggettiva o che cessi del tutto. Perfino nella odierna fase della crisi generale del capitalismo, quando le forze produttive segnano il passo e le possibilità di crescita della produzione capitalistica si riducono fortemente a seguito del restringimento del mercato mondiale e della riduzione della sfera di applicazione delle forze dei principali paesi capitalistici alle risorse mondiali, "il carattere ciclico dello sviluppo del capitalismo - la crescita e la riduzione della produzione, - deve tuttavia mantenersi", benché nelle odierne condizioni "la crescita della produzione, in questi paesi, avviene su base ristretta, poiché il volume della produzione in questi paesi si ridurrà" (Stalin, Problemi economici del socialismo nell'URSS).
I monopoli capitalistici ricavano i massimi profitti innanzitutto mediante lo sfruttamento e l'immiserimento della più parte della popolazione di un dato paese e in primo luogo del proletariato.
Nell'epoca del capitalismo monopolistico l'intensificazione dello sfruttamento del proletariato si attua in vari modi, e in particolare mediante il meccanismo dei prezzi di monopolio, per mezzo di una intensificazione del lavoro, dell'inflazione e di una maggiore imposizione fiscale.
Accanto ai prezzi di monopolio un importante fattore della caduta del salario reale è l'inflazione, che rappresenta un fenomeno cronico per quasi tutto l'arco della crisi generale del capitalismo e in particolare per la sua fase attuale.
La crescita dei prezzi sulle merci, che è oggi un effetto sia dei prezzi di monopolio stabiliti dai cartelli e dai trust, sia per l'inflazione che si inasprisce sempre di più, porta a una repentina caduta del salario reale, dato che il salario nominale non aumenta in conformità con la crescita dei prezzi sulle merci di largo consumo. Il divario tra il movimento del salario monetario e il movimento dei prezzi sulle merci si allarga notevolmente in relazione con la politica di "congelamento" dei salari perseguita dai governi borghesi.
I monopoli rafforzano lo sfruttamento degli operai non soltanto con i prezzi di monopolio, ma anche con una intensificazione del lavoro che nell'epoca del capitalismo monopolistico raggiunge il suo massimo grado.
Le risorse carpite dagli Stati borghesi agli operai nella forma di imposte si travasano nelle tasche dei monopolisti attraverso il meccanismo delle redditizie ordinazioni statali. La crescita delle imposte, nelle condizioni dell'odierno capitalismo, è indissolubilmente legata alla corsa agli armamenti e alla militarizzazione dell'economia capitalistica, che serve quale importante strumento di ricavo dei massimi profitti da parte dei monopoli.
All'interno dei propri paesi i monopoli capitalistici spremono il massimo profitto non soltanto a costo di uno smisurato sfruttamento del proletariato, ma anche a spese di un intensificato sfruttamento delle masse lavoratrici non proletarie, e in particolare dei contadini. Lo sfruttamento di questi si attua principalmente attraverso il meccanismo dei prezzi di monopolio. Dominando sul mercato, i monopoli capitalistici stabiliscono elevati prezzi di monopolio sulle merci da essi vendute e bassi prezzi di monopolio sui prodotti agricoli da essi acquistati. Nel periodo dal 1931 al 1938 negli USA i prezzi sulle merci industriali acquistate dai contadini costituivano in media il 120 % rispetto al livello dei prezzi che esisteva prima della prima guerra mondiale, mentre i prezzi sui prodotti agricoli equivaleva soltanto al 94%.
I monopoli capitalistici, facendo incetta dei prodotti agricoli a prezzi che non coprono il loro valore, vendono poi questi prodotti ai consumatori delle città a prezzi che superano il loro reale valore, ottenendo in tal modo il massimo profitto a spese dello sfruttamento delle masse lavoratrici sia delle città che delle campagne.
I monopoli capitalistici sfruttano le masse lavoratrici delle campagne anche attraverso il meccanismo del credito. Con lo sviluppo del capitalismo nell'agricoltura cresce anche l'indebitamento dei contadini. E, insieme con l'indebitamento, aumenta anche la somma di quelle risorse che il capitale monopolistico succhia alle masse lavoratrici contadine nella forma di pagamenti percentuali.
