Sconvolta una parte dell'ordinamento istituzionale della prima Repubblica con un ulteriore restringimento della democrazia e dell'elettoralismo borghesi
Golpe bianco sulle province
Il governo ne taglia 35. Da gennaio saranno soppresse le giunte. Cancellata l'elezione diretta e introdotta quella di secondo livello

Con un decreto legge del 20 luglio scorso inserito nella Spending Review alla voce "riordino delle Province", in attuazione dell'impegno preso dal governo Berlusconi con le autorità politiche e monetarie europee nell'estate 2011, il Consiglio dei ministri aveva fissato i requisiti minimi necessari per mantenere lo status di Provincia, che sono 350 mila abitanti e 2.500 Km quadrati di territorio. In base a questi criteri si sarebbero salvate solo 43 Province su 107, di cui 26 nelle regioni ordinarie e 7 in quelle a statuto speciale, più altre 10 destinate a diventare Città metropolitane. Le Province cancellate avrebbero dovuto accorparsi in qualche modo per sopravvivere.
Dopo aver dato tempo fino al 23 ottobre al Consiglio delle Autonomie locali (Cal) per formulare le proprie proposte su tali accorpamenti, e spronato anche da Napolitano che l'11 ottobre aveva fatto un appello a una "rapida, positiva conclusione del confronto in atto per il completamento del processo di riordino delle Province", il 31 ottobre il governo ha tagliato corto a tutte le proteste e le resistenze delle Province interessate dal sommovimento ed è passato alla fase operativa con un decreto legge che fissa definitivamente a 35 le Province da sopprimere nelle regioni a statuto ordinario. Dalle attuali 86 scenderanno dunque a 51, comprese le 10 città metropolitane che sono Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Reggio Calabria. Per le regioni a statuto speciale si procederà in seguito con un provvedimento a parte.
Tra le Province che non hanno i requisiti minimi per sopravvivere si salvano solo quelle di Sondrio e Belluno, perché riconosciute territori interamente montani. Anche quella di Arezzo rimane, perché con l'ultimo censimento avrebbe superato di poco i 350 mila abitanti. Tutte le altre devono accorparsi, cosicché per esempio in Toscana, tolte Arezzo e Firenze, che diventerà città metropolitana, forse incorporando Prato e Pistoia, Grosseto dovrà fondersi con Siena, così come dovranno fare tra loro Livorno, Massa Carrara, Lucca e Pisa. Si tratterà poi di decidere quale città ne diventerà il capoluogo: la legge stabilisce che lo diventi la città più popolosa (e non l'ex capoluogo della provincia più popolosa), e già questo darà luogo a molti contenziosi. Come se non bastasse è possibile però derogare da questa regola se i comuni interessati si accordano, anche a maggioranza, per una soluzione diversa. Facile immaginare le infinite diatribe che ne nasceranno.
Problemi del tutto analoghi si riprodurranno in tutte le altre regioni a statuto ordinario. Per alcune di queste, come Umbria, Molise e Basilicata, che da due dovranno passare a una sola Provincia ciascuna, oltre al problema di decidere quale delle due accetterà di sacrificarsi, si avrà addirittura il paradosso che il territorio amministrato dalla nuova Provincia coinciderà con quello della Regione.
I tempi fissati dal governo per portare a compimento questa operazione, che il ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi ha definito "una riforma storica, la prima dall'epoca napoleonica", sono rigidamente fissati: dal 1° gennaio 2013 saranno azzerate tutte le giunte provinciali, e il presidente potrà nominare solo tre consiglieri per gestire la fase di transizione e il disbrigo di compiti come i bilanci, la ricognizione del patrimonio immobiliare ecc. Subito entra in vigore il divieto di cumulare emolumenti provinciali e comunali. In caso di resistenze o inadempienze da parte dei decaduti organi elettivi, il governo ha la facoltà di nominare un commissario con poteri sostitutivi.
Nel novembre 2013 saranno effettuate le elezioni per tutte le nuove Province, sia quelle sopravvissute che quelle accorpate, anche quelle che sarebbero scadute nel 2015 o 2016. E saranno elezioni di secondo livello, vale a dire che i consiglieri non saranno eletti direttamente dai cittadini ma dai Consigli comunali della provincia. Infine, al 1° gennaio 2014, è fissata l'entrata in vigore definitiva del nuovo assetto istituzionale.

