Passa in parlamento un Odg della Casa del fascio con l'aiuto di senatori dell'Unione
Destra e "sinistra" borghese approvano l'interventismo imperialista del governo
Parisi: "La base USA di Vicenza è in linea con la nostra politica estera"

Che fosse una sporca bugia, quella di Prodi secondo cui la concessione della base di Vicenza agli Usa era un "problema urbanistico", che il governo si è limitato a ratificare una decisione del Consiglio comunale e che tutto era già stato deciso a sua insaputa dal governo Berlusconi, era chiaro anche ai sassi, ma ora il governo è stato costretto a gettare la maschera abbandonando anche questa scusa ridicola e ipocrita: il via libera alla nuova base americana al Dal Molin è una decisione "in coerenza con la linea di politica estera e di difesa" del governo italiano. Lo ha ammesso, anzi rivendicato con orgoglio il ministro della guerra Parisi, riferendo la posizione del governo su Vicenza il 30 gennaio alla Camera e il 1° febbraio al Senato.
Conseguenza vergognosa e diretta di questa ammissione è stata una mozione di appoggio della Casa del fascio alla linea filoamericana e guerrafondaia del governo, che la maggioranza ha dovuto respingere per ragioni di decenza, ma inciampando in una beffarda sconfitta grazie ad alcuni senatori della Margherita e dei DS che non hanno votato o hanno votato addirittura coi neofascisti.
Pur rivendicando che quella del governo su Vicenza è stata una precisa scelta politica coerente con la sua linea, Parisi ha ripetuto la solita solfa ipocrita delle "aspettative consolidate" che l'amministrazione americana aveva ricavato dalla "disponibilità manifestata dal precedente governo", anche se ha ammesso che non c'erano "impegni concretamente formalizzati". E allora che cosa imponeva a Prodi di cedere alle pressioni americane? "I rapporti di amicizia con gli Stati Uniti imponevano una risposta", è la spiegazione lapidaria di Parisi, per il quale va da sé che la risposta non poteva che essere positiva. In ogni caso, ha aggiunto il degno successore del fascista guerrafondaio Martino, "di fronte al parere positivo del consiglio comunale non poteva certo essere il governo a dire di no agli Stati Uniti".
Le comunicazioni di Parisi in parlamento, con l'ammissione piena che la concessione del Dal Molin agli Stati Uniti è parte integrante della politica estera e militare del governo, sono suonate anche come un'ammissione ufficiale che questa politica è la continuazione diretta di quella del governo neofascista guidato da Berlusconi. E difatti la Casa del fascio ha preso subito la palla al balzo per far risaltare questo aspetto politico e acuire le contraddizioni in seno alla maggioranza, cambiando la propria mozione con un ordine del giorno proposto dall'ex ministro leghista Calderoli, che semplicemente approvava le comunicazioni del governo.
"La relazione - dichiarava infatti il capogruppo dei senatori di Forza fascisti, Schifani - ci ha convinto perché ha riconosciuto che la scelta del governo di dire sì all'ampliamento è di rango politico, che è coerente con la politica estera di questo governo e in continuità con quello precedente".
Questa mossa, definita "strumentale" dai leader dell'Unione, ma d'altronde in perfetta logica con le posizioni espresse da Parisi, gettava il panico nelle file della maggioranza. I gruppi dell'Ulivo avrebbero volentieri votato l'odg della Casa del fascio, se non fosse stato per il rifiuto della "sinistra radicale" (PRC, PdCI, Verdi), consapevoli che avrebbero perso definitivamente la faccia di fronte alle loro basi elettorali e ai movimenti pacifisti. È prevalsa alla fine la decisione di votare no all'odg della Casa del fascio, e di votare un proprio odg, il cui testo ha richiesto una lunga mediazione tra i gruppi dell'Unione da parte della capogruppo dell'Ulivo, Anna Finocchiaro: in esso si ricorreva infatti alla formula di compromesso della "presa d'atto" anziché dell'approvazione delle comunicazioni del governo.
Nonostante questo accordo, diversi senatori dell'Unione si sono rifiutati di respingere il documento della Casa del fascio, astenendosi o non partecipando al voto, e uno di essi lo ha addirittura votato, tanto che l'odg Calderoli è passato con 152 sì, 146 no e 4 astenuti. Tra questi ultimi i diessini Angius e Brutti. Sei i senatori non votanti della maggioranza: Lamberto Dini, Graziano Mazzarello, Andrea Manzella (un fedelissimo di Napolitano) e i parisiani Bordon, Menzione e Zavoli. Un altro fedelissimo di Parisi, Natale D'Amico, ha invece dichiarato apertamente di votare l'odg Calderloli perché "mai e poi mai potrei votare contro un atto che approva l'operato del mio ministro".
La maggioranza sotto schiaffo, silurata dal suo stesso interno e derisa dall'"opposizione" al grido di "dimissioni, dimissioni", ha finito poi per calarsi ulteriormente le brache accettando, prima di votarla, l'imposizione di cancellare la formula della "presa d'atto" delle comunicazioni del governo con cui si apriva quel suo aborto di mozione che pretenderebbe di conciliare gli "interessi della difesa nazionale" con quelli "altrettanto legittimi delle popolazioni locali".
Come hanno reagito Prodi, Parisi e gli altri leader di governo alla squallida prova offerta dalla maggioranza?
Rovesciandone la colpa sulla "sinistra radicale" e cogliendo l'occasione per una resa dei conti con essa sulla politica estera e in particolare sul decreto di rifinanziamento della missione di guerra in Afghanistan che tra un mese andrà in discussione in parlamento, come ha chiesto anche il rinnegato Napolitano invocando un "chiarimento" interno alla maggioranza di governo: "La misura è colma. Si fa ciò che decide il premier o fuori dal governo", ha tuonato Rutelli, vale a dire uno dei leader di quella Margherita che un giorno sì e l'altro pure minaccia di votare con la Casa del fascio sui Pacs e alle cui file appartengono i senatori che hanno fatto passare la mozione dell'"opposizione".
Prodi ha convocato un vertice della maggioranza per ottenere questo "chiarimento", premettendo però che "non c'è niente su cui trattare". C'è il programma e a quello ci atteniamo. Altrimenti salta tutto". E sul compiacente quotidiano "la Repubblica", ormai diventato il suo megafono personale e quello dell'interventismo guerrafondaio italiano, ha sentenziato che la "linea verso la pace" del suo governo passa obbligatoriamente per il "dialogo con gli alleati" e anche per "il tema delle basi militari".
Ma non ha di che preoccuparsi, il premier democristiano, perché la "sinistra radicale" è prontissima a trovare un accomodamento, pur di non far cadere il governo, come non si stanca di ripetere ogni giorno. Lo ha rassicurato in questo senso anche il trotzkista Bertinotti: "C'è un'esigenza di durata del governo e ci sono tutte le condizioni per poter guadagnare questo percorso. Sono elementi di conflitto che si determinano solo sulla base delle dichiarazioni dell'opposizione", ha minimizzato il cagnolino da guardia della Camera commentando da Montevideo l'"infortunio" in cui il governo è inciampato al Senato.

7 febbraio 2007