Un altro mezzo per assicurare il massimo profitto capitalistico sono, come insegna Stalin, l'asservimento e il sistematico saccheggio dei popoli degli altri paesi, e in particolare di quelli arretrati. Principali metodi di saccheggio dei popoli dei paesi coloniali e dipendenti da parte dei monopoli capitalistici sono lo scambio ineguale e l'esportazione di capitale.
Lo scambio ineguale, che si esprime in una esportazione di merci industriali dai paesi capitalistici in quelli coloniali e dipendenti ad elevati prezzi di monopolio e nella contemporanea estrazione da essi di materie prime e derrate alimentari a bassi prezzi di monopolio, dopo la seconda guerra mondiale si è intensificato.
Predicando una politica di blocco economico nei riguardi dei paesi del campo socialista, le potenze imperialistiche, con alla testa gli USA, ostacolano in tutti i modi le relazioni dei paesi coloniali e dipendenti con l'URSS e i paesi di democrazia popolare. Il che riduce artificiosamente le possibilità di smercio per i paesi coloniali e dipendenti e concorre alla caduta dei prezzi sulle loro merci.
Accanto allo scambio non equivalente un enorme ruolo nel saccheggio dei popoli coloniali e dipendenti lo svolge l'esportazione di capitali nei paesi arretrati, dove il profitto è solitamente elevato dato che i capitali sono pochi, il prezzo della terra relativamente basso, il salario pure è basso, e le materie prime a poco prezzo.
Dopo la seconda guerra mondiale gli USA hanno notevolmente aumentato l'esportazione di capitale e hanno superato tutti gli altri paesi capitalistici presi insieme per entità di capitale investito all'estero. La somma generale degli investimenti di capitale USA all'estero è cresciuta dai 12,5 miliardi di dollari del 1939 ai 36,1 miliardi del 1951, e di essi ben 20 miliardi spettano agli investimenti privati, il cui 70-80 % sono investiti nei paesi coloniali e dipendenti.
Il tasso di profitto sugli investimenti di capitale esteri supera notevolmente il tasso di profitto sui capitali investiti all'interno del paese. Così, se prendiamo 100 quale norma di profitto nell'industria di lavorazione degli USA per il 1951, il tasso di profitto sul capitale investito nei paesi dell'America Latina è di 166, nei paesi dell'Europa occidentale è di 145, e negli altri paesi coloniali e dipendenti è di 214.
Un importante mezzo per garantire il massimo profitto ai monopoli è l'artificiosa conservazione, da parte dell'imperialismo, dei residui feudali nei paesi coloniali e dipendenti. L'oppressione delle sopravvivenze feudali, insieme con quella coloniale imperialistica, frena lo sviluppo dell'industria in questi paesi, il che concorre a una crescita dei prezzi delle merci sui mercati coloniali e a un ricavo maggiore dei massimi profitti da parte dei monopoli stranieri.
Un terzo metodo per assicurare il massimo profitto per i monopoli sono le guerre e la militarizzazione dell'economia nazionale.
Lenin e Stalin hanno più volte rilevato che le guerre servono quale strumento per ricavare enormi profitti da parte dei monopoli capitalistici, e che colossali profitti di guerra sono ricavati a spese di un immiserimento delle masse popolari e di un estremo abbassamento del livello di vita dei lavoratori.
Durante la prima guerra mondiale i monopoli capitalistici guadagnarono enormi profitti, ma profitti ancor più grandiosi essi ricavarono nel periodo della seconda guerra mondiale. Particolarmente grandi furono i profitti dei monopoli americani, che ricevettero colossali ordinazioni militari dal governo a prezzi di favore. Dell'eccezionale arricchimento dei monopoli americani sul sangue delle masse popolari è prova il fatto che nei sei anni della seconda guerra mondiale (1940-1945) i profitti delle corporazioni americane hanno raggiunto i 116,8 miliardi di dollari contro i 26,6 miliardi dei sei anni prebellici; il che significa un aumento di 4,4 volte. Per ciò che riguarda i grandi monopoli, poi, i loro profitti sono aumentati in misura ancora maggiore. Così, per esempio, il profitto di 34 compagnie, nel 1942, superava il profitto medio annuo degli anni 1936-1939 di quasi 10 volte, mentre il profitto delle cinque maggiori compagnie di più di 100 volte.
