La verità sull'"esodo'' degli italiani giuliano-dalmati (L'occupazione fascista della Slovenia)
L'istituzione del "giorno del ricordo'' approvato dalla Camera del regime neofascista l'11 febbraio scorso col voto favorevole del "centro-sinistra'' di regime con alla testa i DS (che nel maggio del 2003 hanno presentato una proposta di legge, i cui primi firmatari sono nientemeno che il segretario della Quercia Piero Fassino, il presidente del gruppo DS alla Camera Luciano Violante e il deputato Alessandro Maran eletto nel Friuli-Venezia Giulia per l'istituzione della "giornata della memoria dell'esodo dall'Istria, da Fiume e dalle coste dalmate''), è un oltraggio alla Resistenza e al socialismo favorito dall'adesione dei rinnegati a quella "memoria condivisa'' che cancella ogni distinzione storica e politica fra fascismo e antifascismo, liberalismo e comunismo, borghesia e proletariato.
La storia non si cancella e non si può riscrivere a proprio uso e consumo con i disegni di legge.
La storia è storia. La si può rinnegare, come hanno fatto i DS e il PRC, ma non la si può cambiare. E quella dei cosiddetti "esuli'' istriani e giuliano-dalmati, in tutto circa 35 mila persone in gran parte anticomunisti, fascisti, spie, traditori, delatori, collaborazionisti e personaggi compromessi con gli oppressori nazi-fascisti, è una storia macchiata col sangue di milioni di morti che deve rimanere scolpita nella menti e nei cuori di tutte le masse sfruttate e oppresse e deve servire da monito, specie per le giovani generazioni, affinché tengano ben alta la bandiera dell'antifascismo e del socialismo.
Perché è una storia legata a doppio filo col fascismo e gli efferati crimini di guerra e stragi di civili commessi dagli aggressori nazi-fascisti nella ex Jugoslavia dal 1941 al 1943.
Perché senza il ruolo decisivo delle forze partigiane jugoslave dirette dal partito comunista e forti del sostegno internazionalista dell'Urss di Stalin, non solo i Balcani ma anche città come Trieste e Gorizia non sarebbero state liberate dal mostro nazi-fascista.
E perché infine essa rappresenta la conseguenza inevitabile della politica estera imperialista e aggressiva e della feroce oppressione condotta dall'Italia (anche prima dell'avvento del fascismo) nei confronti del nascente Stato dei serbi-croati e sloveni e successivamente contro la rilevante minoranza slava (sloveni e croati) che si trovò forzatamente inclusa nei confini del regno d'Italia che, in qualità di potenza vincitrice al termine della prima guerra mondiale, ne reclamò l'annessione in ottemperanza al Patto di Londra, ossia il patto segreto militare firmato il 26 aprile 1915 fra il presidente del Consiglio italiano Antonio Salandra e dal ministro degli esteri Sidney Sonnino con i rappresentanti di Francia, Inghilterra e Russia, nel quale si definivano le condizioni per l'ingresso dell'Italia nella prima guerra mondiale e in caso di vittoria venivano garantiti il Trentino, il Sud Tirolo fino al Brennero, Trieste e Gorizia, l'Istria fino al golfo del Quarnaro, ma non il porto di Fiume, una parte della Dalmazia con diverse isole dell'Adriatico, la città di Valona in Albania, il protettorato sull'Albania e una non precisa porzione di territori africani. Ma alla conferenza di pace apertasi a Parigi il 18 gennaio 1919 e conclusasi con la stipula del Trattato di Versailles del 28 giugno 1919 i governi imperialisti delle potenze alleate negarono all'imperialismo italiano la cessione della Dalmazia e di Fiume, con la firma del trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 da parte di Giovanni Giolitti e Carlo Sforza.

Le responsabilità del fascismo e dell'Italia liberale
Nacque così il "mito della vittoria mutilata'' agitato pretestuosamente dai governi liberali durante il periodo di riassetto geopolitico successivo alla prima guerra mondiale nei Balcani per rilanciare le rivendicazioni annessionistiche sui territori Nord orientali e poi portato alle estreme conseguenze dai nazionalisti e interventisti italiani con alla testa Gabriele D'Annunzio, che nel settembre del 1919 alla testa di un pugno di legionari occupò la città di Fiume. In questo contesto l'avventura di D'Annunzio a Fiume rappresentò infatti una sorta di "prova generale'' della "marcia su Roma''. Fu il primo colpo mortale inferto dai nazionalisti e dai militaristi allo Stato liberale e al governo Nitti alle prese con una profonda crisi economica e politica post bellica.
