Su incarico di Napolitano
Bersani ricerca una maggioranza "certa"
Berlusconi disponibile: "Gli 8 punti del PD simili ai nostri"
Senza il socialismo il cambiamento è una chimera

Il 22 marzo, esaurito il giro di consultazioni con i partiti, Napolitano ha conferito a Pierluigi Bersani l'incarico di verificare le condizioni per la formazione di un governo. Non un mandato pieno, ma un incarico "con riserva", una sorta di "esplorazione" tra le forze politiche al termine della quale, il 28 marzo, il leader PD dovrà tornare al Quirinale con una maggioranza "certa" in tasca, altrimenti la mano passerà di nuovo al capo dello Stato per altre soluzioni; la più accreditata delle quali al Colle è un governo istituzionale, o "governo del presidente", con la partecipazione di PD, PDL-Lega e Scelta civica di Monti.
Con questo incarico "con riserva", condizionato alla dimostrazione di avere "numeri certi", Napolitano vuole evitare cioè che Bersani si possa presentare alle Camere tentando di ottenere la fiducia "al buio", col risultato che se venisse bocciato il ritorno alle urne diventerebbe praticamente obbligato bruciando la soluzione di riserva del governo istituzionale. Inoltre, a norma di Costituzione, a Palazzo Chigi dovrebbe andare il governo sfiduciato di Bersani per gestire gli affari correnti fino alle elezioni, e Napolitano vuole invece che in tale evenienza ci resti ancora Monti, a garanzia degli obblighi internazionali contratti dall'Italia.
Nell'accettare il difficilissimo mandato, Bersani ha confermato di escludere in partenza l'ipotesi di un governo di "larghe intese" con Berlusconi. Forse pensando anche allo studio commissionato dal suo stesso partito da cui emerge che se facesse un accordo con Berlusconi il PD perderebbe di colpo un altro 10%, riducendosi dall'attuale 25% al 15% dei voti validi. Le sue speranze sono rivolte perciò al Movimento 5 Stelle, col quale tentare di ripetere il colpo dell'elezione di Boldrini e Grasso alle presidenze delle Camere per ottenere i 12 voti che gli mancherebbero ancora al Senato. Questo ammesso che avesse già i voti di Scelta civica, il che non è affatto scontato, perché i centristi, come ha ribadito anche di recente Montezemolo, non sarebbero disposti a votare un governo Bersani senza dentro anche il PDL, cosa che Bersani esclude categoricamente.
Col PDL il leader del PD è disposto a trattare solo sui "grandi temi istituzionali", cioè sulle "riforme" da fare durante il suo eventuale premierato prima di tornare a votare, come la nuova legge elettorale, il monocameralismo e il dimezzamento dei parlamentari. Inoltre è disposto a trattare anche sull'elezione di un nuovo presidente della Repubblica che sia "gradito" anche a Berlusconi, e a tale scopo ha ventilato una terna di candidati di area cattolica e "moderata" che potrebbero andare bene anche al neoduce, come Sergio Mattarella, Franco Marini e Pierluigi Castagnetti.
Con la Lega, invece, Bersani è disposto a trattare, sapendo che Maroni non è favorevole a nuove elezioni, dalle quali ha tutto da temere visto il tracollo di voti subito il 25-26 febbraio, e ha bisogno di tempo per consolidare la sua leadership nel partito, dove i bossiani sono ancora forti. Bersani si accontenterebbe dell'uscita dei leghisti dall'aula per abbassare il numero legale, o qualche altro espediente del genere che gli permettesse di spuntare la fiducia. Ma Maroni deve fare i conti anche col suo alleato Berlusconi, che lo ha già minacciato di far cadere le giunte regionali del Nord in cui governano insieme, nel caso gli venisse la tentazione di dare la fiducia a un governo Bersani senza il PDL, o comunque senza il suo permesso.