Le critiche delle Province sulla "riforma"
Questo calendario va incontro però a forti ostacoli per le proteste e le resistenze di molte delle Province destinate a essere soppresse e a fondersi. Pur dicendosi infatti d'accordo in linea di principio col provvedimento, l'Unione delle Province italiane (Upi) ha sollevato forti critiche sul suo contenuto e sulla sua articolazione. Essa stima risparmi per 500 milioni a regime dalla riduzione delle strutture politiche e delle relative sedi, più altri 1.500 milioni circa dalla conseguente riorganizzazione e concentrazione degli uffici dello Stato, una trentina in tutto: questure, commissariati, caserme dei vigili del fuoco, capitanerie di porto, motorizzazione, protezione civile, sovrintendenze ai beni culturali, provveditorati alle opere pubbliche, uffici scolastici, presidi al controllo del territorio, agenzie delle entrate, demanio e prefetture (queste ultime verrebbero dimezzate). Ma si dice preoccupata per l'occupazione di 56 mila dipendenti, di cui 10 mila solo nei Centri provinciali per l'impiego.
Le Province perderebbero infatti importanti funzioni, come i Centri per l'impiego, la gestione del ciclo dei rifiuti, la tutela delle acque e soprattutto la pianificazione della rete scolastica e dell'edilizia scolastica, mantenendo soltanto pianificazione dei trasporti e gestione delle strade, pianificazione territoriale e tutela dell'ambiente. Tutte le altre funzioni e relativi beni, risorse e personale saranno infatti trasferite in capo ai comuni, in misura e con criteri ancora tutti da chiarire.
Nonostante le rassicurazioni della ministra dell'Interno Cancellieri, che "ci saranno solo risparmi, non licenziamenti. Il personale verrà assorbito e ridistribuito nelle nuove entità territoriali accorpate", il decreto governativo non garantisce affatto il mantenimento dei posti di lavoro. È previsto soltanto un esame congiunto tra le amministrazioni e i sindacati per individuare "criteri e modalità condivisi", ma il decreto stabilisce anche che "le relative dotazioni organiche saranno rideterminate tenendo conto dell'effettivo fabbisogno".
Per questi e per molti altri motivi validi, ma anche meno validi dettati da ragioni di privilegi di casta minacciati e di campanilismi incalliti e anacronistici, le Province sono sul piede di guerra, montano le proteste, riemergono rivalità storiche e fioccano i ricorsi al Tar del Lazio e alla Corte costituzionale.

