30 anni fa la Cia pilotò Pinochet per abbattere il governo socialdemocratico di Allende
La lezione del golpe fascista cileno

Il trentesimo anniversario del golpe fascista in Cile è stato ricordato dalla stampa borghese e dai quotidiani dei falsi comunisti "Liberazione" e "il manifesto", che gli hanno dedicato degli inserti speciali. Pagine e pagine di analisi e commenti che in definitiva ripropongono le stesse tesi ingannatorie del settembre 1973 e nascondono ad arte la vera lezione del golpe fascista cileno. Noi marxisti-leninisti italiani, invece, ribadiamo oggi la giusta e chiarificatrice posizione che prese l'allora Direzione centrale dell'Organizzazione comunista bolscevica italiana marxista-leninista, oggi PMLI, non tanto perché esiste oggi in qualche paese nel mondo anche solo un partito socialdemocratico al governo impegnato in un progetto di "via nazionale e pacifica al socialismo", quanto per gli insegnamenti storici sempre validi di quell'esperienza che abbiamo recepito nella nostra intransigente lotta al parlamentarismo borghese e per la conquista del potere politico da parte del proletariato. Insegnamenti che ci auguriamo siano compresi dai sinceri rivoluzionari e comunisti che ancora militano e sono turlupinati da quei partiti, come il PRC, PdCI e DS, diretti da falsi comunisti e rinnegati.

Come si arrivò al golpe in Cile
L'11 settembre 1973 la reazione cilena, sostenuta dalla DC di Frei e istigata e manovrata dall'imperialismo americano attraverso la lunga mano della Cia, scatenò le Forze armate capeggiate fra gli altri dal generale Pinochet, per compiere un sanguinoso colpo di stato fascista che destituì il legittimo governo di Allende, assassinò lo stesso presidente (poco importa se secondo alcune ricostruzioni Allende sarebbe stato costretto al sucidio alla Moneda), bombardò e mitragliò il palazzo presidenziale e altri edifici pubblici, occupò militarmente le sedi dei partiti e dei sindacati democratici, rastrellò i dirigenti delle forze democratiche e antifasciste, instaurò un rigido coprifuoco e revocò tutte le libertà costituzionali e democratico-borghesi. Migliaia di operai e di studenti che erano scesi spontaneamente in piazza per manifestare la loro opposizione a questo colpo di stato furono massacrati dall'esercito. Altre migliaia di oppositori imprigionati nello stadio nazionale di Santiago, furono successivamente sterminati.
Un'aperta dittatura fascista era stata instaurata.
In Cile, la ventennale lotta condotta dal proletariato e dalle masse contro i governi reazionari di Alessandri e di Frei e contro lo spietato saccheggio economico perpetrato dalle imprese monopolistiche nordamericane, aveva creato, fra il 1970 e il 1971, le condizioni per la salita al seggio presidenziale di Allende e per la formazione del governo di Unità Popolare. Un governo che per i suoi obiettivi programmatici e per la strenua lotta condotta contro la dominazione della borghesia monopolistica cilena e dell'imperialismo Usa, rappresentava l'espressione più avanzata, nei limiti della democrazia borghese, della volontà delle masse popolari e di alcuni gruppi della borghesia di sbarazzarsi dell'ingerenza e del controllo che i gruppi reazionari interni e stranieri esercitavano sul Cile.
In politica interna il governo nazionalizzò le miniere di rame, ferro e salnitro, le principali banche, i trasporti, sottraendo così agli Usa ciò di cui si era appropriato con la rapina e la complicità della reazione cilena; contenne e rallentò l'inflazione, che sotto i precedenti governi democristiani aveva toccato vette paurose, limitando i privilegi, la speculazione e gli sprechi; si sforzò di assicurare un tenore di vita in qualche modo degno di uomini e non di bestie alle larghe masse e lavoratrici popolari. In politica estera pose il Cile nel vasto campo dei paesi non-allineati, stabilì relazioni diplomatiche con la Cina di Mao e altri paesi socialisti, avviò un'accorta politica di distensione con i vicini paesi dell'America Latina dominati da cricche militariste e reazionarie, accogliendo nel contempo gli esiliati politici, i dirigenti comunisti, rivoluzionari e democratici.
