Checché ne dica la Fornero
La flessibilità del lavoro è sempre cattiva
Bloccare con lo sciopero generale la controriforma del "mercato del lavoro"
Non è una novità, piuttosto una costante. Della "riforma" del "mercato del lavoro" il ministro del Welfare, Elsa Fornero, più che al tavolo delle "trattative" con le "parti sociali" ama parlarne con i mass-media. Ultimo caso, una lunga lettera inviata a La Stampa e pubblicata il 4 marzo con il titolo: "Riforma del lavoro. Agire insieme ma presto". "Due requisiti essenziali: flessibilità buona e nuovi ammortizzatori sociali". Della lettera scritta dal ministro, colpisce di primo acchito l'impostazione assolutamente liberista tutta a favore delle imprese e del capitalismo italiano impegnato a reggere il confronto nella globalizzazione; l'analisi del tema del lavoro su un piano puramente teorico, senza tenere di conto la realtà e i problemi concreti esistenti; la proposta di una "riforma" del "mercato del lavoro" che si fonda sulla flessibilità sia in entrata che in uscita e lo stravolgimento degli "ammortizzatori sociali" per abbassarne le tutele. A ben vedere, però, il cuore della proposta della Fornero è costituito dalla flessibilità, quella "buona" precisa, ma poi non dice quale sarebbe quella cattiva e se va abolita.
Per giustificare questa tesi il ministro parla della necessità di "una riforma complessiva del mercato del lavoro" funzionale "alle opportunità e alle sfide poste dall'economia globale" che sappia" adattarsi ai cicli economici e a fenomeni competitivi". Senza tale "riforma" le imprese, prosegue, "non riusciranno a riorganizzarsi, a stare al passo con i continui mutamenti che caratterizzano l'economica mondiale". Ed è qui che la Fornero indica "un adeguato grado di 'buona' flessibilità nell'utilizzo del lavoro" da parte delle imprese per rispondere, teorizza, a una domanda internazionale rapida e mutevole. L'occupazione a tempo indeterminato, il "posto fisso" non viene nemmeno preso in considerazione. I padroni dovrebbero avere la libertà di assumere con contratti a tempo (e quindi tutti i lavoratori sarebbero precari) e dovrebbero avere la libertà di licenziare in presenza di qualche protezione sociale, di un sussidio di disoccupazione. "Il frequente mutamento di mansioni e di occupazione ... deve avvenire - si legge infatti nella lettera - senza traumi nell'ambito di una rete di sicurezza".
Non un parola per denunciare i drammatici guasti sociali prodotti dall'introduzione di una miriade di contratti precari dagli anni '90 ad oggi. Non un parola per stigmatizzare l'evolversi di un precariato di massa che ha condannato più di una generazione di giovani a subire condizioni di lavoro insicure, supersfruttate, con bassi salari e senza diritti. Alla luce dei fatti e dell'esperienza si può dire, senza paura di essere smentiti, che la flessibilità del lavoro buona non esiste, è tutta cattiva e fa danni. Persino Bonanni, commentando la lettera della Fornero, riferendosi alle partite Iva fasulle, ai contratti a progetto, alle associazioni partecipate, alle false ditte individuali, ha detto: "Questa flessibilità malata deve essere fatta fuori, dev'essere resa illegale".
Per il ministro invece le flessibilità introdotte progressivamente negli anni hanno sostenuto la crescita dell'occupazione con una quota consistente dei lavoratori provenienti dai segmenti svantaggiati, giovani e donne. Balla colossale! Dovrebbe spiegare come mai la disoccupazione giovanile in Italia è al 31%, una delle percentuali più alte in zona Ue? Quando la Fornero segnala una condizione svantaggiata dei giovani lo fa in modo strumentale. Gli serve per sostenere la sua tesi sul cosiddetto dualismo del "mercato del lavoro", per dare l'assalto ai lavoratori a suo dire "protetti", "privilegiati", gli serve per giustificare provvedimenti finalizzati ad abbassare le loro tutele: dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori a un sistema di "ammortizzatori" che attualmente prevede la cassa integrazione ordinaria, quella straordinaria e le liste della mobilità.
È vero, come sostiene il ministro, che vi sono settori di lavoratori che possono godere di strumenti di sostegno e altri no. Non è una grande scoperta. Non c'è bisogno né di essere professori né tecnici per evidenziare questo limite. Ed è più che giusta l'idea di estendere questi strumenti a tutti i lavoratori dando ad essi un carattere universalistico. Questo vuol fare il governo Monti? No, non risulta. L'operazione che ha in mente la Fornero è tutt'altra: ridurre drasticamente l'attuale sistema degli "ammortizzatori sociali" alla sola cassa integrazione ordinaria per un periodo non superiore ai 12 mesi, poi il licenziamento e un magro sussidio di disoccupazione per 8 mesi e non oltre. Per giunta senza metterci un euro in più.
La direzione di questa linea è chiara: non più ma meno tutele sociali e previdenziali per le lavoratrici e i lavoratori; che già hanno subito una mazzata nei trattamenti pensionistici. Non meno ma più precarietà. Se le cose stanno così, lascia basiti il riferimento che la Fornero indica, come modello, che riguarda la "riorganizzazione della protezione sociale realizzata in Germania" che può contare su un sostegno da parte dello Stato tre volte superiore di quello italiano. Cosa centri la Germania, dove opera un sistema di welfare più avanzato del nostro, con la "riforma" filopadronale e iperliberista che il governo Monti intende attuare, è un mistero.
In ogni caso si tratta di una controriforma che occorre contrastare con forza. Per bloccarla occorre lo sciopero generale di 8 ore con manifestazione nazionale a Roma davanti alla Camera. Tutti i sindacati dovrebbero sentire il dovere e l'urgenza di proclamarlo al più presto.

7 marzo 2012