1895 - 5 Agosto - 2012. 117° Anniversario della morte del grande Maestro del proletariato internazionale e cofondatore del socialismo scientifico (Tre opere di studio sul Capitale)
Ispiriamoci a Engels nella lotta contro il capitalismo, per il socialismo

In occasione del 117° Anniversario della morte di Friedrich Engels, che cade il 5 Agosto, rendiamo omaggio al grande Maestro del proletariato internazionale e cofondatore del socialismo scientifico iniziando la pubblicazione di quattro suoi scritti di illustrazione e commento della fondamentale e monumentale opera di Marx, "Il Capitale". Più precisamente si tratta di:

1. L'articolo "Il Capitale" di Marx, scritto all'inizio del 1868 e pubblicato per la prima volta il 21 e il 28 marzo a Lipsia, in cui presenta e illustra magistralmente agli operai tedeschi il contenuto del 1° Libro del "Capitale" che era stato appena pubblicato.

2. Un estratto della Prefazione al 2° Libro del "Capitale" che egli scrisse nell'Anniversario della nascita di Marx il 5 maggio 1885. Il Secondo e il Terzo Libro, come ben si sa, furono pubblicati rispettivamente nel 1885 e nel 1894 dopo la morte dell'autore, solo grazie al complesso lavoro di Engels che riuscì a dare alle stampe quei manoscritti e specie per l'ultimo Libro incontrò "difficoltà del tutto inaspettate". In particolare Engels mette bene in risalto il ruolo ricoperto da Marx in campo economico, e più precisamente come egli "pervenne a descrivere fin nei minimi particolari, e con ciò a spiegare, il processo della formazione del plusvalore nel suo effettivo svolgersi; ciò che nessuno dei suoi predecessori aveva compiuto".

3. L'opera "Riassunto del 'Capitale'", la cui stesura iniziò verso la fine del 1867 e terminò alla metà del '68, senza tuttavia condurla a termine.

4. L'opera "Considerazioni supplementari al 3° volume del 'Capitale'", scritta nel 1895 e pubblicata solo dopo la sua morte.

Per mancanza di spazio non compare "Considerazioni supplementari al 3° volume del 'Capitale'", che pubblicheremo in seguito.
Mentre infuria la devastante crisi economica capitalistica, questi quattro scritti di Engels risultano quanto mai attuali e preziosi perché danno la chiave di lettura del groviglio di contraddizioni insanabili in cui si dibatte il regime economico capitalistico, che si spaccia di essere il più progredito e produttivo e invece nella realtà "crescono l'anarchia della produzione, le crisi, la corsa sfrenata alla conquista dei mercati, l'incertezza dell'esistenza per la massa della popolazione" (Lenin).
Quantunque fosse animato da uno sconfinato altruismo e da altrettanta modestia nei confronti dello stretto compagno insieme al quale aveva scritto nel 1848 il "Manifesto del Partito Comunista", che lo avevano indotto a sacrificare onori, mezzi economici e tutto se stesso pur di metterlo in grado di studiare e completare l'opera principale di Marx, anche nel campo della dottrina economica Engels non si limitò a ricoprire il ruolo della comparsa ma risultò un impareggiabile "secondo violino", senza il cui contributo il Secondo e il Terzo Libro non avrebbero mai visto la luce ma sarebbero rimasti sepolti sotto forma di manoscritti ancora da riordinare, integrare, aggiornare e in qualche passaggio correggere. Engels ha la rara qualità di rendere chiara, semplice e intellegibile la materia economica che un esercito di economisti borghesi hanno reso ancor più complessa e di difficile comprensione con ogni sorta di fumosità e teorie ingannatrici, pur di nascondere le verità del conflitto di classe tra capitale e lavoro salariato.
Quando noi marxisti-leninisti definiamo Engels cofondatore del socialismo scientifico lo consideriamo a tutti gli effetti il grande Maestro del proletariato internazionale che insieme a Marx ha contribuito a definire quelle tre parti integranti della nostra dottrina che sono rappresentate dal materialismo dialettico e storico, dalla dottrina economica esposta nel "Capitale" e dalla dottrina della lotta di classe e della dittatura del proletariato.
Non c'è miglior modo di rendere onore a Engels che ispirarsi a lui e studiarne i preziosi insegnamenti che scaturiscono dalle sue opere. Studiare e conoscere sempre meglio il mondo che ci circonda per rovesciare il capitalismo e conquistare il socialismo. Studiare di più per condurre meglio la lotta di classe. Nel nome di Engels auguriamo buono studio ai nostri lettori.

1 agosto 2012

Il capitale

I

Da quando al mondo vivono capitalisti e operai non è mai apparso un libro che per gli operai fosse così importante come questo. Il rapporto fra capitale e lavoro, questo cardine intorno al quale oggi gira tutto il nostro sistema sociale, è svolto qui per la prima volta in maniera scientifica, con la profondità e l'acume di cui solo un tedesco poteva essere capace. Per quanto gli scritti di un Owen, un Saint-Simon, un Fourier siano preziosi - e tali rimarranno - doveva essere un tedesco a raggiungere quell'altezza da cui si domina nitidamente e in tutta la sua estensione l'intero campo dei rapporti sociali moderni, alla stessa maniera in cui lo spettatore che si trova sulla cima più alta domina il sottostante paesaggio montuoso.
Sino ad oggi l'economia politica ci ha insegnato che il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e la misura di tutti i valori, cosicché due oggetti la cui produzione sia costata lo stesso tempo di lavoro, posseggono anche lo stesso valore; ed essendo in media scambiabili fra di loro solo valori eguali, anche questi due oggetti debbono essere scambiati fra di loro. Ma allo stesso tempo essa insegna che esiste una specie di lavoro immagazzinato che essa chiama capitale; che questo capitale aumenta di cento e mille volte la produttività del lavoro vivo mediante le fonti ausiliarie contenute in esso capitale e in cambio esige un certo indennizzo chiamato profitto o guadagno. Come noi tutti sappiamo, nella realtà dei fatti la cosa si traduce in un sempre più enorme aumento dei profitti del lavoro immagazzinato, morto, e in un sempre più colossale aumento dei capitali dei capitalisti, mentre il salario del lavoro vivo diviene sempre più esiguo e la massa degli operai che vivono del mero salario diviene sempre più numerosa e più povera. Come si dovrà risolvere questa contraddizione? Come può rimanere a disposizione del capitalista un profitto qualora all'operaio venga ripagato il pieno valore del lavoro che egli immette nel suo prodotto? Ed essendo scambiati soltanto valori eguali, dovrebbe essere certo così. D'altra parte, come possono essere scambiati valori eguali, come può l'operaio ricevere il pieno valore del suo prodotto, se questo prodotto viene diviso fra lui e il capitalista, come ammettono molti economisti? L'economia dinanzi a questa contraddizione si è trovata sinora perplessa, scrive o balbetta frasi impacciate e vuote. Gli stessi critici socialisti dell'economia sinora non sono stati capaci di fare altro che di mettere in rilievo questa contraddizione; nessuno l'ha risolta fino a che Marx ora finalmente ha seguito il processo genetico di questo profitto fino al suo luogo di origine e così facendo ha chiarito tutto.
Nello svolgimento del capitale Marx parte dal fatto semplice, generalmente noto, che i capitalisti valorizzano il loro capitale mediante lo scambio: acquistano merce per il loro denaro e la vendono in un secondo tempo per una somma di denaro maggiore di quella che la merce sia costata loro. Un capitalista acquista p. es. del cotone per 1.000 talleri e lo rivende per 1.100 talleri, guadagna quindi 100 talleri. Questa eccedenza di 100 talleri sul capitale originario Marx la chiama plusvalore. Da che cosa nasce questo plusvalore? Secondo quanto suppongono gli economisti, si scambiano soltanto valori eguali, e ciò è esatto nel campo della teoria astratta. L'acquisto di cotone e la sua rivendita non può quindi fornire un plusvalore alla stessa maniera che non lo fornisce lo scambio di un tallero di argento con trenta Groschen di argento, e l'ulteriore scambio della moneta spicciola con il tallero d'argento, atti che non rendono né più ricchi né più poveri. Il plusvalore non può però nemmeno nascere dal fatto che i rivenditori vendono le merci al di sopra del loro valore, o che i compratori le acquistano al di sotto del loro valore, giacché ognuno è a sua volta ora compratore ora rivenditore e avrebbe luogo quindi di nuovo una perequazione. Allo stesso modo non può nascere dal fatto che i compratori e i venditori traggano reciprocamente maggior vantaggio l'uno dell'altro, giacché ciò non creerebbe alcun valore nuovo o plusvalore, non farebbe bensì che distribuire diversamente tra i capitalisti il capitale esistente. Nonostante che il capitalista acquisti le merci e le venda al loro valore, egli ne ricava un valore maggiore di quello che vi ha immesso. Come può accadere ciò?
Il capitalista trova nelle attuali condizioni sociali, sul mercato delle merci, una merce la quale ha la peculiare qualità che il suo consumo è una fonte di valore nuovo, creazione di valore nuovo, e questa merce è la forza-lavoro.
Qual è il valore della forza-lavoro? Il valore di ogni merce viene misurato mediante il lavoro necessario per la sua produzione. La forza-lavoro esiste nella figura dell'operaio vivo, il quale abbisogna di una determinata somma di mezzi di sostentamento per la propria esistenza e per il mantenimento della propria famiglia che assicura la continuazione della forza-lavoro anche dopo la sua morte. Il tempo di lavoro necessario per la produzione di quei mezzi di sussistenza rappresenta quindi il valore della forza-lavoro. Il capitalista lo paga settimanalmente e in cambio acquista l'uso del lavoro settimanale dell'operaio. Fin qui i signori economisti concorderanno con noi per sommi capi sul valore della forza-lavoro.
Il capitalista allora fa lavorare l'operaio. Entro un determinato tempo l'operaio avrà fornito quella quantità di lavoro che era rappresentata nel suo salario settimanale. Posto che il salario settimanale di un operaio rappresenti tre giornate lavorative, l'operaio che comincia di lunedì, al mercoledì sera ha reintegrato il capitalista del valore pieno del salario pagato. Ma cessa egli in quel momento di lavorare? Nient'affatto. Il capitalista ha acquistato il suo lavoro settimanale, e l'operaio deve lavorare anche negli ultimi tre giorni della settimana. Questo pluslavoro dell'operaio al di là del tempo necessario per la reintegrazione del suo salario, è la fonte del plusvalore, del profitto, del sempre crescente gonfiarsi del capitale.
Non si venga a dire che il presupposto secondo il quale l'operaio entro tre giornate reintegra lavorando il salario ricevuto e le altre tre giornate lavora per il capitalista, è arbitrario. Che egli abbia bisogno di tre giornate precisamente per reintegrare il salario, o di due o di quattro, certo, qui è del tutto indifferente, e varia anche secondo le circostanze. Ma la cosa principale è che il capitalista ottiene, oltre al lavoro che paga, anche del lavoro che non paga, e questo non è un presupposto arbitrario: il giorno, infatti, in cui il capitalista ottenesse dall'operaio per sempre solo quel tanto di lavoro che gli paga nel salario, egli chiuderebbe la propria officina giacché per l'appunto tutto il suo profitto verrebbe a mancare.
Qui abbiamo la soluzione di tutte quelle contraddizioni. L'origine del plusvalore (di cui il profitto del capitalista costituisce una parte notevole) è ora del tutto chiara e naturale. Il valore della forza-lavoro viene pagato, ma questo valore è molto più esiguo di quello che il capitalista sa ricavare dalla forza-lavoro, e la differenza, il lavoro non pagato, costituisce precisamente la parte del capitalista. Giacché perfino il profitto ottenuto nell'esempio su accennato dal commerciante di cotone dal suo cotone, deve consistere in lavoro non pagato qualora non siano saliti i prezzi del cotone. Il commerciante deve aver venduto a un industriale cotoniero, il quale riesce a ricavare dai propri prodotti un guadagno per sé al di fuori di quei cento talleri, il quale quindi divide con lui il lavoro non pagato, finito nelle sue tasche. Questo lavoro non pagato è in genere quel lavoro che mantiene tutti i membri non lavoratori della società. Con esso si pagano le imposte dello Stato e comunali in quanto colpiscono la classe capitalista, le rendite fondiarie dei proprietari terrieri, ecc. Su di esso sono fondate tutte le condizioni sociali esistenti.
D'altra parte sarebbe insulso presupporre che il lavoro non pagato sia nato soltanto nelle condizioni attuali in cui la produzione viene esercitata dai capitalisti da un lato e dai salariati dall'altro. Al contrario. La classe oppressa ha dovuto fornire del lavoro non pagato in tutti i tempi. Durante tutto quel periodo in cui la schiavitù era la forma dominante dell'organizzazione del lavoro, gli schiavi hanno dovuto lavorare molto di più di quel che non fosse reintegrato loro sotto forma di mezzi di sussistenza. Sotto il regime della schiavitù della gleba e fino all'abolizione del lavoro feudale dei contadini accadeva la stessa cosa; in quest'ultimo caso la differenza si manifesta in maniera palmare fra il tempo in cui il contadino lavora per il proprio mantenimento e il pluslavoro per il padrone, appunto perché quest'ultimo viene compiuto separatamente dal primo. La forma ora è mutata, ma la sostanza è rimasta e fintanto che "una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, l'operaio, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario per il suo sostentamento del tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione" (Marx, p. 243)(1).

