Dalla dittatura del nuovo Mussolini alla dittatura della grande finanza
Governo Monti per far pagare alle masse la crisi del capitalismo
Berlusconi costretto alle dimissioni. Decisivo il ruolo di Napolitano che ha inaugurato, di fatto, la repubblica presidenziale perseguita dal neoduce
Solo il socialismo può salvare l'Italia

Sabato 12 novembre, tallonato in tutti i suoi spostamenti da una folla irridente ed esultante per la sua caduta, Silvio Berlusconi è salito al Quirinale per rassegnare le sue dimissioni nelle mani del capo dello Stato. L'indomani mattina Napolitano ha subito aperto le consultazioni con i leader dei partiti politici e dei gruppi parlamentari e la sera stessa ha annunciato di aver conferito l'incarico di formare il nuovo governo al tecnocrate presidente dell'Università Bocconi, Mario Monti. Mentre scriviamo il presidente del Consiglio incaricato sta ultimando a sua volta le consultazioni e sta per annunciare la formazione del suo governo.
Un governo che viene definito "tecnico", ma che in realtà è un governo del presidente, perché sponsorizzato e imposto da Napolitano con una sapiente regia della crisi, e un governo della grande finanza internazionale e della UE (Unione europea), dato il passato di Monti come grande finanziere della potente banca Goldman-Sachs, la sua appartenenza ai circoli politico-finanziari supersegreti Trilateral e Bilderberg, la sua lunga carriera di commissario della UE alla concorrenza, nonché la direzione di quel tempio dell'economia e della finanza capitalista italiana che è l'Università Bocconi di Milano.
Un governo che, data anche la sua composizione infarcita di economisti, manager e dirigenti istituzionali, nasce con il preciso compito di applicare implacabilmente e libero da scrupoli elettoralistici le ricette liberiste di massacro sociale della UE per far pagare la crisi del capitalismo ai lavoratori e alle masse popolari. Anche se per ora non ha svelato fino in fondo il suo programma, si sa che nella sua agenda ci sono infatti l'abolizione delle pensioni di anzianità, ulteriori tagli alla sanità e all'assistenza, una nuova ondata di liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi pubblici, il pareggio di bilancio a spese dell'occupazione e dei diritti dei lavoratori del pubblico impiego e una maggiore "flessibilità" nell'uso della mano d'opera, che se anche non si avvarrà direttamente delle misure fasciste dell'ex ministro Sacconi per i licenziamenti facili e l'abolizione della contrattazione collettiva, cercherà comunque di aprire altre brecce nella fortezza già indebolita dei diritti e delle conquiste dei lavoratori.
Napolitano è il grande regista dell'operazione, colui che ha pilotato questa crisi interamente al di fuori del parlamento e andando molto al di là delle prerogative assegnategli dalla Costituzione, esercitando di fatto un ruolo da presidente di una repubblica non parlamentare bensì presidenziale. E in questo senso egli ha inaugurato la repubblica presidenziale perseguita dal neoduce e pianificata dalla P2 di Gelli, Craxi e dello stesso Berlusconi. Basta guardare il piglio presidenzialista con cui ha stabilito i tempi e i modi della crisi di governo, costringendo la sedicente "opposizione" parlamentare a votare a scatola chiusa la legge di stabilità con il maxiemendamento di Berlusconi e della UE; la tempestiva nomina di Monti a senatore a vita, per conferirgli la necessaria dignità anche politica, e non solo "tecnica", a guidare il nuovo governo; e la procedura ultrarapida che ha imposto alle consultazioni e alla nomina del presidente che aveva già designato a priori. Si aggiunga a tutto ciò il sostegno assiduo ed esplicito che ha ricevuto dalla Merkel, da Sarkozy e perfino da Obama, che lo hanno trattato come il loro vero interlocutore diretto al posto del governo e hanno approvato pubblicamente tutte le sue decisioni.