Con tutto ciò, il governo Allende non era affatto e non poteva essere il governo di un paese socialista, come hanno cercato di far credere la borghesia e il revisionismo internazionali. In primo luogo perché proteggeva e propugnava tre tipi di proprietà dei principali mezzi di produzione, privata, statale e mista, tipici di ogni società capitalistica. In secondo luogo perché il potere politico non stava in alcun modo nelle mani della classe operaia e delle masse popolari, ma era saldamente in pugno alla borghesia monopolistica in ogni campo, dall'economia allo Stato, all'informazione, alla cultura. Lo Stato borghese, ossia la macchina burocratica e repressiva mediante la quale la borghesia esercita la dittatura di classe sul proletariato, non era stato distrutto e demolito con la salita al governo di Allende ma solo ritoccato, sfiorato e riformato in aspetti secondari e non essenziali. I rappresentanti riformisti che avevano vinto le elezioni erano al governo ma non al potere, non potevano quindi opporsi alla volontà della classe dominante e infatti subivano impotenti l'iniziativa e i ricatti del grande capitale nazionale e internazionale. è vero che il governo Allende contava su un seguito di massa, e le masse generosamente lo hanno difeso come hanno potuto, fino all'ultimo, ma nulla ha potuto davanti alla forza brutale e alla potenza di fuoco dell'esercito della borghesia. A dimostrazione che anche in Cile il reale potere, il potere politico, stava nei fucili dell'esercito borghese e non nei decreti del governo e a conferma della giustezza dell'insegnamento storico marxista-leninista enunciato da Mao secondo cui "Il potere politico nasce dalla canna del fucile".
Non poggiando sulla dittatura del proletariato e non avendo mobilitato, armato e guidato le masse in una lotta rivoluzionaria per l'abbattimento della borghesia perché aveva deciso di mantenersi su una posizione passiva di difesa, nei limiti impostigli dalla rigida osservanza delle norme costituzionali borghesi, parlamentari, pacifiste e legalitarie, il governo Allende inevitabilmente andò incontro alla sua fine.
Lasciate libere di agire da un governo impotente a contrastarle, le forze della reazione fin dal primo momento scatenarono una massiccia offensiva su tutti i fronti della lotta economica, politica e dell'informazione allo scopo di abbatterlo. Il 15 settembre 1970 alla Casa Bianca il presidente Usa Richard Nixon ordinò al segretario per la sicurezza nazionale Henry Kissinger e al direttore della Cia Richard Helms di "liberare il Cile da quel figlio di puttana". Così il 22 ottobre seguente fu scatenato il terrorismo di Stato: l'organizzazione fascista cilena "Patria e Libertà" assassinò il generale René Schneider, riluttante comandante in capo dell'esercito. Nel dicembre 1971, in risposta alla nazionalizzazione delle miniere di rame in Cile, gli Usa ne fecero crollare il prezzo sul mercato mondiale, costringendo il Cile a lasciare invenduta la principale fonte delle sue entrate. Nel contempo una manovra imperialista di ampie dimensioni chiudeva a livello mondiale i crediti al paese e pretese la restituzione di tutti i prestiti. Fattori sfavorevoli che fecero precipitare il paese in un'inflazione galoppante, creando difficoltà e contrasti fra il governo Allende e gli stessi strati proletari e popolari. Il 9 ottobre 1972 dopo i commercianti iniziò la serrata dei proprietari di camion finanziati dalla Cia che durerà fino al 6 novembre. Sabotaggi, disordini, attentati e delitti politici sono la cornice entro la quale per tre anni si mossero le forze della reazione in preparazione della mossa decisiva, il golpe. In un memorandum segreto dell'ambasciatore Usa in Cile Nathaniel Davis inviato al dipartimento di Stato si legge che l'opposizione pubblica ad Allende sarebbe dovuta diventare "così forte e il malcontento così grande da rendere l'intervento militare desiderato da molti".

Le responsabilità dei revisionisti
Una gravissima responsabilità storica dell'accaduto ricade sul revisionismo moderno che, propagandando la "via nazionale" pacifica e parlamentare al socialismo e seminando illusioni elettorali, portò le masse indifese davanti alla violenza armata dei militari. La cricca dirigente del PC cileno, agendo come quella togliattiana in Italia, nascose al proletariato l'impossibilità, già denunciata da Lenin e dimostrata dalle esperienze storiche, di arrivare al socialismo senza distruggere lo Stato borghese, e lo illudeva che bastasse una riforma pacifica dello Stato, secondo una dottrina di matrice socialdemocratica che lo vede come una macchina fondamentalmente neutrale, indipendente e al di sopra delle classi.