II

Nell'articolo precedente abbiamo visto che ogni operaio che viene impiegato dal capitalista, compie un duplice lavoro: durante una parte del suo tempo di lavoro egli reintegra il salario anticipatogli dal capitalista, e questa parte del lavoro è chiamata da Marx il lavoro necessario. In seguito però egli deve lavorare ancora e durante questo tempo produce il plusvalore per il capitalista, di cui il profitto costituisce una parte notevole. Questa parte del lavoro si chiama il pluslavoro.
Presupponiamo che l'operaio lavori tre giornate della settimana per la reintegrazione del salario e tre giornate per la produzione di plusvalore per il capitalista. In altri termini ciò significa che egli, con un lavoro quotidiano di dodici ore, lavora sei ore giornalmente per il proprio salario e sei ore per la produzione del plusvalore. Dalla settimana si possono ricavare solo sei o, anche aggiungendo la domenica, solo sette giornate, ma da ogni singola giornata si possono ricavare sei, otto, dieci, dodici, quindi e anche più ore lavorative. L'operaio ha venduto al capitalista una giornata lavorativa in cambio del salario giornaliero. Ma che cosa è una giornata lavorativa? Otto ore o diciotto?
Il capitalista è interessato a che la giornata lavorativa venga estesa il più possibile. Quanto più è lunga, tanto maggiore è il plusvalore da essa prodotto. L'operaio ha la sensazione esatta che ogni ora che lavora al di là della reintegrazione del salario, gli viene sottratta illegittimamente; egli deve sperimentare sul proprio corpo che cosa significhi lavorare per un tempo troppo prolungato. Il capitalista lotta per il proprio profitto, l'operaio lotta per la propria salute, per alcune ore di riposo giornaliero, per poter svolgere un'attività da uomo al di fuori di quello che è il lavoro, il dormire e mangiare. Sia detto di passaggio, non dipende affatto dalla buona volontà dei singoli capitalisti che essi prendano parte alla lotta o meno, poiché la concorrenza costringe anche il capitalista più filantropo a seguire l'esempio dei suoi colleghi e a stabilire come norma un tempo lavorativo della stessa durata di quello stabilito da essi.
La lotta per la determinazione della giornata lavorativa data dalla prima presenza nella storia di liberi lavoratori e giunge sino ai giorni nostri. Nelle diverse industrie valgono diverse giornate lavorative tradizionali, ma nella realtà dei fatti sono raramente osservate. Solo là dove la legge stabilisce la giornata lavorativa e vigila sulla sua osservanza, solo là si può dire effettivamente che esiste una giornata lavorativa normale. E finora questo accade quasi soltanto nei distretti industriali dell'Inghilterra. Quivi è stata stabilita la giornata lavorativa di dieci ore (10 ore e 1/2 per cinque giorni, 7 ore e 1/2 il sabato) per tutte le donne e per i fanciulli dai 13 ai 18 anni, e siccome gli uomini non possono lavorare senza le donne e i fanciulli, anche essi rientrano nella giornata lavorativa di dieci ore. Questa legge è stata conquistata dagli operai di fabbrica inglesi mediante un'annosa perseveranza, mediante la lotta più tenace, più ostinata contro i fabbricanti, mediante la libertà di stampa, usando del diritto di coalizione e di riunione, come anche servendosi abilmente delle scissioni in seno alla stessa classe dominante. Essa è diventata il palladio degli operai inglesi, a mano a mano è stata estesa a tutti i rami della grande industria e nell'anno passato a quasi tutte le industrie, per lo meno a tutte le industrie in cui lavorano donne e fanciulli. L'opera di cui parliamo contiene un materiale molto ampio sulla storia della determinazione legale della giornata lavorativa in Inghilterra. Il prossimo "Parlamento della Germania settentrionale" dovrà anch'esso discutere un ordinamento industriale e insieme ad esso una regolamentazione del lavoro di fabbrica. Noi contiamo che nessuno dei deputati imposti dagli operai tedeschi prenda parte alla discussione di questa legge senza essersi prima del tutto familiarizzato con il libro di Marx. Molte cose si possono imporre in questo campo. Le scissioni in seno alle classi dominanti sono più favorevoli agli operai di quel che mai fossero state in Inghilterra, perché il suffragio universale costringe le classi dominanti a gareggiare nella conquista del favore degli operai. Quattro o cinque rappresentanti del proletariato sono una potenza, in queste circostanze, se sanno servirsi della loro posizione, se sanno anzitutto di che cosa si tratta, il che i borghesi non sanno. E a questo scopo il libro di Marx mette loro in mano tutto il materiale bell'e pronto.
Sorvoliamo su una serie di altre bellissime indagini di interesse più teorico, e parliamo ormai soltanto del capitolo conclusivo che tratta dell'accumulazione o ammassamento del capitale. Quivi è dimostrato in primo luogo che il metodo di produzione capitalistico, cioè il metodo attuato da un lato dai capitalisti e dall'altro dai salariati, non soltanto produce sempre di nuovo al capitalista il suo capitale, ma produce anche allo stesso tempo sempre di nuovo la povertà degli operai; cosicché è provveduto a che sempre di nuovo da un lato esistano capitalisti che sono i proprietari di tutti i mezzi di sussistenza, di tutte le materie prime e di tutti gli strumenti da lavoro, e dall'altro vi sia la grande massa degli operai, costretti a vendere a questi capitalisti la loro forza-lavoro in cambio di un quantitativo di mezzi di sussistenza che nel migliore dei casi basta appena a mantenerli nella capacità di lavorare e ad allevare una nuova generazione di proletari capaci di lavorare. Ma il capitale non soltanto si riproduce: viene costantemente aumentato e accresciuto - e con ciò viene accresciuto il suo potere sulla classe operaia nullatenente. E come esso stesso viene riprodotto su scala sempre maggiore così il modo di produzione capitalistico moderno riproduce a sua volta su scala sempre maggiore, in numero sempre crescente, la classe degli operai nullatenenti. "L'accumulazione del capitale riproduce il rapporto capitalistico su scala allargata, più capitalisti o più grossi capitalisti a questo polo e più salariati a quell'altro... L'accumulazione del capitale è quindi l'aumento del proletariato" (p. 645) (2). Ma siccome a causa del progresso delle macchine, a causa del miglioramento dell'agricoltura, ecc., sono necessari sempre meno operai per produrre una medesima quantità di prodotti, perché questo perfezionamento, cioè questo mettere in soprannumero gli operai cresce più rapidamente dello stesso capitale in aumento, che cosa ne è di questo numero sempre crescente di operai? Essi costituiscono un esercito industriale di riserva che in epoche d'affari cattivi o mediocri viene pagato al di sotto del valore del lavoro e viene impiegato irregolarmente o è abbandonato alla pubblica assistenza. Questo esercito di riserva è però indispensabile alla classe dei capitalisti in epoche di affari particolarmente fiorenti, come è evidente in Inghilterra, e serve in tutte le circostanze a infrangere la forza di resistenza degli operai occupati regolarmente e a tenere bassi i loro salari. "Quanto maggiore è la ricchezza sociale... tanto maggiore è la sovrappopolazione relativa ossia l'esercito industriale di riserva. Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in proporzione all'esercito operaio attivo (occupato regolarmente), tanto più in massa si consoliderà la sovrappopolazione, ossia gli strati operai la cui miseria sta in rapporto inverso con il tormento del loro lavoro. Quanto maggiori infine lo strato dei lazzari della classe operaia e l'esercito industriale di riserva, tanto maggiore il pauperismo ufficiale. Questa è la legge assoluta generale dell'accumulazione capitalistica" (p. 679) (3).
Queste sono, comprovate con rigorosa scientificità - e gli economisti ufficiali si guardano bene dal fare anche solo il tentativo di una confutazione - alcune delle leggi principali del sistema sociale moderno, capitalistico. Ma è detto tutto con questo? Niente affatto. Con quanto acume Marx rileva i lati negativi della produzione capitalistica, con altrettanta chiarezza egli dimostra che questa forma sociale era necessaria per sviluppare le forze produttive della società portandole a un livello che renderà possibile uno sviluppo eguale e degno dell'uomo per tutti i membri della società. Per raggiungere questo tutte le forme sociali del passato erano troppo povere. La produzione capitalistica soltanto crea le ricchezze e le forze produttive necessarie a quel fine, ma essa crea anche allo stesso tempo nella massa operaia oppressa quella classe sociale che sempre più viene costretta ad esigere l'uso di quelle ricchezze e di quelle forze produttive per tutta la società - anziché, come accade oggi, per una classe monopolistica.

 
1 Vedi K. Marx, Il Capitale, I, 1, Edizioni Rinascita, 1951, p. 255.
2 Vedi K. Marx, Il Capitale, ed. cit., I, 3, pp. 61-62.
3 Vedi K. Marx, Il Capitale, ed. cit., I, 3, pp. 95-96.

 

Dalla prefazione al II Libro del "Capitale"

(...) Ma che cosa di nuovo ha detto Marx sul plusvalore? Come avviene che la teoria del plusvalore di Marx sia caduta come un fulmine a ciel sereno, e ciò in tutti i paesi civili, mentre le teorie di tutti i suoi predecessori socialisti, Rodbertus compreso, sono scomparse senza lasciar traccia?
La storia della chimica ci può offrire un utile esempio.
Ancora verso la fine del secolo scorso dominava, com'era noto, la teoria flogistica, secondo la quale l'essenza di ogni combustione consisteva nel fatto che dal corpo comburente si separa un altro corpo ipotetico, una materia combustibile assoluta, che veniva designata con il nome di flogisto. Questa teoria riusciva a spiegare la maggior parte dei fenomeni chimici allora conosciuti, se pure, in molti casi, non senza qualche violenza. Ora, nel 1774 Priestley descrisse una specie di aria "che trovò così pura, ossia così immune da flogisto, che l'aria comune al suo confronto appariva già corrotta". Egli la chiamò: aria deflogistizzata. Poco dopo Scheele in Svezia descrisse la stessa specie di aria, e ne dimostrò la presenza nell'atmosfera. Egli trovò pure che essa scompare se si brucia un corpo in essa o nell'aria comune, e la chiamò perciò aria di fuoco. "Da questi risultati trasse quindi la conclusione che la combinazione che nasce dall'unione del flogisto con una delle parti costitutive dell'aria" (dunque dalla combustione) "altro non è che fuoco o calore, che fugge attraverso il vetro"(4).
Sia Priestley che Scheele avevano descritto l'ossigeno, ma non sapevano che cosa avessero tra le mani. Essi "rimanevano prigionieri delle categorie 'flogistiche' così come le avevano trovate belle e fatte". L'elemento che doveva rovesciare tutta la concezione flogistica e rivoluzionare la chimica, era caduto infruttuosamente nelle loro mani. Ma Priestley subito dopo comunicò la propria scoperta a Lavoisier a Parigi, e Lavoisier, avendo a disposizione questo fatto nuovo, sottopose ad esame l'intera chimica flogistica, e scoperse solo che questa specie di aria era un nuovo elemento chimico, e che nella combustione non si diparte dal corpo comburente il misterioso flogisto, ma che questo nuovo elemento si combina con il corpo; così soltanto egli mise in piedi l'intera chimica, che nella sua forma flogistica se ne stava a testa in giù. E se anche non ha descritto, come più tardi ha preteso, l'ossigeno contemporaneamente agli altri e indipendentemente da essi, tuttavia egli rimane il vero e proprio scopritore dell'ossigeno di fronte a quei due, i quali lo hanno meramente descritto, senza minimamente sospettare che cosa avessero descritto.
Come Lavoisier rispetto a Priestley e Scheele, così è Marx rispetto ai suoi predecessori per quanto riguarda la teoria del plusvalore. L'esistenza della parte di valore dei prodotti che noi ora chiamiamo plusvalore era stata stabilita molto prima di Marx; con maggiore o minore chiarezza, era stato altresì espresso in che cosa esso consista, cioè nel prodotto del lavoro per il quale colui che se lo appropria non ha pagato alcun equivalente. Ma non si andava oltre. Gli uni - gli economisti borghesi classici - indagavano tutt'al più il rapporto di grandezza secondo il quale il prodotto del lavoro si ripartisce tra il lavoratore e il possessore dei mezzi di produzione. Gli altri - i socialisti - trovavano ingiusta questa ripartizione e con mezzi utopistici cercavano di eliminare l'ingiustizia. Entrambi restavano prigionieri delle categorie economiche così come le avevano trovate.
Qui interviene Marx. E in diretta opposizione con tutti i suoi predecessori. Là dove questi avevano visto una soluzione, egli vide soltanto un problema. Egli vide che qui non c'era aria deflogistizzata né aria di fuoco, ma ossigeno, che si trattava non della pura e semplice constatazione di un fatto economico né del conflitto di questo fatto con la giustizia eterna e la vera morale, bensì di un fatto che era chiamato a sovvertire l'intera economia, e che forniva la chiave per la comprensione dell'intera produzione capitalistica, per chi avesse saputo utilizzarla. Fondandosi su questo fatto, egli esaminò tutte le categorie già trovate, come Lavoisier fondandosi sull'ossigeno aveva esaminato le categorie già esistenti della chimica flogistica. Per sapere che cosa fosse il plusvalore, egli doveva sapere che cosa fosse il valore. Innanzitutto, doveva essere sottoposta alla critica la stessa teoria del valore di Ricardo. Marx esaminò dunque il lavoro della sua qualità di formatore di valore e stabilì per la prima volta quale lavoro, e perché, e come esso forma il valore, e che il valore in generale non è altro che lavoro di questa specie coagulato, un punto che Rodbertus fino all'ultimo non ha compreso. Marx esaminò poi il rapporto tra merce e denaro, e dimostrò come e perché, in forza della qualità di valore ad essa immanente, la merce e lo scambio di merci debbano generare la opposizione tra merce e denaro; la sua teoria del denaro su ciò fondata è la prima teoria esauriente, e oggi generalmente accettata senza discussione. Egli esaminò la trasformazione del denaro in capitale e dimostrò come essa poggi sulla compra-vendita della forza-lavoro. Ponendo qui la forza-lavoro, la proprietà di creare valore, al posto del lavoro, risolse d'un colpo una delle difficoltà per la quale era crollata la scuola di Ricardo: l'impossibilità di far concordare il reciproco scambio tra capitale e lavoro, con la legge ricardiana della determinazione del valore attraverso il lavoro. Soltanto constatando la distinzione del capitale in costante e variabile, Marx pervenne a descrivere fin nei minimi particolari, e con ciò a spiegare, il processo della formazione del plusvalore nel suo effettivo svolgersi; ciò che nessuno dei suoi predecessori aveva compiuto; egli constatò dunque una differenza all'interno del capitale stesso, dalla quale Rodbertus così come gli economisti borghesi non erano stati capaci di cavar nulla, ma che fornisce la chiave per la soluzione dei più intricati problemi economici, di cui qui di nuovo il II Libro - e ancor più, come si mostrerà, il III Libro - è la più convincente dimostrazione. Egli continuò a indagare il plusvalore stesso, e trovò le sue due forme: plusvalore assoluto e relativo, e mostrò le due parti differenti, ma ugualmente decise, che esso ha sostenuto nello sviluppo storico della produzione capitalistica. Sul fondamento del plusvalore, egli sviluppò la prima teoria razionale del salario che noi possediamo, e per la prima volta fornì le linee fondamentali di una storia dell'accumulazione capitalistica ed una esposizione della sua tendenza storica.(...)

4 (Nota di Engels) Roscoe-Schorlemmer, Ausführliches Lehrbuch der Chemie, [testo ampliato di chimica] Braunschweig, 1877, I, pp. 13-18.

 

 

Riassunto del "Capitale"
(Libro I: Il processo di produzione del capitale)

Prima sezione
Merce e Denaro

I
La merce in sé

La ricchezza delle società nelle quali predomina la produzione capitalistica, consiste in merci. La merce è una cosa che ha valore d'uso; questo esiste in tutte le forme della società, ma nella società capitalistica, il valore d'uso è insieme il depositario materiale del valore di scambio.
Il valore di scambio presuppone un tertium comparationis [termine di paragone] al quale possa venir commisurato: il lavoro, la comune sostanza sociale dei valori di scambio, e precisamente il tempo di lavoro socialmente necessario, che è oggettivato in esso.
Come la merce è qualcosa di duplice: valore d'uso e valore di scambio, così il lavoro in essa contenuto è doppiamente determinato: da una parte come attività produttiva determinata, lavoro del tessitore, del sarto, ecc., "lavoro utile", dall'altra parte come semplice dispendio di forza-lavoro umana, lavoro partecipato, astratto. La prima produce valore d'uso, la seconda valore di scambio, e solo quest'ultima è quantitativamente paragonabile (le differenze tra lavoro skilled [qualificato] e unskilled [non qualificato], composto e semplice, lo confermano).
Sostanza del valore di scambio è dunque il lavoro astratto, sua grandezza è la misura del tempo di quest'ultimo. Resta ancora da considerare la forma del valore di scambio.
1) x merce A, = y merce B, il valore di una merce espresso nel valore d'uso di un'altra è il suo valore relativo. L'espressione dell'equivalenza di due merci è la forma semplice del valore relativo. Nell'equazione di cui sopra y merce B è l'equivalente. In esso x merce A riceve la propria forma di valore in contrapposizione alla forma naturale di essa (5), mentre y merce B riceve nello stesso tempo la proprietà della scambiabilità immediata, anche nella propria forma naturale. Alla merce il valore di scambio è impresso nel suo valore d'uso da determinate condizioni storiche. Perciò essa può esprimerlo non nel suo proprio valore d'uso, bensì soltanto nel valore d'uso di un'altra merce. Soltanto nel confronto di due prodotti di lavoro concreti la proprietà del lavoro concreto contenuto in ambedue compare come lavoro umano astratto, cioè una merce può rifarsi non al lavoro concreto contenuto in essa stessa, sibbene a quello contenuto in un'altra specie di merce come a semplice forma di realizzazione di lavoro astratto.
L'equazione x merce A = y merce B implica necessariamente che x merce A possa essere espresso anche in altre merci, sicché:
2) x merce A = y merce B = z merce C = v merce D = u merce E = ecc. Questa è la forma relativa dispiegata di valore. Qui x merce A si riferisce non più ad una, bensì a tutte le merci come a semplici forme fenomeniche del lavoro in essa contenuto. Ma, mediante una semplice inversione essa porta a
3) la seconda forma inversa del valore relativo:
y merce B = x merce A
v merce C = x merce A
u merce D = x merce A
t merc E = x merce A
ecc.
Qui le merci ricevono la forma relativa generale di valore, nella quale esse in quanto merci astraggono dal loro valore d'uso, e si equiparano come materializzazione di lavoro astratto in x merce A. x merce A è la forma generica dell'equivalente per tutte le altre merci, è il loro equivalente generale, il lavoro materializzato in essa vale senz'altro come realizzazione del lavoro astratto, come lavoro generale. Ora, però,
4) Ogni merce della serie può assumere la funzione di equivalente generale, ma nello stesso tempo sempre soltanto una di esse, poiché, se tutte le merci fossero equivalenti generali, ciascuna ne escluderebbe di nuovo l'altra. La forma 3 non è prodotta da x merce A, ma dalle altre merci obiettivamente. Bisogna insomma che una merce determinata si assuma la funzione - per il momento, poiché essa può cambiare - e soltanto così la merce diventa pienamente merce. Questa merce particolare con la cui forma naturale concresce la forma generale di equivalente, è il denaro.
Nella merce
la difficoltà consiste nel fatto che essa, come tutte le categorie del modo di produzione capitalistico, rappresenta un rapporto fra persone nel guscio di un rapporto fra cose. I produttori mettono in reciproca relazione i loro diversi lavori come lavoro umano generale mettendo in reciproca relazione come merci il loro prodotto: senza questa mediazione della cosa non riescono a farlo. Il rapporto fra le persone appare dunque come rapporto fra le cose.
Per una società in cui predomina la produzione di merci, il cristianesimo, e specialmente il protestantesimo, è la religione adatta.