I mercati accelerano le dimissioni di Berlusconi
A sbloccare la situazione e costringere Berlusconi alle dimissioni non è stata l'"opposizione", né tanto meno il PD, come si è vantato il liberale Bersani, bensì l'improvvisa accelerazione della crisi provocata dall'ennesima drammatica giornata, mercoledì 9 novembre, di crolli borsistici e del valore dei nostri titoli di Stato, con un -3,78% della Borsa di Milano e il differenziale coi titoli tedeschi schizzato quasi a 600 punti, ciò che faceva salire gli interessi da pagare sui BTP a oltre il 7%, con una perdita per lo Stato di 5 miliardi annui in un colpo solo. Ma soprattutto è stato il crollo del 12% delle azioni di tutte le aziende Mediaset, con una perdita secca di 144 milioni di euro, a spaventare il neoduce e a farlo recedere dall'iniziale intenzione di dilazionare il più possibile le preannunciate dimissioni col malcelato intento di tirare a campare fino a Natale, così da rendere impossibile un altro governo e andare per forza alle elezioni anticipate a primavera gestite da lui ancora in sella.
Era chiaro che ogni suo ulteriore rinvio delle dimissioni avrebbe provocato altri disastri e che l'elettorato non gli avrebbe comunque perdonato di aver fatto fallire il Paese. Inoltre non solo i mercati, ma anche gli stessi "poteri forti" che lo avevano messo al potere e sostenuto fin qui, chiedevano a gran voce di "voltare pagina" e di far nascere al più presto un governo di "salvezza nazionale". Come la stessa presidente di Confindustria, Marcegaglia, che ammoniva: "L'Italia è dentro il baratro e occorre subito un governo di emergenza nazionale". Due giorni dopo il "mercoledì nero" erano tutte le associazioni imprenditoriali, le banche e i sindacati collaborazionisti CISL, UIL e UGL, a firmare un documento comune che proclamava "scaduto il tempo dell'attesa" e chiedeva a gran voce un nuovo governo guidato da Monti.
Al nuovo Mussolini non restava dunque che rassegnarsi a gettare la spugna, ma non senza tentare fino all'ultimo di imporre le sue condizioni. Come quella, suggeritagli dalla Lega, di un nuovo governo di "centro-destra" a guida Alfano o Dini, o come quella di affiancare a Monti il fido Gianni Letta come suo garante. È stato anche tentato di rovesciare il tavolo per andare alle elezioni anticipate, come chiedevano a gran voce la Lega e le correnti ex AN e ex PSI del suo partito, mentre le correnti ex DC (esclusi Rotondi e Giovanardi, tra i più accesi oltranzisti), quelle facenti capo ad Alfano, a Pisanu, a Scajola, chiedevano invece in vario modo di non ostacolare la nascita del governo Monti.
Alla fine ha pesato di più la paura di andare alle elezioni e di perderle, e per convincere "i falchi" e tenere insieme il suo partito che minacciava di disgregarsi, il neoduce ha deciso per l'appoggio al governo Monti, ma con una serie di condizioni vincolanti: il suo doveva essere un governo a tempo, qualche mese al massimo, il tempo strettamente necessario a superare la crisi per poi andare alle elezioni con questa legge elettorale, e nessun suo membro si sarebbe dovuto candidare. Il suo programma doveva limitarsi strettamente alle misure contenute nella lettera di Berlusconi approvata dalla UE, che escludeva la patrimoniale e conteneva l'abolizione dell'articolo 18 con i licenziamenti facili di Sacconi.
Altre condizioni le ha poste riservatamente a Monti in un pranzo con lui a Palazzo Chigi, come un salvacondotto per sé e garanzie per le sue aziende, l'impegno a non occuparsi del conflitto d'interessi, della legge sulle comunicazioni e delle sue altre leggi ad personam, e così via. Non si sa che cosa Monti gli abbia promesso in cambio del suo appoggio, si sa però che si è tenuto le mani libere per quanto riguarda la durata del suo governo e che nelle linee già annunciate del suo programma non c'è niente che riguardi il conflitto di interessi e le leggi a favore del neoduce. È con queste rassicurazioni che Berlusconi è riuscito comunque a convincere i suoi a dire sì al governo Monti, rinfrancandoli anche con l'argomento decisivo che "noi abbiamo ancora la maggioranza in Senato e possiamo staccargli la spina quando vogliamo".