Per dare credibilità alle loro tesi, i revisionisti cileni presentarono alle masse l'esercito, quello stesso esercito armato e addestrato dagli Usa e al servizio della borghesia monopolistica, non come l'arma principale del nemico di classe, il braccio armato della reazione, ma come il più solido pilastro della democrazia e della legalità costituzionale, definendolo come un "raggruppamento dei ceti medi" e i suoi ufficiali come "una parte degli intellettuali e dei tecnici della società cilena".
Come stupirsi se in questo clima le redini delle forze armate vennero affidate al generale Pinochet, artefice del golpe, un boia fascista che si macchierà negli anni successivi dei più efferati crimini contro il popolo cileno, legittimato peraltro nel 1987 anche dal papa nero Wojtyla per aver combattuto risolutamente la cosiddetta "Chiesa dei poveri" che si opponeva alla sua sanguinaria dittatura fascista.
Con i fatti del Cile insomma ancora una volta viene mostrato alla classe operaia internazionale quale mortale pericolo si celi dietro alla funesta strategia revisionista delle "vie nazionali al socialismo". Ancora una volta tragicamente, come già in Indonesia nel 1965 viene smentita nel Cile la dottrina dei rinnegati revisionisti che illude la classe operaia sulla conquista per via pacifica e parlamentare del socialismo. Ancora una volta a pagare le conseguenze dell'opportunismo revisionista sono le masse, con il loro sangue, la tortura e la galera.
Ma neppure questa lezione aprì loro gli occhi. Anzi. Senza vergogna e senza ritegno su "l'Unità" del 13 settembre 1973, due giorni dopo il golpe, un comunicato della Direzione del PCI recitava: "Più che mai i comunisti italiani traggono da questi avvenimenti la riconferma della validità della loro linea di avanzata democratica al socialismo e l'impegno a porre a suo fondamento la sempre più larga partecipazione di massa e il più largo schieramento sociale e politico. Questa linea ha sempre stabilito il nesso più stretto tra trasformazione sociale e riforma dello Stato, il che comporta la democratizzazione degli apparati burocratici e militari". Insomma per il vertice revisionista del PCI in Cile la reazione si sarebbe avvantaggiata nell'attuare il golpe dalla mancanza di unità fra PC e DC, tacendo che la DC cilena era stata l'artefice del colpo di Stato e che nel pieno dei massacri e degli eccidi compiuti dai militari fascisti, la DC emise un infame comunicato nel quale esaltava i golpisti come salvatori della patria e invitava le masse a collaborare con loro.

Un "compromesso storico" controrivoluzionario
Su tre numeri del settimanale del PCI "Rinascita" di settembre e ottobre Enrico Berlinguer coglie a pretesto la tragedia cilena per un'ulteriore sterzata a destra della politica revisionista. Per evitare alla "via italiana al socialismo" l'epilogo cileno chiama senza vergogna il proletariato all'aperta collaborazione con la DC, il partito dei suoi aguzzini, oppressori e sfruttatori, in nome della realizzazione del cosiddetto "compromesso storico" fra proletariato e borghesia. "La contrapposizione e l'urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo - scriveva Berlinguer - e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono ad una spaccatura, a una vera e propria scissione in due del Paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico. Di ciò consapevoli noi abbiamo sempre pensato - e oggi l'esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione - che la unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco dei partiti che si situano dal centro fino all'estrema destra (...) Sarebbe del tutto illusorio - continuava Berlinguer - pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51% dei voti e della rappresentanza parlamentare questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l'opera di un governo che fosse l'espressione di tale 51%. Ecco perché noi parliamo non di una `alternativa di sinistra' ma di una `alternativa democratica' e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di un'intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre con formazioni di altro orientamento democratico".
Insomma dopo aver contrapposto alla rivoluzione socialista la conquista parlamentare del 51%, il vertice revisionista del PCI liquidava definitivamente ogni ipotesi di conquista del socialismo e si riduceva a mendicare un posto al governo insieme alla DC ricattando le masse popolari: o accettate di collaborare, di "intendervi" con il capitale monopolistico e vi piegate ai suoi voleri, o sarete anche voi, come le masse cilene, sottomesse con la violenza reazionaria.
Nel nostro Paese il colpo di Stato fascista non è stato attuato, anche se si è andati più volte a un passo, perché la borghesia ha raggiunto gli stessi obiettivi prima con lo stragismo, poi con la P2 di Gelli, Craxi e Berlusconi e quindi attraverso l'instaurazione di un regime neofascista a cui hanno contribuito sia la destra sia la "sinistra" borghese.