Fusione Fonsai con Unipol
Indagato Nagel, Ad di Mediobanca
È accusato di aggiotaggio e di ostacolo all'autorità di vigilanza. Si presume un accordo segreto per la "buonuscita" di Ligresti
Guerra di potere nel tempio della finanza italiana

La vicenda giudiziaria che all'inizio di agosto ha visto l'amministratore delegato (ad) di Mediobanca, Alberto Nagel, finire indagato dalla procura di Milano, insieme al finanziere siciliano Ligresti, per irregolarità commesse nella gestione dell'affare Unipol-Fonsai, ha fatto venire a galla la guerra di potere sotterranea che ancora una volta si sta consumando intorno alla potente banca d'affari fondata da Enrico Cuccia, da sempre considerata il tempio del capitalismo italiano.

La vicenda giudiziaria
Il 1° agosto l'ad di Mediobanca è stato convocato e interrogato per diverse ore dal pubblico ministero milanese Luigi Orsi, che lo ha iscritto sul registro degli indagati, in concorso con Ligresti, per i reati di aggiotaggio e ostacolo alle attività di controllo della Consob, l'autorità preposta al controllo sulle Borse. La procura è infatti in possesso dell'originale di una lettera, firmata lo scorso 17 maggio dallo stesso Nagel e dalla figlia di Ligresti, Jonella, in cui Mediobanca si sarebbe impegnata, aggirando uno specifico divieto della Consob, a versare alla famiglia del finanziere di Paternò 45 milioni più tutta una serie di benefit, a titolo di "buonuscita" per non ostacolare la fusione in corso tra la Fondiaria-Sai dei Ligresti, di cui Mediobanca è advisor, e il gruppo assicurativo delle cooperative, Unipol.
La riuscita dell'operazione è vitale per Mediobanca e per la stessa sopravvivenza di Nagel alla guida dell'istituto, per salvare il miliardo e passa di crediti che vanta con le dissestate società di Ligresti, soprattutto la Premafin, che controlla Fonsai, e la Milano assicurazioni. È vitale pure per Unicredit, primo azionista di Mediobanca col 6,76%, esposta pesantemente anch'essa verso Fonsai soprattutto dai tempi della passata gestione Profumo. L'unione Unipol-Fonsai darà vita a un colosso assicurativo che nei "rami danni" coprirà il 30% del mercato nel 75% delle province italiane, e arriverà addirittura al 40% in 22 di esse. In alcuni rami, tra cui la Rc auto, sarà addirittura il primo operatore in Italia, distaccando del doppio il secondo operatore in classifica.
Sul tavolo del pm Orsi c'è anche una segnalazione della Consob sul finanziere francese, socio della stessa Mediobanca, Vincent Bollorè, che considera sospetta l'acquisizione del 5% della Premafin nell'autunno 2010, al tempo dell'accordo poi sfumato con Ligresti per l'ingresso dei francesi di Grouparma in Fonsai. In quell'occasione il finanziere bretone, in concorso con l'ex ad di Unicredit, Alessandro Profumo, avrebbe manipolato il mercato per far salire le azioni Premafin in previsione del suo ingresso nella società di Ligresti.
Inoltre, pochi giorni dopo l'apertura dell'inchiesta di Milano, i pm torinesi Vittorio Nessi e Marco Gianoglio, anche su denuncia del gruppo Amber, aprivano un fascicolo per falso in bilancio e ostacolo agli organi di vigilanza, per i figli di Ligresti, Jonella, Paolo e Giulia, e per una serie di consiglieri di Fonsai, tra cui Vincenzo La Russa, fratello dell'ex ministro fascista alla Difesa, Ignazio, in ordine a 13 operazioni immobiliari sospette e altre irregolarità nelle riserve finanziarie del ramo Rc auto commesse negli anni tra il 2008 e il 2011.