I costi sociali e politici nascosti alle masse
Ma tutte queste resistenze possono solo cercare di ritardare il processo, non fermarlo, perché su questo provvedimento, e comunque sulla necessità di ridimensionare se non abolire del tutto le Province, c'è un consenso pressoché plebiscitario, sia a livello politico, che dei mass-media e dell'opinione pubblica, sulla quale è stata compiuta una lunga, sistematica e sapiente opera di disinformazione e di raggiro.
Con l'esplosione della questione dei costi esorbitanti della politica e della corruzione dilagante nei partiti e nelle istituzioni, di cui gli ultimi scandali alle Regioni Lazio e Lombardia e gli sperperi emersi in altri Consigli regionali, provinciali e comunali, hanno fornito un ampio panorama, c'era bisogno infatti di dare in pasto all'opinione pubblica qualcosa che potesse sembrare un'inversione di rotta, e questo qualcosa è stato individuato nelle Province, le più facilmente attaccabili come enti praticamente inutili e come le più sprecone tra le istituzioni locali.
Ma quello che nessuno dice, anzi viene nascosto accuratamente alle masse, sono i costi sociali e politici che questa operazione finirà per provocare, a fronte di un presunto alleggerimento dei costi per lo Stato. A parte infatti i tagli delle risorse per circa 1,5 miliardi in due anni già stabiliti dalla Spending Review, di sicuro la cancellazione di più della metà delle attuali Province, e di conseguenza anche delle competenze e dei fondi che esse gestivano, porteranno a un ulteriore taglio e peggioramento dei servizi alle masse. È vero che in teoria tali competenze e risorse dovrebbero passare ai Comuni, ma intanto come e in che misura sarà tutto da vedere, e comunque non c'è da farsi troppe illusioni sul mantenimento futuro dell'attuale livello dei servizi oggi gestiti dalle Province, sapendo quanto i Comuni siano costretti a tagliare e ridurre i servizi già per proprio conto, a causa dei continui tagli ai trasferimenti operati dalle incessanti stangate governative.
Ad esempio, chi si occuperà, e come, dell'edilizia scolastica finora gestita dalle Province, come costruire nuove sedi, gestire accorpamenti e fusioni, assicurare la manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici? E i Centri per il lavoro? Non si sa ancora a chi passeranno le competenze, forse alle Regioni. Le province investivano quasi un miliardo per le politiche del lavoro, occupazione e formazione professionale: queste risorse saranno recuperate veramente? Gli stessi rischi possono essere immaginati anche per quanto riguarda la gestione del ciclo dei rifiuti, del controllo della qualità dell'aria e delle acque, e così via.
Anche gli accorpamenti presentano molti lati oscuri. Le strade, ad esempio: attualmente le Province gestiscono 125 mila km di strade provinciali con un impegno finanziario tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro. Gli accorpamenti garantiranno gli interventi per la loro manutenzione, già attualmente sotto il livello di guardia, oppure con l'aumento della rete da gestire si avrà fatalmente anche un'ulteriore riduzione della capillarità e dell'efficacia degli interventi? E per quanto riguarda la sicurezza e tutela del territorio: l'accorpamento di Vigili del fuoco e Protezione civile nelle nuove macro Province, non diminuirà inevitabilmente la vigilanza e la rapidità di intervento sul territorio? Insomma il sospetto, se non la certezza visto come vanno le cose in Italia, è che una volta cancellati o "accorpati" insieme alle attuali Province, questi servizi vengano persi o ridotti per sempre.

Nel solco del presidenzialismo imperante
Poi c'è l'aspetto politico-istituzionale che è non meno inquietante e che fa di questo provvedimento un vero golpe bianco: a parte il preoccupante aumento delle divisioni e delle rivalità storico-geografiche campanilistiche che esso sta già fomentando, non c'è dubbio infatti che la riduzione del numero delle Province e l'elezione dei Consigli provinciali non da parte dell'elettorato ma da parte dei Comuni produce inevitabilmente anche un restringimento della democrazia e dell'elettoralismo borghesi. Non foss'altro che a causa della riduzione del decentramento amministrativo e del conseguente ulteriore allontanamento delle istituzioni e degli eletti dagli elettori: se per le masse è sicuramente più facile controllare i politici eletti nei Comuni rispetto a quelli eletti nelle Province, altrettanto vale però per le Province attuali rispetto alle macro Province e alle Città metropolitane future.
Senza contare l'aumento dei poteri che questa "riforma" finirà per conferire ai sindaci delle grandi città, che già con l'elezione diretta sono diventati dei veri e propri neopodestà ormai del tutto fuori dal controllo perfino dei loro rispettivi partiti (Renzi docet). Secondo l'Upi ci sarebbero infatti dei vizi di incostituzionalità anche per le Città metropolitane, in quanto i loro sindaci finirebbero per avere dei poteri molto superiori a quelli degli altri comuni, visto che assommerebbero di fatto i poteri di sindaco e presidente di Provincia.
Si tratta dunque di una "riforma" che si inserisce pienamente nel solco del presidenzialismo ormai imperante a tutti i livelli istituzionali, ed è grave e pericoloso che a cavalcarla in testa sia la "sinistra" borghese. E non solo il PD liberale e presidenzialista di Bersani, D'Alema, Veltroni e compari, che per bocca del suo responsabile Enti Locali, Davide Zoggia, considera il taglio delle Province solo "un primo passo verso una più organica riforma dello Stato" e incita il governo "ad andare avanti senza distinzioni, certo del nostro sostegno"; ma anche, più o meno consapevolmente, certi settori democratici e certi quotidiani che si vantano di difendere la Costituzione del '48 e le libertà democratico-borghesi contro le tendenze autoritarie e presidenzialiste. Un vergognoso silenzio è calato sul fatto che è stata sconvolta una parte dell'ordinamento istituzionale della prima Repubblica.
 
 
7 novembre 2012