II
Processo di scambio della merce


Che la merce è merce essa lo dimostra nello scambio. I proprietari di merci debbono avere la volontà di scambiare le loro merci rispettive, e riconoscersi così reciprocamente quali proprietari privati. Questo rapporto giuridico, la cui forma è il contratto, è soltanto il rapporto di volontà nel quale si rispecchia il rapporto economico. Il contenuto di esso è dato mediamente il rapporto economico stesso. P. 45 [I, 98].
La merce è valore d'uso per il suo non possessore, valore non d'uso per il suo possessore. Quindi il bisogno dello scambio. Ma ogni proprietario di merci vuole acquistare nello scambio valori d'uso specifici, a lui necessari: fin qui lo scambio è un processo individuale. D'altra parte egli vuole realizzare la sua merce come valore, cioè in una merce a scelta, sia che la sua merce sia o no valore d'uso per il possessore dell'altra merce. Fin qui lo scambio è per lui un processo generalmente sociale. Ma lo stesso processo non può essere per tutti i proprietari di merci insieme individuale e generalmente sociale. Per ogni proprietario di merci la sua merce conta come equivalente generale, ma tutte le altre merci come altrettanti equivalenti particolari di essa. Poiché tutti i possessori di merci fanno la stessa cosa, nessuna merce è equivalente generale, e quindi anche nessuna merce ha una forma relativa generale di valore, nella quale esse si equiparino come valori e si mettano a paragone come grandezza di valore. Quindi esse non si trovano l'una di fronte all'altra come merci, ma soltanto come prodotti. P. 47 [I, 100].
Le merci possono riferirsi l'una all'altra come valori e quindi come merci, soltanto riferendosi per opposizione a qualsiasi altra merce quale equivalente generale. Ma soltanto l'azione sociale può fare di una merce determinata l'equivalente generale: denaro.
La contraddizione immanente della merce come unità immediata di valore d'uso e di valore di scambio, come prodotto di lavoro privato utile... e come materializzazione immediata e sociale di lavoro umano astratto, questa contraddizione non s'acqueta e non posa fino a che non si è configurata nello sdoppiamento della merce in merce e denaro. P. 48 [I, 101].
Poiché tutte le altre merci sono soltanto equivalenti particolari del denaro e il denaro è il loro equivalente generale, esse si comportano come merci particolari, nei confronti del denaro come merce universale. P. 51 [I, 103-104]. Il processo di scambio non dà alla merce che esso trasforma in denaro il suo valore, ma la sua forma di valore. P. 53 [I, 104]. Feticismo: non sembra che una merce diventi denaro soltanto perché le altre merci rappresentano in essa, da tutti i lati, i loro valori, ma viceversa sembra che le altre merci rappresentino in quella i loro valori, perché essa è denaro.

III
Il denaro ossia la circolazione delle merci


A. Misura dei valori (Oro = denaro supposto)
Il denaro come misura di valore è la forma fenomenica necessaria della misura immanente di valore delle merci, del tempo di lavoro. La semplice espressione relativa di valore delle merci in denaro, x merce A = y denaro, è il loro prezzo. P. 55 [I, 108-109].
Il prezzo della merce, la sua forma di denaro, viene espressa in denaro immaginato; misura dei valori è dunque il denaro soltanto in quanto ideale. P. 57 [I, 109-110].
Una volta compiuta la trasformazione di valore in prezzo, diventa tecnicamente necessario sviluppare ulteriormente la misura dei valori in scala dei prezzi; cioè viene fissata una quantità di oro su cui si misurano diverse quantità di oro. Ciò è del tutto diverso dalla misura dei valori, che dipende essa stessa dal valore dell'oro, ma questo è indifferente per la scala dei prezzi. P. 59 [I, 111-112].
Rappresentati i prezzi in nomi di conto dell'oro, il danaro serve come moneta di conto.
Se il prezzo come esponente della grandezza di valore della merce è esponente del suo rapporto di scambio col denaro, non ne segue l'inverso, che l'esponente del suo rapporto di scambio col denaro sia di necessità l'esponente della sua grandezza di valore. Posto che nelle circostanze consentano o costringano a vendere una merce al di sopra o al di sotto del suo valore, questi prezzi di vendita non sono corrispondenti al suo valore, ma tuttavia sono prezzi della merce, poiché essi sono 1) la sua forma di valore, denaro, e 2) esponenti del suo rapporto di scambio col denaro.
La possibilità di un'incongruenza quantitativa tra prezzo e grandezza di valore è dunque data dalla forma stessa di prezzo. E questo non è un difetto di tale forma, anzi al contrario ne fa la forma adeguata di un modo di produzione nel quale la regola si può far valere soltanto come legge media della sregolatezza operante alla cieca. Ma la forma di prezzo può accogliere anche una contraddizione qualitativa, così che il prezzo, in genere cessi d'essere espressione di valore... Coscienza, onore ecc. possono ... ricevere la forma di merce mediante il prezzo dato loro. P. 60-61 [I, 116]:
La misurazione dei valori in denaro, la forma di prezzo, implica la necessità dell'alienazione, la determinazione ideale del prezzo implica quella reale. Di qui la circolazione.

B. Mezzo di circolazione
a) La metamorfosi delle merci

Forma semplice: M-D-M, il cui contenuto materiale = M-M. Si dà via valore di scambio e ci si appropria valore d'uso.
) Prima fase: M-D = vendita, in cui bisogna essere in due, quindi c'è la possibilità della non riuscita, vale a dire della vendita al di sotto del valore o al di sotto dei costi di produzione, se il valore sociale della merce si modifica. "La divisione del lavoro trasforma il prodotto del lavoro in merce e così rende necessaria la trasformazione di esso in denaro". Allo stesso tempo rende casuale che tale transustanziazione riesca o meno. P. 65-67 [I, 122]. Per considerare qui il fenomeno allo stato puro, M-D presuppone nel detentore del D (nel caso ch'egli non sia produttore di oro) che egli abbia in precedenza avuto il suo D in cambio di altre M; dunque per il compratore non è soltanto l'inverso = D-M, bensì presuppone in lui una vendita precedente, ecc., di modo che noi stiamo in una serie infinita di compere e di vendite.
 La stessa cosa ha luogo nella seconda fase, D-M. Compera che è contemporaneamente vendita per l'altra parte in causa.
 Il processo complessivo è dunque un ciclo di compere e vendite. Circolazione delle merci. Questa è del tutto differente dallo scambio immediato dei prodotti; anzitutto si spezzano i limiti individuali e locali dello scambio immediato di prodotti, e si media il ricambio organico del lavoro umano, d'altra parte si mostra già qui che tutto il processo è condizionato da nessi sociali naturali, che sono indipendenti da coloro che agiscono. P. 72 [I, 126]. Lo scambio semplice s'è spento nell'unico atto di scambio, nel quale ciascuno scambia il non valore d'uso contro valore d'uso, la circolazione procede all'infinito.
P. 73 [I, 127]. Qui il falso dogma economico: che la circolazione delle merci implichi la necessità di un equilibrio della compere e delle vendite, perché ogni compera è anche vendita e viceversa: col che si viene a dire che ogni venditore porta al mercato anche il suo compratore. 1. Compera e vendita sono un atto identico di due persone polarmente opposte, d'altra parte due atti polarmente opposti di una persona. L'identità di compera e vendita implica quindi che la merce sia inutile quando non viene venduta, e parimenti che questo caso può verificarsi. 2. M-D come processo parziale è contemporaneamente un processo autonomo e implica che l'acquirente del D può scegliere il momento in cui trasformare di nuovo D in M. Può aspettare. L'unità interna dei processi indipendenti M-D e D-M si muove, appunto a causa dell'indipendenza di questi processi in opposizioni esterne, e quando il farsi indipendenti di questi processi dipendenti raggiunge un certo limite, l'unità si fa sentire con una crisi, la cui possibilità è dunque data già qui.
Il denaro come mediatore della circolazione delle merci è mezzo di circolazione.

b) Corso del denaro

Il denaro media per ogni merce individuale l'entrata nella e l'uscita dalla circolazione; esso stesso vi resta sempre dentro. Quindi, sebbene semplice espressione della circolazione delle merci, la circolazione delle merci appare tuttavia come risultato della circolazione del denaro. Poiché il denaro rimane costantemente nella sfera della circolazione c'è il problema di quanto denaro sia presente in essa.
La massa del denaro circolante è determinata dalla somma dei prezzi delle merci (con un valore costante del denaro), e questa dalla massa di merci che si trova in circolazione. Posta come data questa massa di merci, la massa di denaro circolante fluttua con le oscillazioni di prezzo delle merci. Ora, poiché una medesima moneta media costantemente in un tempo determinato un certo numero di affari, per un tempo determinato somma dei prezzi delle merci - numero dei giri di una moneta = massa del denaro funzionante come mezzo di circolazione. P. 80 [I, 134].
Quindi la carta moneta può scacciare la moneta aurea, quando sia gettata in una circolazione saturata.
Poiché nel corso del denaro appare soltanto il processo di circolazione delle merci, così anche appare nella sua velocità quella delle loro trasformazioni, nel suo ristagno la separazione della compera dalla vendita, il ristagno del ricambio materiale sociale. Di dove venga tale ristagno, non si può vedere naturalmente dalla circolazione, la quale ci mostra soltanto il fenomeno. Il filisteo se lo spiega come insufficienza della quantità dei mezzi di circolazione P. 81 [I, 135].
Ergo: 1. Eguali rimanendo i prezzi delle merci, sale la massa di denaro circolante quando sale la massa delle merci circolanti oppure diviene più lenta la circolazione del denaro; e cade viceversa.
2. A prezzi delle merci generalmente crescenti la massa di denaro circolante rimane uguale, se la massa delle merci diminuisce oppure se la velocità della circolazione cresce nella stessa proporzione.
3. A prezzi delle merci generalmente calanti l'inverso del 2. In complesso risulta una media abbastanza costante, che soltanto attraverso delle crisi subisce deviazioni notevoli.

c) Moneta - Segno del valore

La scala di misura dei prezzi viene definita dallo Stato, e così pure la designazione del nome per il pezzo d'oro determinato, la moneta, e la sua fabbricazione. Sul mercato mondiale la rispettiva uniforme nazionale vien deposta (qui si prescinde dal signoraggio) di modo che moneta e lingotti si distinguono soltanto per la forma. Ma la moneta nel suo corso si consuma a poco a poco, l'oro come mezzo di circolazione differisce dall'oro come scala di misura dei prezzi, la moneta diviene sempre più simbolo del suo contenuto ufficiale.
Con ciò è data la possibilità latente di sostituire il denaro metallico con marche o simboli. Quindi 1) Moneta divisionale di marche di rame o d'argento, il cui stabilirsi nei confronti della moneta aurea viene impedito limitando la quantità nella quale esse sono legal tender [mezzo di pagamento legale]. Il loro contenuto è determinato del tutto arbitrariamente dalla legge e la loro funzione di moneta diviene quindi indipendente dal loro valore. Quindi possibile il progresso verso segni assolutamente senza valore. 2) Carta moneta, cioè carta moneta statale a corso forzoso (la moneta di credito non è ancora da trattarsi a questo punto). Finché questa carta moneta circola realmente al posto della moneta aurea, è soggetta alle leggi della circolazione del denaro. Soltanto il rapporto in cui la carta sostituisce l'oro può essere oggetto di una legge particolare, ed essa è: che l'emissione di moneta carta deve essere limitata alla quantità nella quale dovrebbe realmente circolare l'oro da essa rappresentato. È vero che il grado di saturazione della circolazione oscilla, ma dappertutto risulta un minimo stabilito in base all'esperienza, al di sotto del quale esso non cala mai. Questo minimo può essere emesso. Più oltre, col cadere del grado di saturazione al minimo, una parte diviene immediatamente superflua. In questo caso la quantità complessiva di carta entro il mondo delle merci rappresenta tuttavia soltanto la quantità di oro determinata dalle sue leggi immanenti, e quindi anche l'unica che possa rappresentare. Se dunque la massa cartacea è il doppio della massa d'oro assorbita, ogni pezzo di carta si deprezza alla metà del valore nominale. Proprio come se si fosse alterato l'oro nella sua funzione di misura dei prezzi, nel suo valore. P. 89 [I, 142-143].

C. Denaro

a) Tesaurizzazione

Col primo svilupparsi della stessa circolazione delle merci si sviluppa la necessità e la passione di fissare il prodotto di M-D cioè D. Il cambiamento di forme diventa, da semplice intermediario del ricambio organico, fine a se stesso. Il denaro si pietrifica in tesoro, il venditore di merci diventa tesaurizzatore. P. 91 [I, 149].
Ai veri e propri inizi della circolazione delle merci questa forma è predominante. Asia. Con lo svilupparsi ulteriore della circolazione delle merci nessun produttore di merci può fare a meno di assicurarsi il nexus rerum [legame tra le cose], il pegno sociale, cioè D. Così sorgono ovunque hoards [tesori]. Lo sviluppo della circolazione delle merci aumenta il potere del denaro, forma sempre pronta, assolutamente sociale, della ricchezza. P. 92 [I, 146]. L'impulso alla tesaurizzazione è per natura senza limiti. Il denaro è qualitativamente, ossia secondo la sua forma, senza limiti, cioè è rappresentante generale della ricchezza di materiale, perché è immediatamente convertibile in ogni merce. Ma ogni somma reale di denaro è limitata quantitativamente, e quindi è anche soltanto mezzo d'acquisto di efficacia limitata. Questa contraddizione risospinge sempre di nuovo la tesaurizzazione al lavoro di Sisifo dell'accumulazione.
Accanto a ciò l'accumulazione di oro e di argento in plate [oggetti preziosi], è insieme un nuovo mercato per questi metalli, e insieme una fonte latente di denaro.
La tesaurizzazione serve da canale di deflusso e di afflusso del denaro circolante date le costanti oscillazioni del grado di saturazione della circolazione. P. 95 [I, 149].

b) Mezzo di pagamento

Col perfezionamento della circolazione delle merci subentrano nuove situazioni: la cessione della merce può venir separata nel tempo dalla realizzazione del suo prezzo. Le merci esigono una differente durata per la loro produzione, vengono prodotte in stagioni differenti, alcune devono essere spedite verso mercati lontani, ecc. Quindi A può essere venditore prima che B, il compratore, sia in grado di pagare. La pratica regola in questo modo le condizioni di pagamento: A diventa creditore, B debitore, il denaro diventa mezzo di pagamento. Il rapporto di creditore e debitore diventa dunque già più antagonistico. (La cosa può presentarsi anche indipendentemente dalla circolazione delle merci, p. es. nell'antichità e nel Medioevo). P. 97 [I, 150-151].
In questo rapporto il denaro funziona 1. come misura di valore nella determinazione del prezzo della merce venduta; 2. come mezzo ideale di compera. Col tesoro il denaro era stato sottratto alla circolazione, qui col mezzo di pagamento D entra in circolazione, ma soltanto dopo che M ne è uscita. Il compratore debitore vende per poter pagare, oppure subisce vendite forzate. Sicché ora D diventa fine a se stesso, della vendita, per una necessità sociale che sgorga dai rapporti del processo di circolazione. P. 97-98 [I, 151].
La non contemporaneità delle compere e delle vendite che provoca la funzione del denaro come mezzo di pagamento, porta nello stesso tempo un'economia dei mezzi di circolazione, la concentrazione dei pagamenti in un luogo determinato. Virements [trasferimento di una somma dal proprio conto in banca a quello di altri senza movimento di denaro] a Lione nel Medioevo, una specie di clearing house [stanza di compensazione di crediti e di debiti], nella quale soltanto veniva pagato il saldo dei crediti reciproci. P. 98 [I, 151].
Finché i pagamenti si compensano, il denaro funziona solo idealmente come moneta di conto ossia misura dei valori. Appena si debbono compiere pagamenti reali, non si presenta come mezzo di circolazione, come forma del ricambio organico destinata solo a far da mediatrice e a scomparire, ma come incarnazione individuale del lavoro sociale, come esistenza autonoma del valore di scambio, come merce assoluta. Questa contraddizione immediata scoppia in quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria. Essa avviene soltanto dove sono sviluppati pienamente il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Quando si verificano turbamenti generali di questo meccanismo, e quale che sia l'origine di essi il denaro trapassa improvvisamente e repentinamente da figura solo ideale della moneta di conto in denaro metallico, non è più sostituibile con merci profane. P. 99 [I, 153].
La moneta di credito proviene dalla funzione del denaro come mezzo di pagamento, anche i certificati di debito riprendono a circolare per la trasmissione dei crediti. Col credito si estende di nuovo la funzione del denaro come mezzo di pagamento, come tale esso riceve forme proprie di esistenza, con le quali abita nella sfera delle grandi transazioni commerciali, mentre la moneta viene respinta soprattutto nella sfera del piccolo commercio. P. 101. [I, 155].
A una certa intensità e ampiezza della produzione delle merci la funzione del denaro-mezzo di pagamento oltrepassa la sfera della circolazione delle merci, diventa merce generale dei contratti. Rendite, imposte ecc., si trasformano, da versamenti in natura in pagamenti in denaro. Cfr. La Francia sotto Luigi XIV (Boisguillebert e Vauban), al contrario l'Asia, la Turchia, il Giappone, ecc. P. 102 [I, 155-156].
Lo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento rende necessaria un'accumulazione di denaro per i giorni di scadenza: la tesaurizzazione che scompare come forma autonoma d'arricchimento coll'ulteriore sviluppo sociale, ricompare come fondi di riserva dei mezzi di pagamento. P. 103 [I, 157].

c) Moneta mondiale

Nel commercio mondiale le forme locali di moneta, moneta divisionale, segno di valore, vengono eliminati, e solo la forma di verghe vale come moneta mondiale. Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo d'esistenza diventa adeguato al suo concetto. P. 103-104 (particolari 105) [I, 157-158, particolari 159-160].

