Il governo Letta-Berlusconi nomina commissario Enrico Bondi, l'amministratore delegato braccio destro dei Riva
lI siderurgico di Taranto va nazionalizzato subito
Gli 8,1 miliardi sequestrati dalla magistratura ai Riva siano immediatamente destinati agli investimenti e alla bonifica

La bufera politico-giudiziaria che dal luglio 2012 si è abbattuta sull'Ilva di Taranto si arricchisce di nuovi e inquietanti risvolti sia a livello politico che investigativo.
Il 24 maggio scorso il Giudice per le indagini preliminari (Gip) Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta del pool di inquirenti composto dal procuratore Franco Sebastio, dall'aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile e Remo Epifani, ha deciso un sequestro record di 8 miliardi e 100 milioni su beni, conti e quote societarie di Riva Fire spa in ottemperanza a quanto previsto dalla legge 231/01 che sancisce la responsabilità giuridica delle imprese per i reati commessi dai propri dirigenti.

Beni sequestrati
Il sequestro non riguarda gli impianti o i prodotti, come già avvenuto nel luglio scorso, ma le ingenti somme di denaro che nel corso degli anni i padroni Riva hanno accumulato succhiando il sangue degli operai e speculando sulla pelle della popolazione. Negli anni hanno trasformato il più grosso centro siderurgico europeo in una autentica bomba ecologica e sociale che ora rischia di lasciare sul selciato altre migliaia di morti e oltre 24 mila lavoratori disoccupati senza contare l'indotto.
Nel registro degli indagati accusati a vario titolo per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e altri capi di imputazione sono finiti in tutto 16 persone, molte già indagate o ammanettate nei mesi scorsi, fra cui figurano: Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l'ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D'Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo.

Omissioni criminali
Nelle 46 pagine del decreto di sequestro i giudici descrivono una raccapricciante e criminale omissione di qualsiasi misura di prevenzione e salvaguardia della salute e dell'incolumità dei lavoratori, della popolazione e dell'ambiente e indicano tra i massimi responsabili di questo disastro i vertici politici, istituzionali e aziendali colpevoli di non aver mai attuato un piano di misure di prevenzione degli "incidenti rilevanti".
Grazie a questa criminale omissione la società Riva Fire, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, ha ottenuto negli anni un notevole vantaggio economico attraverso quella che i magistrati definiscono "una consapevole omissione degli interventi per la protezione e salvaguardia dell'incolumità dell'ambiente, degli operai e dei cittadini di Taranto".
Tutti gli imputati "Operavano e non impedivano con continuità e piena consapevolezza una massima attività di sversamento nell'aria-ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne dello stabilimento, nonché rurali e urbane circostanti lo stesso... un programma criminoso idoneo ad assicurare allo stabilimento Ilva di Taranto il conseguimento dei profitti derivati dalla prosecuzione tout court dell'attività produttiva nella piena consapevolezza della pericolosità ed anzi della concreta devastazione dell'ambiente e della concreta e gravissima lesione inferta continuativamente alla salute di lavoratori e dei cittadini". Profitto ottenuto anche attraverso "semplice risparmio nei costi di produzione". Da tutto questo è derivato "un complessivo, concreto e assai ingente vantaggio" per le società Ilva spa e la controllante Riva Fire, "consistente nell'ingentissimo risparmio economico delle stesse realizzato attraverso la intenzionale, pervicace omissione nell'esercizio dell'attività produttiva industriale, degli onerosi interventi - misure di sicurezza, prevenzione e protezione dell'ambiente e della pubblica incolumità - che le norme dell'ordinamento, i vari atti di intesa stipulati con gli enti pubblici e i provvedimenti delle autorità competenti imponevano di eseguire". Infine, la mancanza all'Ilva di un "adeguato modello organizzativo e gestionale" della sicurezza, con riferimento anche agli aspetti di tutela ambientale, crea una "situazione critica per la tutela della salute dei lavoratori" e ha rappresentato una "concausa non trascurabile" degli incidenti verificatisi nello stabilimento di Taranto negli ultimi mesi alcuni dei quali costati la vita a tre operai.

Il ricatto dei Riva
Questo nuovo provvedimento della Procura di Taranto, non riguarda l'attività dello stabilimento che è "protetto" dalla legge 231/2012 che ne autorizza comunque l'esercizio anche in condizioni di illegalità. "La ratio del sequestro - ha precisato Sebastio - è quella di bloccare le somme sottratte agli investimenti per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica".
Le legge "salva-Ilva" infatti viene duramente attaccata dal Gip nel provvedimento perché è stata varata "senza esigere garanzie finanziarie a sostegno degli investimenti e senza che sia stato presentato dall'azienda un piano di ripristino ambientale". Allo stato attuale, "non si ha evidenza di alcuna iniziativa intrapresa dalla società al fine di ottemperare alle disposizioni prima impartite dai custodi e poi, in parte, confermate dal Decreto di riesame Aia del 26 ottobre 2012". Provvedimento che "non prevede alcuna pianificazione economico-finanziaria dei predetti interventi. Motivo per cui lo stesso, allo stato attuale, oltre a non risultare congruo in termini temporali (sono previsti tempi estremamente lunghi in considerazione dell'attualissimo problema sanitario-ambientale) non dà alcuna garanzia di realizzazione, non avendo la società, allo stato e per quanto espresso, disponibile una adeguata copertura economica".
A dir poco ricattatoria la reazione dei Riva che lanciano l'ennesima sfida alla magistratura e alla città facendo dimettere l'intero Cda: l'amministratore delegato Bondi, insediatosi ad aprile, il presidente Ferrante ed il consigliere Giuseppe De Iure (tutti uomini fidati della famiglia Riva). Una minaccia in piena regola: "se chiude Taranto, sono a rischio 24mila posti di lavoro diretti che insieme a quelli dell'indotto raggiungerebbero le 40mila unità", di fronte alla quale il governo Letta-Berlusconi in perfetta continuità con Monti e la legge ad Ilvam si è letteralmente calato le brache e il 4 giugno con un decreto legge ha nominato lo stesso Bondi commissario straordinario per 12 mesi - prorogabili a 36 - per attuare i piani di risanamento che la proprietà e lo stesso Bondi si erano già impegnati a realizzare sulla base delle prescrizioni dell'Aia e che invece hanno totalmente disatteso provocando il nuovo intervento della magistratura.

La nostra posizione
Di fronte a tutto ciò, noi riaffermiamo che l'unica strada in grado di salvaguardare insieme e contestualmente salute, ambiente e lavoro è l'immediata nazionalizzazione dell'Ilva e gli 8,1 miliardi sequestrati dalla magistratura ai Riva siano immediatamente destinati agli investimenti e alla bonifica. Solo con la nazionalizzazione dell'Ilva si può e si deve porre sotto il diretto controllo dei lavoratori e della popolazione tarantina l'intero ciclo produttivo affinché siano prioritariamente garantiti e tutelati i diritti e la salute dei lavoratori e di tutti gli abitanti dei quartieri circostanti. Un piano complessivo che tuteli salute, lavoro e ambiente e impedisca la smobilitazione di questo settore strategico per il nostro Paese che non può tornare indietro come ai tempi del vecchio siderurgico Italsider, che certamente non era così inquinante come lo è diventato oggi, ma che comunque non aveva gli standard di sicurezza e tutela ambientale (checché ne dica l'allora privatizzatore Romano Prodi) pretesi oggi giustamente e in modo combattivo dai lavoratori e dalle masse popolari tarantine.

19 giugno 2013