Aspettando il fallimento di Bersani
Comunque il corteggiato Grillo non mostra affatto di essere disposto a dialogare col leader del PD, e anzi non perde occasione per sparargli addosso insulti e sberleffi. E agli 8 punti programmatici che Bersani ha presentato per ingraziarselo, tra cui nuove leggi contro la corruzione e il conflitto d'interessi, norme per la moralizzazione e la trasparenza della vita pubblica, l'economia verde ecc., ha fatto rispondere dal suo "comunicatore" inviato a Roma, Claudio Messora, che il M5S non gli darà mai i suoi voti, "nemmeno se adotta il nostro programma", e "nemmeno se cammina di notte sui ceci".
In queste condizioni la situazione in cui si trova l'incaricato assomiglia a quella di un rocciatore che si trovi davanti una parete verticale da scalare a mani nude, mentre il precario terrazzino su cui poggia sta per franargli sotto i piedi. Tutti infatti intorno a lui, eccetto i suoi più stretti collaboratori, sperano chi scopertamente e chi facendo finta di sostenerlo, che fallisca la missione per aprire la strada ad un governo delle "larghe intese" con Berlusconi. Lo vuole il nuovo Vittorio Emanuele III, Napolitano, e fin dal responso delle urne, tant'è vero che ha fatto di tutto per strappare il nuovo Mussolini dalle grinfie dei pm stoppando i suoi processi almeno fino alla fine di aprile, mentre ha dato l'incarico a Bersani a malincuore e solo perché rifiutarglielo sarebbe apparso uno sgarbo istituzionale.
Ma lo vogliono anche la maggior parte dei notabili del PD e rispettive consorterie, dai dalemiani ai veltroniani, dai renziani agli ex democristiani: tutti costoro, pur avendo confermato per due volte e all'unanimità in Direzione la fiducia a Bersani e alla sua linea di chiusura al PDL e di apertura al M5S, non aspettano altro che il segretario vada a sbattere nel muro e getti la spugna passando la palla a Napolitano per il governo istituzionale con Berlusconi: "È difficile dar torto a Berlusconi quando dice 'devi parlare con noi'", gli ha buttato lì Renzi, che intanto aspetta la sua nuova occasione e si prepara a tornare in pista per la leadership. E uno dei suoi più stretti sostenitori, il sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio, ha rincarato: "Se il capo dello Stato chiede un governo istituzionale del Presidente, PD e PDL non possono fare i capricci".

E il neoduce è pronto alle "larghe intese"
Insomma, per più di mezzo PD, il tentativo disperato di Bersani è considerato come un "capriccio", una perdita di tempo di fronte alla prospettiva già pronta e inevitabile del governo di "larghe intese" tra PD e PDL. Lo ha capito benissimo il neoduce Berlusconi, che già fiuta aria di vittoria per la prospettiva di rientrare in gioco, grazie a Napolitano e al governo istituzionale, per condizionare ancora la politica nazionale e bloccare indefinitamente i suoi processi, forse addirittura procurarsi un salvacondotto o un'amnistia.
È per questo che alterna sapientemente i toni bellicosi, con richiami alla piazza e ad andare subito al voto, di cui si proclama già il sicuro vincitore, a quelli suadenti da "statista" responsabile e preoccupato unicamente delle sorti del Paese. Cosicché un giorno raduna il suo "popolo" in piazza e minaccia che "la sinistra ha occupato tutte le cariche e se farà lo stesso per il Quirinale noi con i nostri senatori bloccheremo il Senato e quindi il Parlamento e porteremo la protesta in piazza perché questo sarebbe un golpe in Italia". E un altro giorno propone un "governo di concordia nazionale", anche a guida Bersani, o meglio ancora Grasso, "nell'interesse del Paese". Si è spinto perfino a dichiarare che "gli 8 punti proposti da Bersani" non sono dissimili, ma anzi "sovrapponibili ai nostri".
Alzando la posta come un consumato giocatore di poker, per un tale governo chiede metà ministri e Alfano vicepremier, e ovviamente niente conflitto d'interesse, né leggi anticorruzione, tantomeno vuol sentir parlare di ineleggibilità. Al Quirinale, poi, se proprio non vuol rimanere il nuovo Vittorio Emanuele III che gliele dà tutte vinte, deve andarci un uomo a lui gradito, per esempio Amato, Dini, o magari perfino Luciano Violante, che per il neoduce rappresenterebbe una garanzia contro i "magistrati politicizzati".
Da tutta questa situazione non si vede proprio come potrebbe nascere un "governo del cambiamento", come cerca di rivenderlo al Paese sempre più stremato il leader liberale del PD. In ogni caso, qualunque sia l'esito di questa crisi politica, il cambiamento non può venire dall'alto attraverso un nuovo comitato esecutivo della classe dominante borghese, ma solo dalla lotta della classe operaia e delle masse popolari in difesa dei propri diritti e condizioni di vita e di lavoro, cioè dalla lotta contro il capitalismo, per il socialismo. Senza il socialismo il cambiamento resta una chimera, mentre la crisi del capitalismo viene fatta pagata come sempre ai lavoratori e alle masse popolari attraverso la politica dei sacrifici e del massacro sociale.


27 marzo 2013