 
 
Seconda Sezione
Trasformazione del denaro in capitale

I
Formula generale del capitale


La circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale. Quindi la produzione delle merci, la circolazione di merci e il suo sviluppo, il commercio, sono dappertutto i presupposti storici del nascere del capitale. Dalla creazione del commercio mondiale moderno e del mercato mondiale del secolo XVI data la moderna storia della vita del capitale. P. 106 [I, 162].
Considerate soltanto le forme economiche generate dalla circolazione delle merci, loro ultimo prodotto è il denaro, e questo è la prima forma fenomenica del capitale. Dal punto di vista storico, il capitale si contrappone sempre alla proprietà fondiaria come patrimonio in denaro, capitale mercantile e capitale usurario, e ancor oggi ogni nuovo capitale entra in scena nella forma di denaro, che si dovrà trasformare in capitale attraverso processi determinati.
Denaro come denaro e denaro come capitale si distinguono in un primo momento soltanto attraverso la loro differente forma di circolazione. Accanto a M-D-M sopravviene anche la forma D-M-D, comprare per vendere. Il denaro, che nel suo movimento descrive questo ciclo, diventa capitale, è già capitale in sé, cioè per sua destinazione.
Il risultato di D-M-D è D-D, scambio indiretto di denaro contro denaro. Io compero per Lst. 100 del cotone e lo vendo per Lst. 110 e in fin dei conti ho scambiato Lst. 100 contro Lst. 110, denaro contro denaro.
Se questo processo nel suo risultato portasse l'identico valore in denaro che vi è stato immesso inizialmente, Lst. 100 da Lst. 100, sarebbe assurdo. Ma, sia che il commerciante dalle sue Lst. 100 realizzi Lst. 100, o 110 o semplicemente Lst. 50, tuttavia il suo denaro ha descritto un movimento peculiare, del tutto diverso da quello della circolazione delle merci M-D-M. Dall'osservazione delle distinzioni di forma di questo movimento da M-D-M risulterà anche la distinzione di contenuto.
Le due fasi del processo sono ciascuna la medesima che in M-D-M. Ma nella circolazione complessiva c'è una grande differenza. In M-D-M il denaro costituisce l'intermediario, la merce punto di partenza e conclusione, qui è M intermediario, D punto di partenza e conclusione. In M-D-M il denaro viene definitivamente speso, in D-M-D viene soltanto anticipato, dev'essere ricuperato. Riaffluisce al suo punto di partenza: qui dunque c'è già una distinzione tangibile tra la circolazione del denaro come denaro e quella del denaro come capitale.
In M-D-M il denaro può riaffluire al suo punto di partenza soltanto mediante la ripetizione dell'intero processo, mediante la vendita di merci fresche; il riafflusso è dunque indipendente dal processo stesso. Invece in D-M-D esso è condizionato fin dall'inizio dalla struttura del processo; che è incompleto nel caso che esso non riesca. P. 110 [I, 165].
M-D-M ha come scopo finale valore d'uso, D-M-D proprio il valore di scambio.
In M-D-M i due estremi hanno la stressa determinatezza di forma economica. Entrambi sono merci e della stessa grandezza di valore. Ma nello stesso tempo sono valori d'uso qualitativamente differenti, e il processo ha per suo contenuto la permuta materiale sociale. In D-M-D a prima vista l'operazione sembra tautologica, senza contenuto. Scambiare Lst. 100 conto Lst. 100, e per di più attraverso un giro, sembra assurdo. Una somma di denaro si può distinguere da un'altra soltanto mediante la sua grandezza; D-M-D perciò riceve il suo contenuto soltanto attraverso la differenza quantitativa degli estremi. Vien sottratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia stato gettato. Il cotone comprato a Lst. 100 viene venduto p. es. a Lst. 100+10, il processo assume dunque la formula D-M-D', dove D'=D+ D. Questo D, questo incremento è plusvalore. Nella circolazione il valore originariamente anticipato non solo si conserva ma mette su un plusvalore, si valorizza e questo movimento trasforma il denaro in capitale.
Certo, in M-D-M può anche sussistere differenza di valore degli estremi, ma essa è puramente accidentale per questa forma di circolazione, e M-D-M non diventa assurdo quando gli estremi siano di ugual valore: al contrario, ciò è piuttosto condizione del corso normale.
La ripetizione di M-D-M trova la sua misura e il suo termine in uno scopo finale che sta fuori di esso, il consumo, la soddisfazione di determinati bisogni. In D-M-D invece principio e fine sono lo stesso denaro, e già per ciò il movimento è senza fine. Certo D+D è una quantità differente da D, ma tuttavia è anch'essa una somma di denaro limitata; se fosse spesa, cesserebbe di essere capitale, se fosse sottratta alla circolazione [resterebbe] stazionaria come tesoro. Una volta dato il bisogno di valorizzazione del valore, esso esiste tanto per D' quanto per D, e il movimento del capitale è senza misura, perché alla fine del processo la sua mèta è così poco raggiunta come al principio. P. 111-112 [I, 166-168]. Il possessore di denaro diventa capitalista nella sua qualità di veicolo di questo processo.
Se nella circolazione delle merci il valore di scambio matura tutt'al più a forma autonoma rispetto al valore d'uso della merce, qui esso si presenta improvvisamente come una sostanza in processo, semovente, per la quale merce e denaro sono pure e semplici forme, anzi si distingue, come valore originario, da se stesso come plusvalore. Diventa denaro in processo, e come tale capitale. P. 116 [I, 171].
D-M-D' sembra invero forma propria solo del capitale mercantile. Ma anche il capitale industriale è denaro che si trasforma in merce, e mediante la vendita di essa si ritrasforma in più denaro. Gli atti che si svolgono p. es. fra compra e vendita al di fuori della sfera della circolazione, non cambiano niente. Infine nel capitale fruttante interessi il processo si presenta immediatamente come D-D', valore che è per così dire più grande di se stesso. P. 117 [I, 171-172].

II
Contraddizioni della formula generale


La forma di circolazione attraverso la quale il denaro diventa capitale, contraddice a tutte le leggi esaminate finora sulla natura della merce, del valore, del denaro e della circolazione stessa. Può produrre ciò la differenza puramente formale dell'ordine di successione invertito?
E ancora. Questo rovesciamento esiste soltanto per una delle tre persone contraenti. Io, come capitalista, compro merce da A e la rivendo a B, A e B si presentano solo come semplici compratori e venditori di merci. In ambedue i casi io sto loro di fronte come semplice possessore di denaro o semplice possessore di merci, all'uno come compratore o denaro, all'altro come venditore o merce, ma di fronte a nessuno dei due come capitalista, ossia come rappresentante di qualche cosa che sia più di denaro o merce. Per A l'affare è cominciato con una vendita, per B è finito con una compera, dunque proprio come nella circolazione delle merci. Se io fondassi il diritto al plusvalore sulla singola successione, A potrebbe anche vendere direttamente a B, e la prospettiva del plusvalore cadrebbe.
Supponiamo che A e B comprino direttamente merci l'uno dall'altro. Per quel che riguarda il valore d'uso, possono guadagnare entrambi, A può addirittura produrre della sua merce più di quanto non potrebbe produrre B nello stesso tempo e viceversa, e così tutt'e due vi guadagnano. Ma altrimenti stanno le cose per il valore di scambio. Qui vengono scambiate l'una contro l'altra grandezze di valore uguali, anche se il denaro interviene come mezzo di circolazione. P. 119 [I, 173-174].
Da un punto di vista astratto, nella circolazione semplice delle merci, oltre a sostituzione di un valore d'uso con un altro, non avviene che un cambiamento di forma della merce. Finché essa porta con sé soltanto un cambiamento di forma del suo valore di scambio, essa procura, uno scambio di equivalenti, se il fenomeno avviene allo stato puro. Certo, le merci possono essere vendute a prezzi che si distaccano dai loro valori, ma soltanto se viene violata la legge dello scambio delle merci. Nella sua forma pura quest'ultimo è uno scambio di equivalenti, quindi non è un mezzo di arricchirsi. P. 120 [I, 174-175].
Di qui l'errore di tutti i tentativi di far derivare il plusvalore dalla circolazione delle merci. Condillac, p. 121 [I, 175], Newman, p. 122 [I, 176].
Ma ammettiamo che lo scambio non si svolga in forma pura, che vengano scambiati dei non equivalenti. Ammettiamo che ogni venditore venda le sue merci al 10% al di sopra del loro valore. Resta tutto lo stesso, ciò che ciascuno guadagna come venditore lo riperde come compratore. Assolutamente come se il valore del denaro fosse cambiato al 10%. Altrettanto se i compratori comprassero tutto al 10% al di sotto del valore. P. 123 [I, 177-178] (Torrens).
L'ipotesi che il plusvalore sorga attraverso un aumento dei prezzi, presuppone che esista una classe che compri senza vendere, cioè consumi senza produrre, alla quale affluisca costantemente denaro gratuitamente. Vendere le merci al di sopra del valore a questa classe significa riprendersi in parte, per inganno, denaro dato via per niente. (Asia Minore e Roma). Con ciò il venditore rimane costantemente gabbato, e non può, con ciò, arricchire, formare plusvalore.
Supponiamo il caso della truffa. A vende a B del vino, per il valore di £. 40, contro grano per il valore di 50. A ha guadagnato 10. Ma pure A+B complessivamente non hanno che 90, A ha 50 e B ormai soltanto 40. Si è trasmesso del valore, ma non lo si è creato. L'insieme della classe dei capitalisti di un paese non può soverchiare se stessa. P. 126 [I, 179-180].
Sicché, se si scambiano equivalenti non sorge nessun plusvalore, e se si scambiano non equivalenti neppure in tal caso nasce nessun plusvalore. La circolazione delle merci non crea nessun nuovo valore.
Quindi non si è tenuto conto alcuno delle forme più antiche e più popolari del capitale, capitale mercantile e capitale usuraio. Se la valorizzazione del capitale mercantile non va spiegata soltanto con l'inganno puro e semplice, occorrono molti termini intermedi che qui mancano ancora. A maggior ragione per il capitale usuraio e per quello fruttifero. In seguito ambedue si mostreranno come forme derivate, [vedremo] anche perché appaiono storicamente prima del capitale moderno.
Sicché, il plusvalore non può sorgere dalla circolazione. Ma al di fuori di essa? Al di fuori di essa il possessore di merce è semplicemente produttore della sua merce, il cui valore dipende dalla grandezza del suo proprio lavoro ivi contenuto, misurato secondo una determinata legge sociale; questo valore viene espresso in moneta di conto, p. es. in un prezzo di 10. Ma questo valore non è simultaneamente un valore di 11 sterline; il suo lavoro crea valori, ma non valori che si valorizzino. Esso può aggiungere più valore a un valore esistente, ma ciò avviene soltanto mediante l'aggiunta di più lavoro. Dunque il produttore di merci, al di fuori della sfera della circolazione, senza entrare in contatto con altri possessori di merci, non può produrre nessun plusvalore.
Quindi bisogna che il capitale scaturisca entro la circolazione delle merci e nello stesso tempo non entro di essa.
Dunque: la trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di merci, cosicché valga come punto di partenza lo scambio di equivalenti. Il nostro possessore di denaro, che ormai esiste soltanto come bruco di capitalista, deve comperare le merci al loro valore, le deve vendere al loro valore, eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. Il suo evolversi in farfalla deve avvenire entro la sfera della circolazione e non entro essa. Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta! P. 129 [I, 182-183].

III
Compra e vendita della forza-lavoro


Il cambiamento di valore del denaro che si deve trasformare in capitale, non può avvenire nello stesso denaro poiché nell'acquisto esso non fa che realizzare il prezzo della merce, e d'altra parte, finché esso rimane denaro, non muta la sua grandezza di valore, e nella vendita ugualmente fa ritornare la merce soltanto dalla sua forma naturale alla sua forma di denaro. Dunque il cambiamento deve avvenire nella merce del D-M-D; ma non nel valore di scambio di essa, perché vengono scambiati equivalenti, bensì esso può derivare soltanto dal valore d'uso della merce come tale, cioè dal suo consumo. Per questo ci vuole una merce il cui valore d'uso abbia la proprietà di essere fonte di valore di scambio; e questa esiste: la forza lavoro. P. 130 [I, 183-184].
Ma affinché il possessore di denaro incontri sul mercato la forza-lavoro come merce, essa deve esser venduta dal proprio possessore, cioè come libera forza-lavoro. Poiché ambedue, il compratore e il venditore, come contraenti sono persone giuridicamente uguali bisogna che la forza-lavoro sia venduta soltanto temporaneamente, perché in una vendita en bloc il venditore non rimane più venditore, bensì diventa esso stesso merce. Ma allora bisogna che il possessore non abbia la possibilità di vendere merci nelle quali sia oggettivato il suo lavoro, ma anzi sia nella condizione di dover vendere come merce la sua stessa forza-lavoro. P. 131 [I, 185].
Dunque per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero, libero nel duplice senso che disponga della propria forza-lavoro come di merce propria, nella sua qualità di persona libera, e che d'altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia senza vincoli e senza impegni, libero da tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro. P. 132 [I, 186].
Detto di passaggio, il rapporto tra il possessore di denaro e il possessore di forza-lavoro non è un rapporto naturale, o comune a tutte le epoche, sociale, bensì un rapporto storico, il prodotto di molti rivolgimenti economici. Così anche le categorie economiche fin qui esaminate portano le tracce della loro storia. Per divenire merce, il prodotto non deve più essere prodotto come mezzo immediato di sussistenza; la massa dei prodotti può assumere forma di merce soltanto nell'ambito di un modo di produzione determinato, quello capitalistico, sebbene la produzione e la circolazione delle merci possano già aver luogo là dove la massa dei prodotti non diventa mai merce. Il denaro, come sopra, può esistere in tutti i periodi che abbiano raggiunto un certo livello della circolazione delle merci; le forme particolari di denaro, dal semplice equivalente fino alla moneta universale, presuppongono diversi gradi di sviluppo, ciò nonostante una circolazione delle merci molto poco sviluppata può produrle tutte. Invece il capitale nasce soltanto alla condizione di cui sopra, e questa sola condizione comprende tutta una storia universale. P. 133 [I, 187].
La forza-lavoro ha un valore di scambio che viene determinato come quello di tutte le altre merci: dal tempo di lavoro necessario alla sua produzione, e quindi anche alla riproduzione. Il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del suo possessore, e precisamente per la conservazione ad una capacità di lavoro normale. Questi si regolano secondo il clima, secondo le condizioni naturali, ecc., come anche secondo lo standard of life [tenore di vita] storicamente dato di ogni paese. Essi cambiano ma per un determinato paese e per un determinato periodo sono dati. Inoltre essi includono i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè dei figli, in modo che la razza di questi peculiari possessori di merci si perpetui. Inoltre, per il lavoro qualificato, le spese di istruzione. P. 135 [I, 188-189].
Limite minimo del valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza fisiologicamente indispensabili. Se il prezzo della forza-lavoro scende a questo minimo, scende al di sotto del suo valore, perché questo presuppone una bontà normale, e non ristretta e ridotta della forza-lavoro. P. 136 [I, 190].
La natura del lavoro implica che la forza-lavoro venga consumata soltanto dopo la conclusione del contratto, e poiché per merci siffatte mezzo di pagamento è per lo più il denaro, in tutti i paesi dove domina il modo di produzione capitalistico essa viene pagata soltanto dopo che è stata fornita. Sicché il lavoratore fa credito dappertutto al capitalista. P. 137 [I, 191].
Il processo di consumo della forza-lavoro è allo stesso tempo il processo di produzione di merce e di plusvalore, e questo consumo si compie fuori della sfera della circolazione. P. 140 [I, 193].