Dunque i Balcani hanno da sempre rappresentato una direttrice fondamentale dell'espansionismo imperialista italiano. Già all'indomani della fine della prima guerra mondiale imperialista l'Italia liberale guardava all'Adriatico come a un "mare interno'' e osteggiava con ogni mezzo la creazione di uno Stato degli slavi del sud.
Una politica imperialista che ebbe il suo prolungamento e toccò il culmine con l'avvento del regime fascista. Mussolini infatti ha sempre considerato i vicini Balcani una terra di conquista con l'obiettivo di annetterli definitivamente così da rendere l'Italia la potenza imperialista più forte nel Mediterraneo, controllando peraltro gli accessi al mare dei paesi centroeuropei.
Una regione da disgregare e da sottomettere alimentando e utilizzando il separatismo croato e l'irredentismo fascista di Pavelic e degli ustascia, cetnici e "bela garda''.
Dopo l'attribuzione all'Italia dei territori della Slovenia e della Croazia stabilita dal trattato di Rapallo, l'Italia di fatto si annetteva vaste zone del regno dei Serbi-Croati-Sloveni con popolazione a stragrande maggioranza o del tutto slava, come testimoniava il censimento austriaco del 1910, secondo cui nel comune di Trieste si contavano 142 mila italiani cui si aggiungevano altri 39 mila italiani non triestini che portava la cifra complessiva a 181 mila italiani contro 38.400 slavi e 9.600 tedeschi. Ma, dall'altro lato, in tutta la provincia di Trieste e in particolare nel territorio rurale la stragrande maggioranza era slava.

L'oppressione fascista
Ed è infatti proprio in queste zone che il fascismo maggiormente attuò, con la complicità anche della chiesa cattolica, una vera e propria pulizia etnica e un'italianizzazione forzata della popolazione, basata su una politica razzistica di snazionalizzazione delle popolazioni autoctone (divieto dell'uso del serbo-croato, imposizione dell'italiano nelle scuole e negli uffici pubblici, italianizzazione dei cognomi, dei nomi delle città e delle vie), di epurazione dei posti di lavoro sostituendo mano d'opera locale con italiani immigrati da zone limitrofe, boicottaggio dello sviluppo economico, scioglimento delle amministrazioni locali, repressione violenta di ogni forma di dissenso, divieto di manifestazioni associative e continui assalti delle squadracce nere che seminavano il terrore nelle città e nei villaggi per scoraggiare qualsiasi ribellione. E, infine, l'istituzione dei tribunali speciali cui "spetta il compito di ristabilire l'ordine affermando sia il primato della razza e della civiltà italiana, sia il ruolo giocato da un confine che funge da barriera con un mondo barbaro e inferiore''.
Nonostante ciò le ribellioni della popolazione slava ci furono, e centinaia furono i processi e le condanne a morte comminate dai tribunali speciali fascisti.
Esemplare a tal proposito è il processo a Pino Tomazic celebrato dall'1 al 4 dicembre 1941 che vide alla sbarra 72 imputati tutti condannati a pesanti pene detentive e all'esecuzione di 4 condanne a morte.

L'aggressione nazi-fascista e lo sterminio delle popolazioni slave
La situazione si aggravò ulteriormente a partire dal 6 aprile 1941 con l'aggressione nazi-fascista alla Jugoslavia e la costituzione dello Stato fantoccio di Croazia guidato dai sanguinari ustascia di Ante Pavelic. Questi ultimi, insieme ai nazisti, misero letteralmente a ferro e fuoco quelle terre. Il 17 aprile la Jugoslavia capitolò e all'Italia fu assegnata la "Provincia di Lubiana'', la parte centrale della Dalmazia e di gran parte delle isole adriatiche, più le Bocche di Càttaro e parte del litorale montenegrino.
Nelle zone occupate dall'esercito italiano le repressioni, le stragi, gli incendi di villaggi e le deportazioni nei campi di concentramento, dove si moriva a migliaia per fame, malattie e torture, non furono però inferiori a quelle compiuti da nazisti nel resto del paese.