L'appoggio condizionato del neoduce a Monti
La linea del nuovo Mussolini è quindi quella dell'appoggio condizionato al governo Monti, sorvegliando che non esca dai binari stabiliti dalla "lettera d'intenti", lasciando che sia lui a fare il lavoro sporco di stangare le masse, logorando il PD e raccogliendone i frutti elettorali quando sarà il momento. Pronto a staccare la spina in ogni momento se le cose dovessero prendere una piega sgradita a lui e ai suoi gerarchi. A rimarcare questa linea, pur avendo già dato le dimissioni, egli ha voluto fare un ultimo atto mussoliniano, presentandosi in tv ancora nelle vesti di premier in una ripetizione sfacciata della sua "discesa in campo" del '94, in cui ha annunciato il sì al governo Monti ma al tempo stesso ha anche proclamato che non si fermerà finché non avrà realizzato interamente il programma piduista di "cambiare l'Italia" come annunciò allora. Non c'è quindi da niente da festeggiare e da farsi molte illusioni che le sue dimissioni significhino che sia "finito" e che abbia rinunciato per sempre al suo disegno mussoliniano.
Il prezzo da pagare per il sì del PDL a Monti è stato però la rottura con la Lega, che invece ha deciso di smarcarsi dalla "grande coalizione" e restare all'opposizione per "rifarsi una verginità" presso il suo elettorato, tanto che ha cominciato subito riesumando il "parlamento padano" secessionista. Il suo obiettivo è quello di recuperare il calo dei consensi e tenersi le mani libere anche per presentarsi eventualmente da sola alle elezioni per lucrare sui voti in uscita di un PDL considerato ormai in declino.
Il PD di Bersani appoggia convintamente il governo Monti e il suo programma di "sacrifici", sulla base di una generica richiesta che siano "equi", ma al suo interno è tutt'altro che monolitico, diviso com'è tra una linea disposta a seguire Monti senza condizioni, come l'ala veltroniana, e un'altra che tiene più conto degli umori della base e della CGIL contraria a tagliare le pensioni e rivedere l'articolo 18 e favorevole ad una tassa patrimoniale. In mezzo c'è il vertice bersaniano che cerca di mediare e di barcamenarsi nell'arduo tentativo di appoggiare il nuovo governo senza pagarne troppo le conseguenze in termini elettorali.
Anche l'IDV di Di Pietro, dopo un'iniziale diniego, ha finito poi per concedere un'apertura di credito a Monti, sia pure non a scatola chiusa come il PD. Anche Vendola si è dichiarato disposto ad appoggiare il nuovo governo, se sarà di durata breve e se metterà una forte patrimoniale e taglierà le spese militari. E perfino Susanna Camusso, che inizialmente aveva respinto la prospettiva di un nuovo governo tecnico e chiesto di andare subito alle elezioni, tanto da non firmare l'appello delle associazioni imprenditoriali e bancarie e dei sindacati collaborazionisti, si è poi ricreduta aprendo anche lei al governo Monti pur mettendo paletti sulle pensioni, sull'articolo 18 e la patrimoniale.

Sostegno senza precedenti al governo dei sacrifici
Il governo Monti gode quindi di un consenso politico senza precedenti, che va dalla grande finanza internazionale, Unione europea, BCE e l'intera borghesia finanziaria e imprenditoriale nazionale, fino alla stragrande maggioranza dei partiti della destra e della "sinistra" borghese e dei sindacati. Un consenso che userà per misure di lacrime e sangue altrettanto senza precedenti, malgrado lui preferisca il termine di sacrifici, per far uscire il capitalismo italiano dalla crisi, tutte a carico dei lavoratori e delle masse popolari, solo "temperate" con qualche inoffensiva misura demagogica di facciata contro i privilegi della cosiddetta "casta" dei politici e delle classi più abbienti.
Il massacro sociale resta massacro sociale anche se a farlo non sarà più direttamente il nuovo Mussolini ma in sua vece il tecnocrate e finanziere borghese Monti. Perciò a questo governo non va concessa nessuna tregua di classe. Come ha indicato il compagno Giovanni Scuderi nel suo discorso alla commemorazione del 35° della scomparsa di Mao, la crisi del capitalismo la devono pagare esclusivamente chi ha i soldi per pagarla, i finanzieri, i padroni e i ricchi, cioè il 10% degli italiani che possiedono la metà dell'intera ricchezza del Paese. La "coesione nazionale" e il "patto sociale" tra oppressi e oppressori, tra sfruttati e sfruttatori e tra governanti borghesi e governati servono solo a rafforzare il capitalismo, le sue istituzioni e i suoi governi e frenare la lotta di classe.
Solo il socialismo può salvare l'Italia dalla crisi in cui l'hanno precipitata l'insaziabilità e le contraddizioni insanabili del marcio sistema capitalista.

16 novembre 2011