Terza Sezione
Produzione del plusvalore assoluto


I
Processo lavorativo e processo di valorizzazione


Il compratore della forza-lavoro la consuma facendo lavorare il venditore. Questo lavoro, per rappresentare una merce, rappresenta anzittutto valore d'uso, e in questa sua peculiarità è indipendente dal rapporto specifico tra capitalisti e lavoratori. Descrizione del processo lavorativo come tale. P. 141-149 [I, 195-202].
Il processo lavorativo, su base capitalistica, a due peculiarità: 1. L'operaio lavora sotto il controllo del capitalista; 2. Il prodotto è proprietà del capitalista, poiché ora il processo lavorativo è semplicemente un processo di due cose comprate dal capitalista: la forza-lavoro e il mezzo di produzione. P. 150 [I, 203-204].
Ma il capitalista non pretende il valore d'uso, prodotto per sé, bensì soltanto in quanto depositario del valore di scambio e specialmente del plusvalore. A questa condizione, in cui la merce era unità di valore d'uso e valore di scambio, il valore diventa unità di processo di produzione e di processo di valorizzazione. P. 151 [I, 205].
È dunque da cercare la quantità di lavoro oggettiva nel prodotto.
P. es. refe. Nella sua preparazione siano necessarie 10 libbre di cotone, diciamo 10 scellini, e per mezzi di lavoro, rappresentati in fusi, il cui logorio necessario nella filatura è qui brevemente indicato come parte di fuso, 2 scellini. Così sono entrati nel prodotto 12 scellini per mezzi di produzione, cioè appena il prodotto è divenuto un effettivo valore d'uso, qui refe, e 2 scellini - appena è stato rappresentato soltanto il tempo di lavoro socialmente necessario in questi mezzi di lavoro. Quanto vi si aggiunge mediamente il lavoro del filatore?
Qui dunque il processo lavorativo è considerato da tutt'altro lato; nel valore del prodotto i lavori del piantatore di cotone, del fabbricante di fusi, ecc. e del filatore, sono come parti commensurabili - qualitativamente posti alla pari del lavoro generalmente umano, necessario, creatore di valore - sicché interessanti qui soltanto quantitativamente e appunto perciò quantitativamente concepibili per mezzo della durata del tempo, presupposto che sia tempo di lavoro socialmente necessario, poiché soltanto questo è creatore di valore.
Posto che il valore giornaliero della forza-lavoro sia = 3 scellini, e che questo rappresenti 6 ore di lavoro, che in un'ora si fabbrichi 1 libbra e 2/3 di refe, sicché in 6 ore 10 libbre di refe da 10 libbre di corone (come sopra), in 6 ore viene aggiunto un valore di 3 scellini, e il prodotto ha un valore di 15 scellini (10+2+3) o 1 scellino e 6 pence per libbra di refe.
Ma qui non c'è plusvalore. Questo non può servire ai capitalisti.
(Frottole dell'economia volgare) P. 157 [I, 210-211].
Abbiamo supposto che il valore giornaliero della forza-lavoro ammonti a 3 scellini, perché in esso è oggettivata 1/2 giornata lavorativa ossia 6 ore. Ma questa mezza giornata lavorativa necessaria soltanto per mantenere l'operaio per 24 ore, non gli impedisce affatto di lavorare per 1/1 di giornata. Il valore della forza-lavoro e la sua valorizzazione sono 2 grandezze differenti. La sua qualità utile era soltanto una condition sine qua non, ma decisivo era invece il valore d'uso specifico della forza-lavoro, fonte di più valore di scambio di quanto ne abbia essa stessa. P. 159 [I, 211-212].
Il lavoratore lavora dunque 12 ore, fila 20 libbre di cotone = 20 scellini, e 4 scellini di fusi, e il lavoro costa 3 scellini = 27 scellini. Ma nel prodotto sono oggettivate: 4 giornate lavorative in fusi e cotone, 1 giornata di lavoro del filatore = 5 giornate a 6 scellini = 30 scellini, valore del prodotto. Eccovi 3 scellini di plusvalore: il denaro è trasformato in capitale. P. 160 [I, 212-213]. Tutti i termini del problema sono risolti. (Particolari P. 160 [I, 213].
Processo di valorizzazione è il processo lavorativo come processo di formazione di valore, non appena è prolungato al di là del punto in cui esso fornisce una semplice equivalente per il valore pagato della forza-lavoro.
Il processo di creazione del valore si differenzia dal semplice processo lavorativo per il fatto che il secondo viene considerato qualitativamente, il primo quantitativamente, e precisamente solo in quanto esso contiene tempo di lavoro socialmente necessario. P. 161 [I, 214]. Particolare P. 162 [I, 215-216].
Il processo di produzione, in quanto unità di processo lavorativo e di processo di creazione di valore, è produzione di merci; in quanto unità di processo lavorativo e di processo di valorizzazione è processo capitalistico di produzione delle merci. P. 163 [I, 216].
Riduzione del lavoro composto al semplice. P. 163-165 [I, 216-217]

II
Capitale costante e capitale variabile


Il processo lavorativo aggiunge nuovo valore all'oggetto del lavoro, e però trasferisce nello stesso tempo il valore dell'oggetto del lavoro nel prodotto, lo conserva dunque con una semplice aggiunta di nuovo valore. Questo duplice risultato viene raggiunto così: il carattere specificamente utile, qualitativo, del lavoro trasforma un valore d'uso in un altro valore d'uso e conserva con ciò il valore; ma il carattere creatore del valore, astrattamente generale, quantitativo del lavoro aggiunge valore. P. 166 [I, 219-220].
P. es., si sestuplichi la produttività del lavoro di filatura. In quanto lavoro utile (qualitativo) conserva nello stesso tempo mezzi di lavoro sestuplicati. Ma aggiunge soltanto lo stesso nuovo valore di prima, cioè in ogni libbra di filato c'è soltanto 1/6 del nuovo valore precedentemente aggiunto. Anche in quanto lavoro creatore di valore non rende più di prima. P. 167 [I, 220]. Inversamente, quando la produttività del lavoro di filatura rimane uguale, ma sale il valore del mezzo di lavoro. P. 168 [I, 220]. Il mezzo di lavoro dà al prodotto soltanto quel valore che esso stesso perde. P. 169 [I, 221]. E questo avviene in grado differente. Carbone, lubricants [lubrificanti] ecc. vengono consumati interamente. Materie prime assumono nuove forme. Attrezzi, macchine ecc. cedono valore soltanto lentamente e parzialmente, e il logoramento viene calcolato conformemente all'esperienza. P. 169-170 [I, 222-223]. Qui l'attrezzo resta però costantemente intero nel processo lavorativo. Qui dunque lo stesso attrezzo conta nel processo lavorativo completamente e nel processo di valorizzazione solo parzialmente, di modo che la distinzione dei due processi si riflette qui su fattori oggettivi. P. 171 [I, 223]. Viceversa, la materia prima che forma scarto, entra interamente nel processo di valorizzazione e [soltanto parzialmente] nel processo lavorativo, poiché appare nel prodotto con in meno lo scarto. P. 171 [I, 224].
Ma in nessun caso il mezzo di lavoro può cedere più valore di scambio di quel che esso stesso possedeva: nel processo lavorativo esso serve soltanto come valore d'uso e quindi può cedere soltanto il valore di scambio che possedeva già prima. P. 172 [I, 225].
Questa conservazione di valore è molto preziosa per il capitalista, non gli costa nulla. P. 173-174 [I, 225].
Tuttavia il valore conservativo non fa che ripresentarsi, esso era presente, e soltanto il processo lavorativo aggiunge nuovo valore. E invero nella produzione capitalistica vi è plusvalore, eccedenza del valore dei prodotti sul valore dei fattori dei prodotti consumati (mezzi di produzione e forza-lavoro). P. 175-176 [226-227].
Con ciò sono descritte le forme di esistenza assunte dal valore iniziale del capitale nello svestirsi della sua forma di denaro, quando si trasforma nei fattori del processo lavorativo: 1. nell'acquisto di mezzi di lavoro e 2. nell'acquisto di forza-lavoro.
Dunque il capitale investito in mezzi di lavoro non altera la propria grandezza di valore nel processo di produzione; lo chiamiamo capitale costante.
La parte investita nella forza-lavoro altera il proprio valore, produce 1. il proprio valore e 2. plusvalore; è capitale variabile. P. 176 [I, 228].
(Il capitale è costante soltanto in relazione allo speciale processo di produzione in questione, nel quale esso non si altera; può consistere ora in più ora in meno mezzi di lavoro, e i mezzi di lavoro acquistati possono salire o scendere di valore, ma ciò non tocca il loro rapporto col processo di produzione. P. 177 [I, 229]. Egualmente può cambiare la percentuale in cui un dato capitale si divide in costante e variabile, ma in ogni caso dato c resta costante e v variabile. P. 178 [I, 229-230].

III
Il saggio del plusvalore

C = 500 £ = 410 c + 90 v. Alla fine del processo lavorativo, nel quale v viene cambiato una volta in forza-lavoro, si ottenga 410 c + 90 v + 90 p = 590. Supponiamo che c consista di 312 di materia prima, 44 di materie ausiliarie e 54 di logoramento di macchine = 410. Ma il valore di tutto il macchinario ammonti a 1054. Se questo viene calcolato interamente si otterrebbe per c 1410 da tutte e due le parti, il plusvalore resterebbe come prima 90. P. 179 [I, 231-232].
Poiché il valore di c non fa che ripresentarsi nel prodotto, il valore del prodotto conservato è differente dal prodotto-valore ottenuto nel processo, e dunque questo non è = c+v+p, ma v+p. Per il processo di valorizzazione la grandezza di c è dunque indifferente, cioè, c=0. P. 180 [I, 232-233]. Questo avviene anche in pratica, come si vede dal modo di calcolare commerciale, p. es. nel calcolo del guadagno di un paese con la sua industria, ove si sottrae la materia prima da esso importata. P. 181 [I, 234]. Sul rapporto tra il plusvalore e il capitale totale il necessario si trova nel Libro III.
Sicché: saggio del plusvalore = v:p; nel caso di cui sopra 90:90 =100%.
Il tempo di lavoro in cui l'operaio riproduce il valore della propria forza-lavoro - in condizioni capitalistiche o in altre - è lavoro necessario, quello in sovrappiù, che crea plusvalore per il capitalista, pluslavoro. P. 183-184 [235-236]. Plusvalore è pluslavoro coagulato, e soltanto la forma della sua estorsione distingue le differenti formazioni sociali.
Esempio dell'errore di includere nel cacolo c, p. 185-196 [I, 237-250] (Senior).
La somma del lavoro necessario e del pluslavoro = alla giornata lavorativa.

IV
La giornata lavorativa

Il tempo di lavoro necessario è dato. Il plusvalore è variabile, ma entro certi limiti. Non può mai essere = 0, altrimenti cessa la produzione capitalistica. Non può mai raggiungere le 24 ore per motivi fisici, e inoltre il limite massimo è costantemente condizionato da motivi morali. Ma questi limiti son molto elastici. L'esigenza economica è che la giornata lavorativa non sia lunga tanto da logorare più che normalmente l'operaio. Ma che cosa è normale? Ha luogo un'antinomia, e soltanto la forza può decidere. Da qui la lotta tra la classe operaia e la classe capitalistica per la giornata lavorativa normale. P. 198-202 [I, 251-255].
Pluslavoro nelle epoche sociali anteriori. Finché il lavoro di scambio non è più importante del valore d'uso, il pluslavoro è modesto, p. es. tra gli antichi: soltanto laddove si produceva direttamente valore di scambio, oro e argento, pluslavoro spaventoso. P. 203 [I, 256]. Come sopra negli Stati schiavistici d'America fino alla produzione di masse di cotone per l'esportazione. Come sopra le corvées p. es. in Romania (1).
La corvée è il miglior termine di confronto con lo sfruttamento capitalistico, perché quella fissa e mostra il pluslavoro come tempo di lavoro da fornire a parte. Règlement organique della Valacchia. P. 204-206 [I, 257-260].
Come questa è un'espressione positiva di questa brama di pluslavoro, così i Factory Acts [leggi sulle fabbriche] inglesi ne sono espressioni negative.
I Factory Acts. Quello del 1850. P. 207 [I, 260] 10 ore e 1/2 e 7 1/2 il sabato = 60 ore la settimana. Profitto dei fabbricanti industriali attraverso le elusioni. P. 208-2011 [I, 261-264].
Esploitation [sfruttamento] in settori non limitati o limitati soltanto in seguito: industria dei merletti, p. 212 [261], ceramica, p. 213 [266-267], fiammiferi, p. 214 [268], carta da parati, p. 214-127 [268-270], panificazione, p. 217-222 [270-271], ferrovieri, p. 223 [275], crestaie, p. 223-225 [276-277], fabbri ferrai, p. 226 [278], lavoratori diurni e notturni in shifts [sistema di turni]: a) siderurgia e industrie metallirghiche. P. 227-236 [I, 279-287].
Questi fatti dimostrano che il capitale non considera l'operaio nient'altro che forza-lavoro, tutto il tempo del quale è tempo di lavoro, per quanto ciò sia possibile soltanto momentaneamente e in certe condizioni; che la durata della vita della forza-lavoro è indifferente ai capitalisti. P. 236-238 [I, 288-289]. Ma ciò non è anche contro l'interesse del capitalista? Come avviene la sostituzione di coloro che vengono rapidamente logorati? Il commercio organizzato degli schiavi all'interno degli Stati Uniti ha elevato a principio economico il rapido logoramento degli schiavi, e proprio allo stesso modo in Europa l'importazione di operai dai distretti rurali ecc. P. 239 [286-287]. Poorhouse-supply [rifornimento (di forza-lavoro) dalle case dei poveri]. P. 240 [288]. Il capitalista vede soltanto la sovrappopolazione costantemente disponibile e la logora. Che la razza vada in malora... après moi le déluge [dopo di me il diluvio]. Il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell'operaio, quando non vi sia costretto dalla società... e la libera concorrenza fa valere le leggi immanenti della produzione capitalistica come legge coercitiva esterna nei confronti del capitalista singolo. P. 243 [I, 294].
La fissazione di una giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta plurisecolare tra capitalista e operaio.
Inizialmente le leggi furono fatte per aumentare il tempo di lavoro, ora per diminuirlo. P. 244 [295]. Il primo Statute of labourers [Leggi sugli operai] 23 Edoardo III (1),, nel 1349 sotto il pretesto che la peste aveva talmente decimato la popolazione che ciascuno doveva lavorare di più. Quindi un massimo del salario e limiti della giornata lavorativa stabiliti per legge. Nel 1496 sotto Enrico VIII la giornata lavorativa del lavorante agricolo e di tutti gli artigiani (artificers) nell'estate - da marzo a settembre - dalle 5 a.m. fino alle 7 e le 8 p.m. con 1 ora, 1 ora e 1/2 e 1/2 ora = 3 ore, di intervallo. Nell'inverno dalle 5 a.m. fino a buio. Questo Statuto non fu mai strettamente applicato. Ancora nel secolo XVIII l'intero lavoro settimanale non era ancora a disposizione del capitale (eccetto i lavoranti agricoli). Vedi polemica del tempo. P. 248-251 [I, 297-302]. Soltanto con la grande industria si riuscì a ciò e anche a più; essa abbattè tutti i limiti e sfruttò l'operaio nel modo più infame. Il proletariato resistette appena cominciò a tornare in sé. I 5 atti del 1802-1833 sono nominali, non essendoci ispettori. Soltanto l'atto del 1833 creò una giornata lavorativa normale delle 4 industrie tessili: dalle 5,30 a.m. fino alle 8,30 p.m., durante il qual tempo young persons [giovinetti] di 13-18 anni potevano venir occupati soltanto 12 ore e con 1 ora e 1/2 di intervallo. Bambini di 9-13 anni soltanto 8 ore, e il lavoro notturno dei bambini e delle young persons fu proibito. P. 253-255 [I, 302-304].
Sistema a relais [Sistema dei turni di lavoro] e abusi per eluderlo. P. 256 [I, 304-305]. Finalmente, Atto del 1844, che equipara le donne di tutte le età alle young persons, riduce i bambini a 6 ore e 1/2, mette un freno al sistema a relais. Ora però, in compenso, sono ammessi i bambini di 8 anni. Infine nel 1847 fu redatto il bill delle dieci ore per le donne e young persons. P. 259 [I, 309]. Tentativi dei capitalisti contro di esso. P. 260-268 [310-318]. Un flaw [difetto] del bill del '47 consentì poi l'atto di compromesso del 1850, p. 269 [319], che fissò la giornata lavorativa delle young persons e delle women [donne] per 5 giorni a 10 ore e 1/2 e 1 giorno a 7 ore e 1/2 = 60 ore la settimana, e precisamente tra le 6 e le 6. Così l'atto del 1844 è in vigore per i bambini. L'eccezione dell'industria della seta, v. p. 270 [319]. Nel 1853 anche il tempo di lavoro per i bambini fu limitato tra le 6 e le 6. P. 272 [321].
Printworks Act [Legge sulle stamperie di cotone], del 1845, non limita quasi nulla. Bambini e donne possono lavorare 16 ore!
Officine di candeggio e tintorie nel 1860, manifatture di merletti e pizzi nel 1861, di ceramica e di molti altri rami nel 1863, rientrano nella legge sulle fabbriche; per il candeggio all'aria aperta e i forni furono promulgate leggi particolari nello stesso anno. P. 274 [I, 323-324].
Sicché la grande industria comincia col creare il bisogno della limitazione del tempo lavorativo, ma in seguito si trova che lo stesso sopralavoro si impadronisce a poco a poco anche di tutti gli altri rami. P. 277 [I, 325].
Inoltre la storia mostra che, specialmente con l'introduzione del lavoro delle donne e dei bambini, il singolo lavoratore "libero" è inerme di fronte al capitalista e soccombe, di modo che qui si sviluppa la lotta di classe tra operai e capitalisti. P. 278 [I, 326].
In Francia soltanto nel 1848 la legge delle 12 ore per tutti gli operai e tutti i rami di lavoro. (Vedi però p. 253 [I, 302] la nota sulla legge francese del 1841 sul lavoro dei bambini, che fu realmente applicata soltanto nel 1853 e soltanto nel Départment du Nord). In Belgio completa "libertà di lavoro"! In America il movimento per le 8 ore. P. 279 [I, 328].
Sicché l'operaio esce dal processo produttivo completamente differente da quando vi è entrato. Il contratto di lavoro non è stato affatto l'atto di un libero agente, il tempo per il quale egli può liberamente vendere il proprio lavoro è quello per il quale egli è costretto a venderlo, e soltanto l'opposizione di massa degli operai conquista per loro una legge dello Stato che impedisca a loro stessi di vendere sé e la loro stirpe, alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto col capitale. Al pomposo catalogo dei diritti inalienabili dell'uomo subentra la modesta Magna Charta della legge sulle fabbriche. P. 280 [I, 329-330].