Ai primi di settembre del '41 il capo di stato maggiore delle orde hitleriane il federmaresciallo Keitel impartiva ai comandi tedeschi in Jugoslavia il seguente ordine: "per soffocare i disordini fin dall'inizio bisogna, appena si manifestano, prendere senza esitazione i provvedimenti più duri per affermare con la forza l'autorità degli organi di occupazione e impedire la diffusione dei disordini. Bisogna tenere presente che una vita umana in questi paesi spesso non vale niente e che si può ottenere l'effetto di terrorizzare solo con una straordinaria crudeltà. Come rappresaglia per la vita di un soldato tedesco bisogna prendere in questi casi come regola generale la pena di morte per 50-100 comunisti. Bisogna poi eseguire le pene capitali in modo da rendere ancora maggiore l'effetto terroristico''. E da parte fascista il generale Mario Robotti, comandante dell'XI Corpo d'armata di stanza in Slovenia aggiungeva: "è vero, si ammazza troppo poco''.
Tra il febbraio e il marzo del '42 in una serie di incontri i capi di stato maggiore generale tedesco e italiano, von Keitel e Ugo Cavallero, insieme con altri gerarchi nazisti e fascisti fra cui il nuovo comandante della II armata italiana, il generale Mario Roatta, predisposero un criminale piano per la liquidazione del movimento di liberazione jugoslavo.
A tal proposito nell'aprile del '42 venne costituito a Trieste l'ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia guidato dal commissario Giuseppe Gueli, collaboratore, assieme a Gaetano Collotti e al federale Orlandini, dei nazisti.
Dovunque si ebbero fucilazioni e impiccagioni di massa. Inoltre in varie località furono istituiti numerosi campi di concentramento, a Gonars, Monigo, Renicci e altrove, nei quali furono internati centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini. Nel solo campo di Sabac, in Serbia, in poche settimane furono rinchiusi oltre 220 mila deportati e in pochi giorni 5.960 di loro furono massacrati.
Molti generali fascisti come Roatta, Ambrosio, Orlando, Robotti e altri ordinarono massacri, fucilazioni, impiccaggioni, feroci rastrellamenti, deportazioni di massa e incendi di intere città e villaggi furono eseguiti spietatamente da reparti di camicie nere, carabinieri e talvolta anche dall'esercito. Il campo di concentramento italiano sull'isola di Rab (Arbre), nel Quarnero, fu per gli jugoslavi ivi deportanti un luogo di terrore, di sofferenza e di morte non meno di quelli istituiti dai tedeschi in altre città.

L'occupazione tedesca e il collaborazionismo fascista
Dopo il crollo del regime fascista (25 luglio '43) e l'armistizio dell'8 settembre '43 le orde mussoliniane si misero al servizio dei nazisti e consegnarono tutto il litorale adriatico comprendente le province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana, nelle mani dei tedeschi.
Il governo di queste zone chiamato Litorale Adriatico (Adriatisches Kustenland) venne affidato da Hitler al gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer che assunse il comando il 1° ottobre 1943 e accentrò su di sé tutti i poteri politici e amministrativi. Sottopose prefetti e podestà al controllo di consiglieri tedeschi e stabilì precise norme per l'impiego delle milizie collaborazioniste locali. Passarono così alle dipendenze delle SS le formazioni della milizia fascista, che qui non si trasformeranno, come nella neo-costituita "repubblica di Salò'', in Guardia Nazionale Repubblicana, ma assumeranno il nome di "Milizia Difesa Territoriale'', e i vari reparti di polizia. Tra questi l'Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia, più tristemente noto sotto il nome di "Banda Collotti'', dal nome del commissario Gaetano Collotti, che ne aveva assunto il comando. Questa banda di assassini e torturatori aveva la sede nella "Villa Triste'' di via Bellosguardo e continuò il suo "servizio'' fornendo ai tedeschi una preziosa e fattiva collaborazione contro gli antifascisti e nello sterminio degli ebrei. Il controllo poliziesco, la repressione politica, razziale, antipartigiana, erano affidati alla supervisione delle SS il cui comandante, Odilio Lotario Globocnik, legato a Himmler e reduce dai massacri di oltre 2 milioni e mezzo di ebrei in Polonia, si installò a Trieste con un nutrito seguito di aguzzini in camicia nera già impiegati nelle varie operazioni di sterminio in Germania, Polonia, Urss, e nei lager più noti: Belsen, Sobibor, Majdanek, Treblinka, ecc.
L'ordine tassativo era di schiacciare con ogni mezzo la resistenza jugoslava a conferma dall'estrema importanza che il "Litorale Adriatico'' aveva per il Reich. Trieste, l'Istria e il Friuli costituivano un punto strategico per l'economia e la politica espansionista dei nazi-fascisti nel sud-Europa e nell'area mediterranea ed erano, nel contempo, una "cerniera'' strategica essenziale fra il settore balcanico, sconvolto dalla guerra partigiana e "minacciato dall'avanzata sovietica'', e il fronte italiano e la Germania meridionale.