La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo determina tutti i principali aspetti e tutti i principali processi di sviluppo della produzione capitalistica nella sua fase monopolistica. Essa svolge un ruolo decisivo nell'economia capitalistica, e determina un estremo inasprimento delle contraddizioni che sono proprie all'imperialismo.
Questa legge spiega tutti i principali fenomeni presenti nell'economia e nella politica dell'imperialismo. E innanzitutto, si deve rilevare che l'azione di questa legge si rispecchia in tutti e cinque i contrassegni dell'imperialismo rivelati da Lenin.
Fondamento economico dell'imperialismo è il monopolio. Le unioni monopolistiche dei capitalisti, in tutta la loro attività, sono guidate dalla corsa al massimo profitto. E proprio per ricavare il massimo profitto i grandi capitalisti si uniscono in monopoli che stabiliscono prezzi elevati sulle merci e sottopongono a sfruttamento e a saccheggio le masse popolari sia all'interno dei propri paesi che all'estero. In nome del massimo profitto i monopoli conducono l'un l'altro una esasperata lotta di concorrenza.

Il capitale finanziario
La corsa al massimo profitto penetra anche l'attività dei monopoli bancari. Gli apologeti borghesi mascherano in tutti i modi il fatto che scopo effettivo sia dei monopoli industriali che di quelli bancari è l'appropriazione del massimo profitto; essi raffigurano falsamente i monopoli quali "organizzatori" della vita economica che attuano una "regolazione cosciente" dell'economia nell'interesse della società. Denunciando i lacché del sacco di scudi, Lenin indicò invece che questa "regolazione cosciente" attraverso le banche consiste nel derubare la gente da parte di un pugno di monopolisti organizzati.
La fusione, o compenetrazione, del capitale bancario monopolistico con il capitale industriale monopolistico - che porta alla formazione del capitale finanziario e di una oligarchia finanziaria, - è altresì strettamente legata alla legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo. La sempre maggiore penetrazione delle grandi banche nell'industria mediante l'accaparramento di azioni delle imprese industriali, l'emissione di carte valori e la partecipazione alla costituzione di nuove società per azioni, tutto questo serve quale strumento finalizzato al massimo profitto da parte dei monopoli bancari. "Il capitale finanziario concentrato in poche mani e che gode del monopolio di fatto, ricava un enorme e sempre crescente profitto dall'emissione di carte valori, dai prestiti statali, ecc., rafforzando il dominio dell'oligarchia finanziaria e obbligando l'intera società a pagare un tributo ai monopolisti" (Lenin, Opere, vol. 22).
Uno degli aspetti più tipici del capitalismo monopolistico è l'esportazione di capitale, anch'essa legata alla legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo. Come si è già mostrato più sopra, l'esportazione di capitale serve quale importante strumento finalizzato al massimo profitto mediante il sistematico saccheggio dei popoli degli altri paesi, e in particolare di quelli arretrati.
Nell'epoca dell'imperialismo si inasprisce drasticamente la contraddizione fondamentale del capitalismo, quella cioè tra il carattere sociale della produzione e la forma capitalistica di appropriazione dei risultati della produzione. Nella corsa per il massimo profitto i monopoli concentrano nelle loro mani una sempre maggior parte del capitale sociale complessivo e della produzione, consolidano le proprie imprese, si impadroniscono delle fonti mondiali di materia prima, delle vie e dei mezzi di comunicazione, ecc. A seguito di ciò si accresce la socializzazione della produzione, in sorprendente contraddizione con la quale si ha la forma capitalistica privata dell'appropriazione.