V
Saggio e massa del plusvalore

Insieme al saggio è data anche la sua massa. Se il valore giornaliero di una forza-lavoro è di 3 scellini - e il saggio del plusvalore = 100%, la sua massa giornaliera = 3 scellini per un operaio.
1. Essendo il capitale variabile l'espressione monetaria del valore di tutte le forze-lavoro contemporaneamente impiegate da un capitalista, la massa del plusvalore da esse prodotta è = al capitale variabile moltiplicato per il saggio del plusvaloer. Ambedue i fattori possono cambiare e ne possono sorgere differenti combinazioni. La massa del plusvalore può cambiare, anche con un capitale variabile in diminuzione, se il saggio sale, insomma se la giornata lavorativa viene prolungata. P. 282 [I, 332-333].
2. Questo aumento del saggio del plusvalore hai suoi limiti assoluti nel fatto che la giornata lavorativa non può mai venir allungata fino alle 24 ore piene, dunque il valore complessivo del prodotto giornaliero di un operaio non può essere mai = al valore di 24 ore di lavoro. Per ottenere un'eguale massa di plusvalore, il capitale variabile può dunque esser sostituito da un accresciuto sfruttamento del lavoro soltanto entro questi limiti. Ciò è importante per spiegare diversi fenomeni che sorgono dalla contraddittoria tendenza del capitale: 1. ridurre il capitale variabile e il numero degli operai occupati e 2. produrre tuttavia la maggior massa possibile di plusvalore. P. 283-284 [I, 333-334].
3. Le masse di valore e plusvalore prodotte da capitali diversi a un valore dato ed essendo uguale il grado di sfruttamento della forza-lavoro, variano direttamente col variare delle grandezze degli elementi variabili di quei capitali. P. 285 [I, 335]. Ciò è apparentemente contrario a tutti i dati di fatto.
Per una società data e una giornata lavorativa data, il plusvalore può essere aumentato soltanto aumentando il numero degli operai, cioè della popolazione; per un numero dato di operai, soltanto prolungando la giornata lavorativa. Tuttavia, ciò è importante soltanto per il plusvalore assoluto.
Ora si vede che non ogni somma di denaro può trasformarsi in capitale, che esiste un minimo: il prezzo di costo di una singola forza-lavoro e dei mezzi di lavoro necessari. Per poter vivere egli stesso come operaio, con un saggio di plusvalore del 100% dovrebbe avere già 2 operai, e non risparmierebbe ancora nulla. Anche con 8 è tuttora un piccolo padrone. Quindi nel Medioevo si impediva con la forza alla gente la trasformazione del maestro artigiano in capitalista, limitando il numero degli apprendisti che un maestro poteva assumere. Il minimo della ricchezza che si richiede per formare un vero e proprio capitalista, varia secondo i diversi periodi e rami d'attività. P. 288 [I, 337-338].
Il capitale si è sviluppato in comando sul lavoro e vigila perché si lavori regolarmente e intensamente. Inoltre costringe gli operai a compiere un lavoro maggiore di quanto sia necessario per il loro mantenimento e, nel pompare plusvalore, supera tutti i sistemi di produzione del passato fondati sul lavoro forzato diretto.
Il capitale si è impadronito del lavoro nelle condizioni tecniche date, e in un primo tempo non le cambia. Considerato dunque il processo di produzione come processo lavorativo, l'operaio tratta i mezzi di produzione non come capitale, ma come mezzo della sua propria attività adeguata allo scopo. Ma considerate come processo di valorizzazione, le cose stanno diversamente. I mezzi di produzione diventano mezzi di assorbimento di lavoro altrui. Non è più l'operaio che adopera i mezzi di produzione, ma i mezzi di produzione adoperano l'operaio. P. 289 [I, 330]. Invece di venire da lui consumati... essi consumano lui come fermento del loro proprio processo vitale, e il processo vitale del capitale consiste solo nel suo movimento di valore che valorizza se stesso... La semplice trasformazione del denaro in mezzi di produzione trasforma questi ultimi in titolo giuridico diritto d'imperio sul lavoro e sul pluslavoro altrui.


Quarta Sezione
Produzione del plusvalore relativo

I
Concetto del plusvalore relativo


Data la giornata lavorativa, il plusvalore può essere accresciuto soltanto diminuendo il lavoro necessario, ma - prescindendo dall'abbassamento del salario al disotto del suo valore - ciò può ottenersi soltanto riducendo il valore del lavoro, insomma riducendo il prezzo dei mezzi di sussistenza necessari. P. 291-293 [II, 7-10]. Ciò a sua volta può esser ottenuto soltanto con un aumento della forza lavoro, rivoluzionando lo stesso modo di produzione.
Il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa è plusvalore assoluto, quello prodotto mediante accorciamento del tempo di lavoro necessario è plusvalore relativo. P. 295 [II, 10].
L'aumento della forza produttiva, se vuol diminuire il valore del lavoro, deve impadronirsi di quei rami dell'industria i cui prodotti determinino il valore della forza-lavoro - cioè dei mezzi di sussistenza abituali e dei loro succedanei e delle loro materie prime ecc. Dimostrazione di come la concorrenza rende evidente l'aumento della forza produttiva nel basso prezzo delle merci. P. 296-299 [II, 10-15].
Il valore delle merci sta in rapporto inverso alla forza produttiva del lavoro e così anche, il valore della forza-lavoro, perché determinato dal prezzo della merce. Invece, il plusvalore relativo sta in rapporto diretto alla forza produttiva del lavoro. P. 299 [II, 15].
Ai capitalisti non interessa il valore assoluto della merce, bensì solo il plusvalore insito in essa. La realizzazione del plusvalore implica la reintegrazione del valore anticipato. Poiché, secondo P. 299 [II, 16], lo stesso processo di aumento della forza produttiva fa calare il valore delle merci e salire il plusvalore in essa contenuto, si chiarisce come mai il capitalista, il quale si preoccupa solo della produzione di valori di scambio, cerchi costantemente di far calare il valore di scambio della merce Cfr. Quesnay. P. 300 [ivi].
Perciò, nella produzione capitalistica l'economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva non ha affatto lo scopo di abbreviare la giornata lavorativa. - Questa può essere anche prolungata. Dunque si può leggere in qualche pagina di economisti dello stampo di un Mac Culloch, d'un Ure, d'un Senior e tutti quanti (1), che l'operaio deve essere grato al capitale per lo sviluppo delle forze produttive, e, nella pagina seguente, che deve dimostrare quella gratitudine lavorando per l'avvenire quindici invece di dieci ore. Questo sviluppo delle forze produttive non ha altro scopo che di abbreviare il lavoro necessario e prolungare il lavoro per il capitalista. P. 301 [II, 17].

II
Cooperazione

Secondo p. 288 [I, 336-337], per la produzione capitalistica occorre un capitale individuale abbastanza grande da impiegare allo stesso tempo un numero piuttosto considerevole di operai; solo quando è personalmente esente del tutto dal lavoro, il datore di lavoro diventa completamente capitalista. L'operare di un numero piuttosto considerevole di operai, allo stesso tempo, nello stesso campo, per la produzione dello stesso genere di merci, sotto il comando dello stesso capitalista, costituisce storicamente e concettualmente il punto di partenza della produzione capitalistica. P. 302 [II, 18].
In un primo momento dunque una differenza semplicemente quantitativa in confronto a prima, quando da un datore di lavoro erano occupati meno operai. Ma c'è presto una modificazione. Già il numero degli operai garantisce che il datore di lavoro riceve effettivamente lavoro medio, il che non avviene col piccolo padrone, che perciò deve pur pagare il valore medio del lavoro; [quindi] le diseguaglianze si compensano per la società, non per il singolo maestro artigiano. Quindi la legge della valorizzazione, in genere, si realizza completamente per il singolo produttore soltanto quando egli produce come capitalista, occupa molti operai allo stesso tempo, e quindi mette in moto fin da principio lavoro sociale medio. P. 303-304 [II, 18-20].
Ma inoltre: economia dei mezzi di produzione solo per mezzo della grande impresa, minore cessione di valore di parti costanti del capitale al prodotto, che deriva soltanto dal loro consumo comune nel processo lavorativo di molte persone. Così i mezzi di lavoro acquistano un carattere sociale, prima che lo acquisti lo stesso processo lavorativo (finora semplice successione di processi uguali). P. 305 [II, 21].
Qui l'economia dei mezzi di produzione va considerata solo in quanto riduce le merci più a buon mercato e con ciò fa calare il valore del lavoro. Fino a che punto alteri il rapporto fra plusvalore e capitale complessivo anticipato (c+v), va considerato soltanto nel Libro III. Questa scomposizione è assolutamente nello spirito della produzione capitalistica; lasciando che le condizioni di lavoro si contrappongano per conto proprio all'operaio, anche la loro economia appare come operazione particolare, che non lo riguarda ed è quindi separata dai metodi con cui si accresce la produttività della forza-lavoro consumata dal capitale.
La forma del lavoro di molte persone che lavorano l'una accanto all'altra o l'una assieme all'altra, secondo un piano in uno stesso processo di produzione o in processi di produzione connessi, si chiama cooperazione. P. 306 [II, 22] (Concours de force. Destutt de Tracy).
La somma meccanica delle forze dei lavoratori singoli è sostanzialmente differente dal potenziale meccanico di forza che si sviluppa quando molte braccia cooperano contemporaneamente a una stessa operazione indivisa (leva o peso ecc.). La cooperazione crea fin dal principio una forza produttiva che è in sé e per sé una forza di massa.
Inoltre, il semplice contatto sociale genera, nella maggior parte dei lavori produttivi, una emulazione che aumenta il rendimento individuale dei singoli, cosicché 12 operai forniscono in una giornata lavorativa comune di 144 ore un prodotto maggiore di quelli di 12 operai in 12 ore separate o di un operaio in 12 giornate di lavoro successive. P. 307 [II, 23].
Benché molte persone facciano la stessa operazione, oppure operazioni dello stesso genere, il lavoro individuale di ciascuno può tuttavia rappresentare una differente fase del processo di lavoro (catena di persone che si porgono qualche cosa), nel che di nuovo la cooperazione risparmia lavoro. Ugualmente quando una costruzione vien iniziata contemporaneamente da parti differenti. L'operaio combinato o operaio complessivo ha occhi e mani davanti e di dietro, e possiede fino a un certo punto il dono dell'ubiquità. P. 308 [II, 24].
In processi di lavoro complicati la cooperazione permette di distribuire i processi particolari, di fare contemporaneamente e così di abbreviare il tempo di lavoro per fabbricare il prodotto complessivo. P. 308 [24].
In molte sfere di produzione vi sono momenti critici in cui sono necessari molti operai, p. es. i raccolti, la pesca delle aringhe ecc. Qui soltanto la cooperazione aiuta. P. 309 [II, 25].
La cooperazione allarga da una parte il campo della produzione, e quindi per lavori dove esiste una grande continuità spaziale del campo di lavoro (prosciugamento, costruzioni di strade, ecc., costruzioni di argini) diventa un bisogno, d'altra parte essa lo contrae mediante la concentrazione degli operai in un locale e così risparmia le spese. P. 310 [II, 25-26].
In tutte queste forme la cooperazione è la forza produttiva specifica della giornata lavorativa combinata, la forza produttiva sociale del lavoro. Questa deriva dalla cooperazione stessa. Nella cooperazione pianificata con altri l'operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa le facoltà della sua specie.
Non si può avere cooperazione fra salariati senza che lo stesso capitalista li impieghi nello stesso tempo, li paghi e li provveda di mezzi di lavoro. Dunque, il grado della cooperazione dipende da quanto capitale un capitalista possiede. La condizione che esista una certa grandezza di capitale per fare del proletariato un capitalista - diviene ora condizione materiale per la trasformazione dei molti lavori individuali dispersi e indipendenti in un processo lavorativo sociale combinato.
Proprio così il comando del capitale sul lavoro, finora soltanto conseguenza formale del rapporto tra capitalisti e operai, è ora condizione necessaria per il processo lavorativo stesso, il capitalista rappresenta appunto la combinazione nel processo lavorativo. Nella cooperazione la direzione nel processo lavorativo diventa funzione del capitale e in quanto tale riceve note caratteristiche speciali. P. 312 [II, 27-28].
Conforme allo scopo della produzione capitalistica (massima autovalorizzazione del capitale), questa direzione è insieme funzione del maggiore sfruttamento possibile di un processo lavorativo sociale, ed è quindi un portato dell'inevitabile antagonismo fra sfruttatore e sfruttati. Inoltre il controllo affinché i mezzi di lavoro vengano adoperati convenientemente. Infine la connessione delle funzioni dei singoli operai sta al di fuori di loro, nel capitale, di modo che la loro propria unità si presenta loro come autorità del capitalista, come volontà estranea. Così la direzione capitalistica è di duplice natura (1. processo lavorativo sociale per al fabbricazione di un prodotto, 2. processo di valorizzazione di un capitale) e nella sua forma è dispotica. Questo dispotismo sviluppa poi le sue forme peculiari: il capitalista, appena esentato dal lavoro stesso, cede ora la sorveglianza in sottordine a una banda organizzata di ufficiali e sottoufficiali, che sono anch'essi salariati del capitale. I trattatisti di economia sulla schiavitù, annoverano queste spese di sorveglianza tra i faux frais [spese improduttive], invece nella produzione capitalistica identificano la direzione, in quanto è un portato dello sfruttamento, addirittura con la stessa funzione, in quanto deriva dalla natura del processo lavorativo sociale. P. 313-314 [II, 29-30].
Il comando supremo nell'industria diventa attributo del capitale, come nell'età feudale il comando supremo in guerra e in tribunale era attributo della proprietà fondiaria. P. 314 [II, 30].
Il capitalista compra 100 singole forze-lavoro e ne ottiene in cambio una forza-lavoro combinata di 100. La forza-lavoro combinata dei 100 non la paga. Gli operai, entrando nel processo lavorativo combinato, hanno già cessato di appartenere a se stessi, sono incorporati nel capitale. Così la forza produttiva sociale del lavoro appare come forza produttiva immanente del capitale. P. 315 [II, 30-31].
Esempi di cooperazione presso gli antichi egizi. P. 316 [II, 31].
La cooperazione naturale agli inizi dell'incivilimento presso i popoli cacciatori, nomadi, o tra le comunità indiane, poggia 1. sulla proprietà comune delle condizioni di produzione, 2. sul naturale attaccamento dei singoli alla tribù e alla comunità primitiva. - La sporadica cooperazione nell'antichità, nel Medioevo e nelle colonie moderne poggia sulla immediata signoria e sulla violenza, per lo più sulla schiavitù. - Invece la cooperazione capitalistica presuppone l'operaio salariato libero. Storicamente essa appare in antagonismo diretto con l'economia contadina e con l'esercizio artigiano indipendente (corporativo o meno), e come una forma storica peculiare del processo di produzione capitalistico, che lo distingue specificamente. Esso è il primo cambiamento al quale soggiace il processo di lavoro per il fatto della sua sussunzione sotto il capitale. Così qui si presenta subito 1. il modo di produzione capitalistico come necessità storica affinché il processo lavorativo si trasformi in un processo sociale, poi 2. questa forma sociale del processo lavorativo come metodo del capitale, per sfruttarlo più profittevolmente mediante l'accrescimento della sua forza produttiva. P. 317 [II, 32-33].
La cooperazione, per quanto è stata considerata finora, nella sua forma semplice, coincide con la produzione su scala di una certa grandezza, ma non costituisce una forma fissa, caratteristica di una particolare epoca della produzione capitalistica, e sussiste ancor oggi laddove il capitale opera su larga scala, senza che la divisione del lavoro o le macchine vi abbiano una parte importante. Così, benché la cooperazione sia forma fondamentale dell'intera produzione capitalistica, la sua forma semplice, per sé presa, si presenta come forma particolare accanto alle sue altre forme più evolute. P. 318 [II, 33].