La liberazione e la fuga dei fuoriusciti
Nel settembre del '44 la resistenza jugoslava lancia una controffensiva su larga scala contro gli occupanti nazi-fascisti. In un discorso alla II brigata dalmata Tito, sostenuto da Stalin, ribadisce le giuste rivendicazioni del popolo slavo e si rivolge direttamente ai rappresentanti della borghesia italiana e ai badogliani presenti all'interno del Comitato di liberazione nazionale dell'alta Italia per chiarire la questione delle zone di confine. "La nostra nazione - egli afferma - ha lottato e lotta ancora per la libertà e l'indipendenza, ma lotta anche per la liberazione di quei nostri fratelli che per decine di anni vivevano sotto il giogo fascista. Questi sono i nostri fratelli dell'Istria, del litorale sloveno e della Carinzia. Anche questi devono essere liberati e vivranno nella loro patria con i popoli fratelli. Questo è il nostro desiderio ed anche il desiderio di loro stessi. Non vogliamo nulla di ciò che è straniero ma non rinunciamo a ciò che è nostro. Noi non abbiamo parlato di ciò, ma i nostri vicini dall'altra parte parlano anche troppo e fanno svariate combinazioni. Si fa appello alla nostra magnanimità per la quale dovremmo lasciare i nostri fratelli che languiscono, ancora nella servitù. L'abolizione della ingiustizia dei trattati di Rapallo e di Versailles che noi esigiamo, a certa gente dei paesi confinanti e cioè dei paesi che erano con noi in guerra e che hanno aggredito la nostra patria, dei paesi di cui le armate distruggevano le nostre città, i nostri villaggi e uccidevano le nostre donne e i nostri bambini, non piace e si ritiene ciò come una specie di imperialismo, come qualcosa che fra alcuni anni potrebbe scatenare un'altra guerra. E perciò, secondo la loro opinione, noi dovremmo anche nel futuro abbandonare i nostri fratelli sotto il giogo straniero''.
Dunque, mentre da parte jugoslava c'è una corretta applicazione del principio di autoderminazione dei popoli a disporre di stessi e che è alla base della stretta collaborazione fra la resistenza jugoslava e le formazioni partigiane dei comunisti italiani, dall'altra parte è chiaro che all'interno del CLNAI agiva anche un'ala destra badogliana e nazionalista che vedeva come una "mutilazione'' del territorio italiano la restituzione alla Jugoslavia dei territori ingiustamente sottratti coi trattati del primo dopoguerra.
Queste forze borghesi rifiutavano di riconoscere che l'Italia fascista che aveva sottomesso quei territori con la forza e usciva sconfitta dalla guerra e che le popolazioni istriane e giuliano-dalmate avevano già espresso con il "plebiscito del sangue'' la volontà politica di stare coi liberatori jugoslavi a cui sono da sempre legati etnicamente, geograficamente ed economicamente.
Il 30 aprile 1945 il fronte di liberazione nazionale jugoslavo ordina l'insurrezione generale. Grazie all'eroica lotta di liberazione del popolo jugoslavo, nel maggio del 1945 gli occupanti nazi-fascisti sono costretti alla resa.
Le vittoriose battaglie per la liberazione di Gorizia e Trieste concludono l'offensiva dei partigiani jugoslavi contro gli aguzzini nazifascisti. E l'8 maggio capitola la Germania di Hitler.
Un milione di morti, vittime della repressione nazi-fascista, più altri 700 mila caduti nella lotta di liberazione: questo il tributo di sangue pagato dal popolo jugoslavo alla feroce politica di aggressione e di conquista di Mussolini e Hitler nei Balcani. è da questo tragico retroterra che scaturiscono episodi - peraltro più circoscritti di quanto la propaganda fascista e revisionistica tende a far credere - come quello delle "foibe'' e degli "esuli'' istriani e giuliano dalmati.
La fuga dei fuoriusciti istriani e giuliano-dalmati dai territori della ex Jugoslavia si concentrò in due grandi ondate: una prima fase in seguito al Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 in base al quale l'Italia dovette rinunciare all'occupazione dell'Istria, Fiume (Rijeka), Zara, Ragusa (Dubrovnik) e le isole dell'Adriatico. Mentre Trieste fu dichiarata "territorio libero'', la regione fu divisa in due settori: la zona A, da Duino a Trieste compresa, fu posta sotto il dominio angloamericano, e la zona B, da Capodistria a Cittanova, sotto l'amministrazione jugoslava.