La corsa dei monopoli al massimo profitto e lo sfruttamento, la rovina e l'immiserimento delle masse popolari portano ad un aggravarsi della incompatibilità tra la crescita delle possibilità produttive del capitalismo e la riduzione della domanda solvibile; il che, inevitabilmente, condiziona la frequenza, l'approfondirsi e l'acuirsi delle crisi economiche. Oltre a ciò i monopoli, cercando così di garantirsi elevati profitti, si provano a mantenere prezzi elevati sulle loro merci perfino durante le crisi, il che ostacola il riassorbimento dell'eccesso di merci presente sul mercato e porta a un perdurare delle crisi. Tuttavia, per quanto i monopoli cerchino di mantenere elevati i prezzi durante le crisi, l'interruzione della realizzazione delle merci e la repentina caduta dei loro prezzi portano inevitabilmente a che, negli anni di crisi, perfino i profitti dei monopoli cadano visibilmente. La dialettica è tale che, in nome del massimo profitto, i monopoli intensificano al massimo lo sfruttamento e l'immiserimento delle masse lavoratrici; poi l'immiserimento delle masse, stante una simultanea crescita della produzione capitalistica, porta alle crisi, e queste crisi sono seguite da una caduta della massa e del tasso di profitto.
L'imperialismo è capitalismo morente, la vigilia della rivoluzione socialista, perché nell'epoca dell'imperialismo raggiungono una asprezza estrema le contraddizioni tra il lavoro e il capitale, tra le metropoli e le colonie, e tra le stesse potenze imperialistiche.
Nell'epoca del capitalismo monopolistico la contraddizione tra il lavoro e il capitale si inasprisce al massimo grado in virtù del fatto che lo sfruttamento, la rovina e l'immiserimento delle masse lavoratrici a seguito dell'azione della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo raggiungono il loro limite estremo.
Lo sfruttamento e il saccheggio dei popoli coloniali portano a una crescita del malcontento di questi popoli, a una ripresa della lotta di liberazione nazionale contro l'imperialismo, e questo concorre alla trasformazione dei paesi coloniali e dipendenti da riserve dell'imperialismo in riserve della rivoluzione proletaria.
La legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo suscita un ulteriore inasprimento delle contraddizioni anche all'interno dello stesso campo imperialista. La lotta dei monopolisti dei singoli paesi per il massimo profitto li costringe a cercare di ottenere il possesso di monopolio delle colonie e delle sfere d'influenza, dato che proprio il dominio di monopolio sui mercati dei paesi coloniali e dipendenti garantisce loro la possibilità di appropriarsi del massimo profitto. Tuttavia, dato che il mondo è già diviso tra un pugno di "grandi potenze" e che i vari paesi capitalistici si sviluppano in modo estremamente ineguale, la lotta per il massimo profitto si trasforma inevitabilmente in una lotta per la spartizione del mondo mediante le guerre imperialistiche. In tal modo l'azione della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo, così come la legge - ad essa subordinata - dell'ineguale sviluppo del capitalismo nell'epoca dell'imperialismo, condiziona l'inevitabilità degli scontri, dei conflitti e delle guerre tra le potenze imperialistiche. Stalin, rilevando che la tesi leniniana sulla inevitabilità delle guerre tra paesi capitalistici rimane in vigore anche al tempo presente, osserva che l'Inghilterra e la Francia non possono contenere all'infinito l'espansione coloniale dell'imperialismo americano se non col risultato di minacciare una catastrofe per gli elevati profitti dei capitalisti anglo-francesi.
Il valore decisivo della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo nel preparare le condizioni di una trasformazione rivoluzionaria del sistema capitalistico è stato rilevato dal Rapporto al XIX Congresso del PC(b) dell'URSS con le seguenti parole: "Questa legge svela e spiega le stridenti contraddizioni del capitalismo, rivela le cause e le radici della aggressiva politica di rapina degli Stati capitalistici. L'azione di questa legge conduce ad un approfondirsi della crisi generale del capitalismo, ad un inevitabile accrescimento e scoppio di tutte le contraddizioni della società capitalistica".
La conoscenza di questa legge offre ai lavoratori un chiaro orientamento negli avvenimenti storici contemporanei, dischiude dinanzi a loro una chiara prospettiva rivoluzionaria e li arma della ferma convinzione nella vittoria finale del comunismo sul capitalismo.

13 ottobre 2004