III
Divisione del lavoro e manifattura

La manifattura, forma classica della cooperazione che poggia sulla divisione del lavoro, predomina all'incirca dal 1550 al 1770. Essa sorge
1. o con la riunione di differenti mestieri, ciascuno dei quali compie un'operazione parziale (p. es. manifattura delle carrozze), ove il relativo artigiano singolo perde prestissimo la sua capacità di esercitare tutto intero il suo mestiere, e in cambio diviene tanto più spedito il suo mestiere parziale; col che insomma il processo viene trasformato in una divisione dell'operazione complessiva nelle sue singole parti. P. 318 [II, 34-35].
2. oppure vengono riuniti nella stessa fabbrica molti artigiani, che fanno la stessa cosa o cose analoghe, e a poco a poco le singole operazioni, invece di essere compiute successivamente da un operaio, vengono separate e compiute contemporaneamente da diversi operai (aghi, ecc.). Il prodotto, invece che opera di un artigiano, è ora il prodotto di un'associazione di artigiani, ciascuno dei quali esegue solo un'operazione parziale. P. 319-320 [II, 35-36].
In tutt'e due i casi il suo risultato è: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini. L'operazione resta artigianale; ogni processo parziale percorso dal prodotto dev'essere eseguibile mediante lavoro manuale, insomma è esclusa ogni analisi effettivamente scientifica del processo di produzione. Proprio a causa della natura artigianale ogni singolo operaio viene così incatenato completamente a una funzione parziale. P. 321 [II, 36-37].
Con questo mezzo si risparmia lavoro nei confronti dell'artigiano, e ciò s'accresce ancora con la trasmissione alla generazione seguente. Per questo mezzo la divisione manifatturiera del lavoro corrisponde alla tendenza propria di società più antiche a rendere ereditari i mestieri - caste, corporazioni. P. 322 [II, 38].
Suddivisione degli utensili mediante l'adattamento ai diversi lavori parziali - 500 varietà di martelli a Birmingham. P. 323-324 [II, 39-40].
Dal punto di vista del suo meccanismo complessivo, la manifattura ha due forme: o è semplice congiunzione meccanica di prodotti parziali indipendenti (orologio), o è serie di processi connessi fra loro in una officina (ago).
Nella manifattura ogni gruppo di operai fornisce all'altro la sua materia prima. Quindi è condizione fondamentale che ogni gruppo produca una quantità data nel tempo dato, insomma si generi una continuità, una regolarità, un'uniformità e intensità di lavoro molto differenti anche da quelle della corporazione. Qui dunque si perviene già alla legge tecnica del processo di produzione: che il lavoro è il lavoro socialmente necessario. P. 329 [II, 44].
La disuguaglianza del tempo occorrente per le singole operazioni fa sì che i differenti gruppi di operai siano di differente forza e numero (nella fusione di caratteri da stampa, 4 fonditori e 2 rompitori contro 1 brunitore). Sicché la manifattura crea una proporzione matematica fissa per la consistenza quantitativa dei singoli organi dell'operaio complessivo, e la produzione si può allargare soltanto occupando un multiplo del gruppo complessivo. Aggiungi ancora che il rendere indipendenti certe funzioni - sorveglianza, trasporto dei prodotti da locale a locale ecc. - diventa rimunerativo soltanto quando si sia raggiunto un certo livello della produzione. P. 329-330 [II, 44-45].
Combinazione di diverse manifatture in una manifattura complessiva avviene anche, però manca ancor sempre della vera unità tecnologica, che sorge soltanto con la macchina. P. 331 [II, 46-47].
Assai presto compaiono le macchine nella manifattura - sporadicamente - mulino per il grano, mulino battitore ecc., ma soltanto come cose secondarie. Macchina principale della manifattura è l'operaio complessivo combinato, che possiede una perfezione di gran lunga superiore a quella dell'antico operaio singolo di tipo artigiano, e nel quale tutte le imperfezioni, quali spesso vengono di necessità sviluppate nell'operaio parziale, appaiono come perfezioni. P. 333 [II, 48]. La manifattura sviluppa differenze tra questi operai parziali, skilled e unskilled [qualificati e non qualificati], o addirittura una gerarchia completa degli operai. P. 334 [II, 49].
La divisione del lavoro 1. generale (in agricoltura, industria, navigazione ecc.), 2. particolare (in specie e sottospecie), 3. singola (nell'officina). La divisione sociale del lavoro si sviluppa anche da differenti punti di partenza. 1. Entro la famiglia e la tribù la divisione spontanea del lavoro secondo il sesso e l'età, al che si aggiunge la schiavitù per mezzo della violenza sui vicini, che la estende. P. 335 [II, 50-51]. 2. Comunità differenti producono differenti prodotti secondo la situazione, il clima, il grado di civiltà, e questi vengono scambiati, là dove queste comunità vengono in contatto. P. 336 [II, 51]. Lo scambio con comunità estranee è quindi uno dei mezzi principali per far saltare il nesso spontaneo e naturale della propria comunità mediante l'estensione della divisione spontanea e naturale del lavoro. P. 336 [II, 51].
La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone dunque da una parte un certo grado di sviluppo della divisione sociale del lavoro, dall'altra essa la sviluppa ulteriormente - questa è la divisione territoriale del lavoro. P. 337-338 [II, 52-53].
Tuttavia tra la divisione sociale del lavoro e quella di tipo manifatturiero c'è sempre la differenza che la prima produce necessariamente merci, mentre la seconda l'operaio parziale non produce nessuna merce. Quindi in questa c'è un'organizzazione concentrata, in quella la dispersione e il disordine della concorrenza. P. 339-341 [II, 54-56].
Sull'antica organizzazione della comunità indiana. P. 341-342 [II, 57-58]. La corporazione. P. 343-344 [II, 59]. Mentre in tutte esiste questa divisione del lavoro nella società , la divisione manifatturiera del lavoro è una creazione specifica del modo di produzione capitalistico.
Come nella cooperazione, anche nella manifattura il corpo lavorativo in funzione è una forma di esistenza del capitale. La forza produttiva che deriva dalla combinazione dei lavori appare quindi come forza produttiva del capitale. Ma mentre la cooperazione lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare del singolo, la manifattura lo rivoluzione, storpia l'operaio, incapace a effettuare una produzione indipendente; egli è ormai soltanto un accessorio dell'officina del capitalista. Le potenze intellettuali del lavoro scompaiono dalla parte di molti per allargare la loro scala dalla parte di uno. Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo lavorativo agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione, che comincia già nella cooperazione, e si sviluppa nella manifattura, si completa nella grande industria, che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente, dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale. P. 346 [II, 60-62].
Passi dimostrativi. P. 347 [II, 62-63].
La manifattura, per una parte è una determinata organizzazione del lavoro sociale, per l'altra è soltanto un particolare metodo per generare plusvalore relativo. P. 350 [II, 65]. Importanza storica, ivi.
Ostacoli allo sviluppo della manifattura anche durante il suo periodo classico: limitazione del numero degli operai non abili per via del predominio degli abili. Al lavoro di bambini e donne spesso resistenza dei maschi adulti, insistenza fino all'ultimo, sulle laws of apprenticeship [leggi sull'apprendistato] anche dove superflue, continua insubordinazione degli operai, perché l'operaio complessivo non possiede ancora un'ossatura indipendente dagli operai - Emigrazione degli operai. P. 353-354 [II, 68-69].
Inoltre neanche la manifattura era in grado di sovvertire l'intera produzione sociale o soltanto di dominarla. La sua ristretta base tecnica entrò in contraddizione coi bisogni di produzione da essa stessa creati. La macchina divenne necessaria, e la manifattura aveva anche già appreso ad approntarla. P. 355 [II, 69-70].

 
IV
Macchine e grande industria

a) Il macchinario in sé
La rivoluzione del modo di produzione che nella manifattura parte dalla forza-lavoro, qui parte dal mezzo di lavoro.
Ogni macchinario sviluppato consiste 1. della macchina motrice, 2. del meccanismo di trasmissione, 3. della macchina utensile. P. 357 [II, 73].
La rivoluzione industriale del secolo XVII prende le mosse dalla macchina utensile. Sua caratteristica è che l'utensile - in forma più o meno modificata - vien trasmesso dall'uomo alla macchina e mosso da questa col suo funzionamento. Se in ciò la forza motrice sia quella umana o una naturale, per il momento è indifferente. La differenza specifica è questa, che l'uomo può soltanto adoperare i suoi organi personali, ma la macchina, entro certi limiti, può adoperare tanti strumenti quanti si vuole (filatrice 1, jenny 12- 18 fusi).
In quanto nella filatrice la rivoluzione si impadronisce non del pedale, cioè della forza, bensì del fuso, al principio dappertutto l'uomo è ancora nello stesso tempo forza motrice e sorvegliante. La rivoluzione delle macchine utensili al contrario rese necessario il perfezionamento delle macchine a vapore, e poi lo ha anche realizzato. P. 359-360 [II, 75-76], e inoltre p. 361-362 [77-79].
Due tipi di macchine nella grande industria: o 1. cooperazione di macchine omogenee (powerloom [telavio a vapore], envelope-machine [macchina per fabbricare le buste da lettera]), che riassume il lavoro di tutta una serie di operai parziali mediante la combinazione di strumenti differenti - qui si ha già l'influsso tecnologico mediante il meccanismo della forza motrice - oppure 2. sistema di macchine, combinazione di differenti macchine operatrici parziali (filatura). Questa trova il suo fondamento spontaneo e naturale nella divisione del lavoro della manifattura. Ma subito si ha una differenza sostanziale. Nella manifattura ogni processo parziale doveva venir adattato all'operaio, qui non è più necessario, il processo di lavoro può essere oggettivamente scomposto nelle sue parti costitutive, di cui tocca poi alla scienza, e rispettivamente all'esperienza su di essa basata, venire a capo per mezzo delle macchine. - Qui il rapporto quantitativo dei singoli gruppi di operai viene ripetuto in quanto rapporto dei singoli gruppi di macchine P. 363-366 [II, 79-82].
In ambedue i casi la fabbrica costituisce un grande automa (che del resto soltanto recentemente si è perfezionato fino a tal punto!) e questa è la sua forma adeguata p. 367 [II, 82-83], e la sua forma compiuta è l'automa costruttore meccanico, che eliminò la base artigianale e manifatturiera della grande industria e con ciò fornì primariamente la forma compiuta del macchinario. P. 369-372 [84-87].
Connessione del rivoluzionamento dei singoli rami fino ai mezzi di comunicazione. P. 370 [II, 85].
Nella manifattura la combinazione degli operai è soggettiva, qui è un organismo meccanico di produzione del tutto oggettivo, che l'operaio trova davanti a sé già pronto e che può funzionare solo grazie a lavori in comune, il carattere di cooperazione del processo di lavoro è una necessità tecnica. P. 372-373 [87-88].
Le forze produttive derivanti dalla cooperazione e dalla divisione del lavoro non costano nulla capitale, e nemmeno le forze naturali, vapore, acqua. Altrettanto poco le forze scoperte dalla scienza. Ma queste possono essere realizzate soltanto per mezzo di un apparecchio corrispondente, che è costituito soltanto con grandi spese, e ugualmente le macchine utensili costano di gran lunga di più dei vecchi strumenti. Queste macchine hanno una durata di gran lunga maggiore e un campo di produzione di gran lunga maggiore di quello dello strumento e perciò cedono al prodotto una parte del valore relativamente di gran lunga minore che un utensile, e perciò il servizio gratuito fornito dalla macchina (e che non riappare nel valore del prodotto) è molto maggiore che con lo strumento. P. 374, 375-376 [II, 88, 89-90].
I prezzi delle merci prodotte dimostrano quanto la macchina abbia ridotto più a buon mercato i costi di produzione, e che la parte del valore dovute al mezzo di lavoro cresce relativamente, ma diminuisce in assoluto. La produttività della macchina si misura con il grado nel quale essa sostituisce la forza-lavoro umana. Esempio p. 377-379 [II, 92-94].
Posto che un aratro a vapore soppianti 150 operai a un salario annuo di Lst. 3.000 - ebbene, questo salario annuo rappresenta non tutto il lavoro da essi fornito, bensì soltanto il lavoro necessario; essi forniscono però oltre a ciò anche il pluslavoro. Invece, se l'aratro a vapore costa Lst. 3.000 - ebbene, questa è l'espressione monetaria di tutto il lavoro in esso contenuto, e insomma se la macchina costa quanto la forza-lavoro da essa sostituita - ebbene, il lavoro umano in essa rappresentato è sempre molto più piccolo di quello da essa sostituito. P. 380 [II, 95].
La machina, come mezzo per ridurre più a buon mercato la produzione bisogna che costi meno lavoro di quanto ne sostituisca. Ma per il capitale bisogna che il suo valore sia inferiore a quello della forza-lavoro da essa sostituita. Perciò in America sono redditizie macchine che in Inghilterra non lo sono (p. es. per spaccare le pietre). Quindi, in conseguenza di certe restrizioni legali possono comparire improvvisamente delle macchine che prima non erano redditizie per il capitale. P. 380-381 [II, 95-97].