Una seconda fase di fuoriusciti si ebbe in seguito alla stipula dal Memorandum di Londra del 1954.
Ma il fenomeno era già in atto sin dall'ottobre 1943, soprattutto in Dalmazia e nelle zone liberate dai partigiani e riguardò essenzialmente elementi anticomunisti e collaboratori degli occupanti nazi-fascisti che fuggirono dai territori della ex Jugoslavia per sottrarsi vigliaccamente al giudizio delle loro vittime. Infatti nessuno dei fuoriusciti fu espulso ufficialmente con un preciso decreto di espulsione come avvenne per i tedeschi in Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia, Polonia e altre terre dell'Europa orientale.
A Pola addirittura l'"esodo'' iniziò nel gennaio 1946 e durò oltre un anno, fino al 20 marzo 1947, quando il piroscafo "Toscana'' salpò da Pola col suo ultimo di carico di "profughi'' istriani.
L'altra ondata dell'"esodo'' riguardò la zona B che dal 1953 si protrasse fino a ben oltre il 1958.

La posizione del PCI sui fuoriusciti
Durante tutto questo periodo la posizione dell'allora PCI è ben espressa nella lettera dei primi mesi del 1945 inviata da Togliatti (allora vice presidente del Consiglio) al presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi il 2 febbraio del 1945: "Caro Presidente, mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al CLNAI (n.d.a., Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia) una comunicazione, in cui si invita il CLNAI a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il loro controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell' esercito partigiano jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera perché, prima di tutto, una direttiva di questo genere non potrebbe essere senza consultazione del Consiglio dei Ministri. Circa il fondo del problema, è a prima vista evidente che una direttiva come quella che sarebbe contenuta nella comunicazione di Gasparotto è non solo politicamente sbagliata, ma gravida per il nostro paese, dei più seri pericoli. Tutti sanno, infatti, che nella Venezia Giulia operano oggi le unità partigiane dell'esercito di Tito, e vi operano con l'appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano s'intende contro i tedeschi e i fascisti. La direttiva che sarebbe stata data da Gasparotto equivarrebbe quindi concretamente a dire al CLNAI che esso deve scagliare le nostre unità partigiane contro quelle di Tito (...) si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito (...) Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da darsi è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e contro i fascisti.
Solo se noi agiremo tutti in questo modo creeremo le condizioni in cui, dimenticato il passato, sarà possibile che le questioni della nostra frontiera orientale siano affrontate con spirito di fraternità e collaborazione fra i due popoli e risolte senza offesa nel comune interesse''.

Le proteste del popolo italiano contro il rimpatrio dei fuoriusciti
Si levarono in molte città italiane le proteste operaie e sindacali contro l'accoglienza dei fuoriusciti da parte del governo italiano che finanziava economicamente e favoriva logisticamente il rientro. Memorabili furono i blocchi ferroviari e portuali attuati dai lavoratori ferrovieri di Bologna e portuali di Ancona e di Venezia, che in diverse occasioni impedirono per ore le operazioni di attracco e approvvigionamento ai convogli e alle navi cariche di istriani e giuliano-dalmati in fuga dalla Jugoslavia.
La "guerra fredda'' degli anglo-americani contro il comunismo era praticamente già cominciata, e questo spiega anche perché gli alleati non vollero mai consegnare al governo jugoslavo che ne aveva fatto richiesta i criminali di guerra italiani, e perché sui crimini dell'esercito italiano in Jugoslavia è sempre stato mantenuto un segreto impenetrabile, protetto gelosamente negli archivi italiani e degli altri paesi della Nato. Allo stesso tempo, dopo la rottura di Tito con Stalin, i paesi Nato non ebbero più interesse a soffiare sul fuoco dei rapporti tra Italia e Jugoslavia.
Questo ruolo fu lasciato ai fascisti, che proprio all'ombra di questo colpevole silenzio dei governi italiani e dei comandi militari Nato sui misfatti degli italiani in Jugoslavia hanno potuto imbastire nel tempo la loro infame campagna nazionalista, revanscista e sciovinista sulle foibe e sui "profughi'' dall'Istria e dalla Dalmazia. Essi si fanno alfieri della "verità'' sulle "vittime delle foibe'' e sugli italiani "scacciati'' dalla Jugoslavia, ma si guardano bene dal solo accennare agli efferati crimini di guerra commessi dall'esercito di Mussolini in quelle terre. In questo, va detto, aiutati dai rinnegati del comunismo, che li coprono per arrivare a una "pacificazione nazionale'' che superi gli antichi steccati sulla base del regime neofascista.