b) Appropriazione della forza-lavoro ad opera delle macchine
Poiché le macchine contengono esse stesse la forza lavoro che le muove, la forza muscolare perde valore. - Lavoro delle donne e dei bambini, repentino aumento degli operai salariati con l'arruolamento dei membri della famiglia che finora non lavoravano per salario. Con ciò il valore del lavoro dell'uomo è distribuito sulla forza-lavoro di tutta la famiglia, insomma svalorizzato. - Ora, affinché una sola famiglia possa vivere, 4 persone invece di una, come prima, devono fornire al capitale non solo lavoro, ma anche pluslavoro. Così si allarga anche il grado di sfruttamento assieme al materiale da sfruttamento. P. 383 [II, 97-98].
Prima la vendita e l'acquisto delle forza-lavoro era un rapporto di persone libere, ora si acquistano dei minorenni o dei semimaggiorenni, l'operaio ora vende moglie e figli, diventa mercante di schiavi. Esempi p. 384-385 [II, 99-100].
Deterioramento fisico. - Mortalità fra i figli degli operai p. 386 [II, 101-102], anche con la conduzione industriale dell'agricoltura. Gang-system [sistema delle bande]. P. 387 [102-103].
Degradazione morale. P. 389 [II, 103]. Clausole sull'istruzione e resistenza dei fabbricanti contro di esse. P. 390 [104-105].
L'entrata di donne e fanciulli nella fabbrica spezza alla fine la resistenza dell'operaio maschio contro il dispotismo capitalistico. P. 391 [II, 106].
Se la macchina accorcia il tempo di lavoro necessario alla produzione di un oggetto, essa diventa nelle mani del capitale il mezzo più potente per prolungare la giornata lavorativa di gran lunga oltre i suoi limiti normali. Essa crea da un lato condizioni nuove che mettono il capitale in grado di fare ciò, dall'altro lato crea motivi nuovi per questo.
La macchina è capace di un movimento perpetuo, e limitata soltanto dalla debolezza e dalla limitatezza della forza-lavoro umana che l'assiste. La macchina con 20 ore di lavoro al giorno si logora in 7 anni, ingoia per il capitalista proprio la stessa quantità di pluslavoro, ma nella metà del tempo, di quella che con 10 ore di tempo di lavoro si logora in 15 anni. P. 393 [II, 107-108].
L'usura morale della macchina - by superseding [con la sua sostituzione] - in questo la si rischia ancor meno. P. 394 [II, 108-109].
Inoltre viene assorbita una maggiore quantità di lavoro senza aumento degli impianti in edifici e macchine, quindi non soltanto il plusvalore aumenta prolungando la giornata lavorativa, ma diminuiscono anche relativamente le spese necessarie ad ottenerlo. Ciò è più importante nella misura in cui la parte fissa del capitale è molto prevalente, come è il caso nella grande industria. P. 395 [II, 109-110].
Nel primo periodo della macchina, in cui essa ha un carattere di monopolio, i profitti sono enormi, e di qui la voglia di prolungare di più, senza misura, la giornata lavorativa. Con l'introduzione generale della macchina questo guadagno monopolistico scompare e si fa valere la legge secondo cui il plusvalore sorge non dal lavoro sostituito dalla macchina, bensì da quello da essa impiegato. Insomma dal capitale variabile. - Ma questo nell'industria meccanica è necessariamente limitato dalle grandi spese. Nell'uso capitalistico del macchinario vi è quindi una contraddizione immanente: per una massa data di capitale essa ingrandisce uno dei fattori del plusvalore, ossia il saggio di esso, diminuendo l'altro, il numero degli operai. Appena il valore della merce prodotta con le macchine diventa il valore sociale normativo di questa merce, questa contraddizione si manifesta e spinge a sua volta anch'essa al prolungamento della giornata lavorativa. P. 397 [II, 111-112].
Ma nello stesso tempo, col disimpegno degli operai soppiantati come con l'arruolamento delle donne e dei bambini, la macchina produce una popolazione operaia sovrabbondante, la quale è costretta a lasciarsi dettar legge dal capitale. Quindi essa abbatte tutti i limiti morali e naturali della giornata lavorativa. Da ciò il paradosso che il mezzo più potente per l'accorciamento del tempo di lavoro diventa il mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo della vita dell'operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale. P. 398. [II, 112-113].
Abbiamo visto or ora come qui intervenga la reazione della società fissando la giornata lavorativa normale e su questa base si sviluppa ora l'intensificazione del lavoro. P. 399 [II, 113-114].
All'inizio, con l'accelerazione della macchina, contemporaneamente al prolungamento del tempo aumentò l'intensità del lavoro. Ma presto fu raggiunto il punto in cui le due cose s'escludevano. Diversamente stanno però le cose con l'accorciamento. Ora l'intensità può crescere, in dieci ore si può fornire tanto lavoro quanto altrimenti in dodici ore e più, la giornata lavorativa più intensa vale ora come potenziata, e il lavoro vien misurato non semplicemente secondo la lunghezza del tempo, ma secondo la sua intensità. P. 400 [II, 114-115].
Così dunque in cinque ore di lavoro necessario e in cinque ora di pluslavoro si può ottenere lo stesso plusvalore, che, con un'intensità inferiore, in sei ore di lavoro necessario e cinque ore di pluslavoro. P. 400 [II, 115].
Come viene intensificato il lavoro? Nella manifattura è stato dimostrato (nota 159), p. es. nella ceramica ecc., che il semplice accorciamento della giornata lavorativa è sufficiente, la produttività aumenta enormemente. Nel lavoro con le macchine la cosa era molto più dubbia. Ma prova R. Cardner. P. 401-402 [II, 115-116].
Appena l'accorciamento della giornata lavorativa è legge, la macchina diventa il mezzo per estorcere dall'operaio un lavoro più intenso, o per mezzo di greater speed [maggiore rapidità] o di less hands in relation to machine [meno operai in rapporto alla macchina]. Esempi p. 403-407 [II, 117-121]. Che contemporaneamente salgono l'arricchimento e l'estensione della fabbrica, fornite le prove a p. 407-409 [II, 121-123]-

c) Il complesso della fabbrica nella sua forma classica
Nella fabbrica la macchina provvede all'uso opportuno dell'utensile; insomma le differenze qualitative del lavoro, che si sono sviluppate nella manifattura, qui vengono accantonate, gli operai sono sempre più livellati, differenza al massimo dell'età e del sesso. La divisione del lavoro è qui distribuzione degli operai tra le macchine specifiche. Qui c'è divisione soltanto tra capi operai, i quali sono effettivamente occupati alla macchina utensile, e feeders [manovali] (questo soltanto per il selfactor [macchina automatica per filare]; appena per il throstle [macchina per filare], anche meno per il powerloom corrected [telaio a vapore perfezionato]; inoltre sorveglianti, engineers [ingegneri] e stokers [fuochisti], mechanics, joiners [carpentieri] ecc., classe aggregata soltanto esteriormente alla fabbrica. P. 411-412 [II, 126].
La necessità dell'adattamento dell'operaio al movimento continuativo di un automa esige un apprendistato sin dalla giovinezza, ma assolutamente non più come nella manifattura, che un operaio sia attaccato per tutta la vita a una funzione parziale. Può aver luogo un cambiamento delle persone alla stessa macchina (relay-system) [sistema dei turni] e, per la modesta fatica dell'apprendimento, gli opeai possono esser spostati da un tipo di macchina a un altro. Il lavoro di manovale o è molto semplice o è affidato sempre più alla macchina. Ciò nonostante, la divisione manifatturiera del lavoro all'inizio si trascina per tradizione, e diventa essa stessa un maggiore mezzo di sfruttamento del capitale. L'operaio diventa per tutta la vita parte di una macchina parziale. P. 413 [II, 127-128].
E' fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica, in quanto non sia soltanto processo lavorativo, ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l'operaio ad adoprare la condizione del lavoro, ma, viceversa la condizione del lavoro ad adoperare l'operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnologicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all'operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto, che domina e succhia la forza-lavoro vivente. Così le potenze mentali del processo di produzione quali poteri del capitale sul lavoro... L'abilità parziale dell'operaio meccanico individuale svuotato, scompare come infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle immani forze naturali e del lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine. P. 414-415 [II, 129].
Disciplina da caserma della fabbrica, codice di fabbrica. P. 416 [II, 130-131].
Condizioni fisiche della fabbrica. P. 417-418 [II, 132-134].

d) Lotta degli operai contro il sistema di fabbrica e la macchina
Questa lotta, da quando esiste il rapporto capitalistico, si presenta qui per la prima volta come rivolta contro la macchina come fondamento materiale del modo capitalistico di produzione. Macchina per nastri. P. 419 [II, 134-135]. Ludditi. P. 420 [136]. Soltanto in seguito gli operai apprendono a distinguere tra il mezzo materiale di produzione e la sua forma sociale di sfruttamento.
Durante la manifattura, la perfezionata divisione del lavoro è più un mezzo di sostituzione virtuale degli operai. P. 421 [II, 136]. (Excours [digressione] sull'agricoltura. Cacciata [della popolazione rurale dalla terra]. P. 422 [137]). Ma nel macchinismo l'operaio è effettivamente scacciato, la macchina è in concorrenza diretta con lui. Handloom weavers [tessitori artigiani col telaio a mano] P. 423 [II, 138]. Così l'India. P. 424 [139]. Questo effetto è permanente, poiché la macchina s'impadronisce di sempre nuovi campi di produzione. Quella figura indipendente ed estraniata che la produzione capitalistica dà al mezzo di lavoro nei riguardi dell'operaio, si evolve con la macchina in un antagonismo completo. Di qui dapprima ora la rivolta dell'operaio contro lo strumento di lavoro. P. 424 [ivi].
L'economia liberale afferma che la macchina, la quale soppianta operai, libera nello stesso tempo un capitale che può occupare questi operai. Ma al contrario: ogni introduzione di macchine vincola del capitale, riduce la sua parte variabile, aumenta la sua parte costante, non può dunque che limitare la capacità d'occupazione del capitale. In realtà - e così pensano anche quegli apologeti - in questo modo non si mette in libertà del capitale, bensì si mettono in libertà i mezzi di sussistenza dell'operaio licenziato, si libera l'operaio dei suoi mezzi di sussistenza, cosa che l'apologeta esprime dicendo che la macchina libera mezzi di sussistenza per l'operaio. P. 429-430 [II, 145-147].
Passo ulteriormente svolto (molto bene per il Fortnightly(1)). P. 431-432 [II, 148-149]. Gli antagonismi inseparabili dall'uso capitalistico della macchina non esistono per gli apologeti, perché non provengono dalla macchina stessa ma dal suo uso capitalistico. P. 432 [II, 149].
Estensione della produzione per mezzo delle macchine direttamente e indirettamente e con ciò possibile aumento del numero precedente degli operai: minatori, schiavi nei Cotton States [Stati produttori di cotone] ecc. Invece con le fabbriche laniere soppiantamento degli scozzesi e degli irlandesi con le pecore. P. 433-434 [II, 151-152].
L'uso delle macchine accresce la divisione sociale del lavoro molto di più che non l'abbia fatto la manifattura. P. 435 [II, 153].

e) Macchina e plusvalore
Il primo risultato della macchina è l'aumento del plusvalore e insieme della massa di prodotti, nella quale esso si presenta e di cui si nutrono la classe capitalistica e le sue appendici - insomma aumento del numero dei capitalisti, nuovo bisogno di lusso e insieme mezzi per soddisfarlo. Cresce la produzione di lusso, altrettanto i mezzi di trasporto (che però nei paesi sviluppati assorbono poche forze-lavoro). (Documentazione p. 436 [II, 154]), infine cresce la classe dei servitori, gli schiavi domestici moderni, il cui materiale è fornito dalla messa in libertà degli altri. P. 437 [II, 154-155]. Statistica.
Contraddizioni economiche. P. 437 [156].
Possibilità dell'aumento assoluto del lavoro in un ramo d'attività in conseguenza della machina e modalità di questo processo. P. 439-440 [II, 158-159].
Enorme elasticità, capacità di un'espansione improvvisa a grandi balzi della grande industria ad un alto grado di sviluppo. P. 441 [II, 160]. Ripercussione sui paesi produttori delle materie prime. Emigrazione in seguito al licenziamento di operai. Divisione internazionale del lavoro tra paesi industriali ed agricoli - periodicità di crisi e prosperità. P. 442 [II, 160-161]. L'operaio gettato da una parte e dall'altra in questo processo di estensione. P. 444 [II, 163-164].
Documentazione storica in proposito. P. 445-449 [II, 164-169].
Qui sul soppiantamento della cooperazione e della manifattura ad opera della macchina (i gradi intermedi a p. 450-451 [II, 170-171]. Soppiantamento anche nelle aziende a carattere non di fabbrica, branche d'industria nello spirito della grande industria - lavoro domestico a domicilio come reparto esterno della fabbrica. P. 452 [II, 171-172]. Nel lavoro a domicilio e nella manifattura moderna lo sfruttamento è anche più spudorato che nella fabbrica vera e propria. P. 453 [II, 172]. Esempi: tipografie Londinesi. P. 453 [173]. Stampa di libri, cernita degli stracci. P. 454 [II, 173]. Fornaci. P. 455 [174]. Manifattura moderna in generale. P. 456 [II, 175]. Lavoro a domicilio: merletti. P. 457-459 [II, 177-179]. Intrecciatura della paglia. P. 460 [II, 180]. Passaggio all'industria di fabbrica quando sia raggiungibile il limite estremo dello sfruttamento: wearing apparel [produzione di articoli di vestiario] con la macchina da cucire. P. 426-466 [II, 181-186]. Accelerazione di questo passaggio con l'estensione delle leggi obbligatorie sulle fabbriche, che eliminano l'andazzo precedente basato finora su uno sfruttamento illimitato. P. 467 [II, 187]. Esempi: Ceramica. P. 467 [188]. Fiammiferi. P. 468 [188]. Inoltre effetto delle leggi sulle fabbriche su lavori irregolari, ad opera della sciatteria degli operai come ad opera delle stagioni e delle mode. P. 470 [189-190]. Sopralavoro accanto a ozio in conseguenza della stagione, nel lavoro a domicilio e nella manifattura. P. 471 [II, 190-191]. Clausole sanitarie delle leggi sulle fabbriche. P. 473 [II, 193]. Clausole sull'istruzione. P. 475 [II, 195-196].
Licenziamento degli operai semplicemente a causa dell'età, appena sono cresciuti e non sono più adatti al lavoro e non possono più vivere del salario dei fanciulli, e nello stesso tempo non hanno imparato nessun lavoro nuovo. P. 477 [II, 197-198].
Dissoluzione dei mysteries(1) e della configurazione stereotipata della manifattura e dell'artigianato ad opera della grande industria, che trasforma il processo di produzione in una consapevole applicazione delle forze naturali. Essa solo perciò è rivoluzionaria di fronte a tutte le forme precedenti. P. 479 [II, 199]. Ma in quanto forma capitalistica essa lascia sussistere per l'operaio la divisione fossilizzata del lavoro, e poiché essa sovverte giornalmente la base di essa, l'operaio va in rovina. D'altra parte proprio qui, in questa variazione necessaria delle attività dello stesso operaio, v'è l'esigenza della maggiore versatilità possibile di esso e le possibilità della rivoluzione sociale. P. 480-481 [II, 200-201].
Necessità di estendere la legislazione sulle fabbriche a tutti i rami di attività anche non del tipo della fabbrica. P. 482 e sgg. [II, 203-205]. Atto del 1867. P. 485 [205-206]. Miniere, nota 486 e sgg. [208-216].
Effetto concentrante delle leggi sulle fabbriche, generalizzazione del regime di fabbrica e con ciò della forma classica della produzione capitalistica, acutizzazione delle contraddizioni ad essa inerenti, maturazione degli elementi di sovvertimento della vecchia società e degli elementi di formazione della nuova. P. 486-493 [II, 215-216].
Agricoltura. Qui la perdita dell'occupazione a causa delle macchine è anche più acuta. Sostituzione del contadino con l'operaio salariato. Annientamento della manifattura domestica nelle campagne. Acutizzazione dei contrasti tra città e campagna. Dispersione e indebolimento dell'operaio rurale, mentre gli operai urbani vengono concentrati, quindi salario dell'operaio agricolo al minimo. Nello stesso tempo rapina del suolo: coronamento del modo di produzione capitalistico il seppellimento della fonte di ogni ricchezza: la terra e l'operaio. P. 493-496 [II, 217-220].

V
Ulteriori ricerche sulla produzione del plusvalore
(6)
 
 
5 "Propria" si riferisce al concetto "x merce A", "di essa" alla parola "merce".
6 Qui si interrompe il manoscritto