I rapporti tra Mediobanca e Ligresti
Secondo la stessa ricostruzione fatta da Nagel al Consiglio di amministrazione, l'esposizione di Mediobanca verso il gruppo Ligresti risale al 2001-2002, quando l'ex ad di Mediobanca, Maranghi, presta alla Sai di Torino, controllata da Ligresti, i soldi per scalare la Fondiaria di Firenze e costruire il gruppo Fonsai. Sono 330 milioni a Premafin, la finanziaria di Ligresti che controlla la Sai, e altri 400 direttamente alla Sai. Oltre a ciò Mediobanca vantava già un credito di 200 milioni da Fondiaria e deteneva pure l'11%, pari a 156 milioni, della società fiorentina.
Dal 2003 i rapporti tra Mediobanca e Ligresti, che nel frattempo svuota le casse di Fondiaria per le sue speculazioni finanziarie e immobiliari e per le spese folli sue e dei suoi figli, creando le premesse per il dissesto del gruppo, si guastano. Il finanziere di Paternò stringe rapporti con Capitalia del banchiere romano Geronzi, amico di Berlusconi, che poi riuscirà, capeggiando una cordata di berlusconiani, a far fuori Maranghi e diventare egli stesso presidente dell'istituto nel 2007. Fino a scalare da lì la presidenza di Generali (2010), che però durerà solo un anno, costretto a dimettersi nel 2011 dal Cda su impulso di Della Valle e altri soci e anche in conseguenza delle sue torbide vicende giudiziarie.
L'esposizione verso Premafin si azzera nel 2003 su ordine dell'Antitrust, ma già nel 2004 Mediobanca riprende a far credito a Premafin per 70 milioni, nell'ambito di un'operazione da 340 milioni concessi dall'Unicredit di Profumo alla famiglia Ligresti. Ma l'esposizione ritorna a crescere verso la Fonsai, con 5 prestiti subordinati per un totale di 1.050 milioni. Oggi Mediobanca è esposta con l'ex gruppo Ligresti per 1.123 milioni di euro.

Il declino di Mediobanca e il destino di Nagel
Fin qui la ricostruzione della vicenda giudiziaria, che però è solo la punta di un iceberg che nasconde altre e più profonde contraddizioni che scuotono l'istituto di Piazzetta Cuccia. Dall'inizio dell'anno le azioni di Mediobanca hanno dimezzato il loro valore, così come le sue numerose partecipazioni societarie, a cominciare dalle tre più importanti: la Rizzoli-Corriere della Sera (Rcs), di cui possiede il 13,7%, le Assicurazioni Generali (13,5%) e Telco, società che controlla Telecom, in cui la banca detiene l'11,6%, e che a causa della crisi e talvolta anche di travagliate vicende interne, hanno tutte avuto quest'anno risultati disastrosi. Oggi il valore in Borsa di Mediobanca è di 3,2 miliardi, quasi cinque volte meno di quello che aveva nel 2006, quando valeva 14,2 miliardi.
Nell'assemblea dei soci di Mediobanca, anticipata al 5 settembre, Nagel, che ha spiegato la sua vicenda giudiziaria come frutto di una sua "ingenuità" per aver firmato il "papello" dei Ligresti, pur ribadendo che non aveva alcun valore, si è visto comunque rinnovare per il momento la fiducia, in attesa degli esiti dell'inchiesta e grazie soprattutto all'essere riuscito a mandare in porto la fusione Unipol-Fonsai, mettendo così al sicuro l'esposizione di piazzetta Cuccia e di Unicredit verso le società di Ligresti.
I nomi più accreditati tra i nemici di Nagel sono quelli di Cesare Geronzi, che proprio lui aveva contribuito a far cacciare da Generali, Giovanni Perissinotto, anch'egli allontanato dalla direzione di Generali e sostituito con Mario Greco anche con l'accordo di Mediobanca, e il finanziere Matteo Arpe, consigliere di Mediobanca, condannato insieme a Geronzi per il crac Parmalat, strenuo oppositore della fusione Unipol-Fonsai in quanto insieme al socio Meneguzzo intendeva rilevare Fonsai con la cordata perdente Sator-Palladio, appoggiata anche da Perissinotto.
In un'intervista del 7 agosto scorso al vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini, Nagel aveva adombrato che fosse proprio Geronzi, oltre a Bollorè e all'allora ad di Unicredit, Profumo, a coprire i maneggi poco puliti di Ligresti con Fondiaria-Sai e ad ostacolare la sua politica di rinnovamento di Piazzetta Cuccia, soprattutto dopo la messa fuori gioco di Geronzi. A detta di Nagel ci sarebbe un blocco di potere che si oppone al suo tentativo di rinnovare Mediobanca sganciandola dal suo tradizionale ruolo, come lo vollero Cuccia e Maranghi, di stanza di compensazione, di mediazione e di intrecci incrociati tra i poteri forti (il famoso "salotto buono" del capitalismo italiano), per restituirla ad un ruolo di pura banca d'affari soggetta solo alle regole del mercato e con un respiro più internazionale. È anche in questo quadro che gli attribuiscono il proposito di ridurre le partecipazioni di Mediobanca in Generali, Rcs e Telecom. Tutte cose che però mal si conciliano con la vicenda giudiziaria in cui è incappato, e che non sembra affatto derogare dagli intrighi sempre praticati da Mediobanca.
Comunque sia per il momento quei poteri forti a cui egli allude e che siedono anche nel Cda dell'istituto, gli hanno tutti rinnovato la fiducia: tra questi anche la Fininvest di Berlusconi, il finanziere franco-tunisino amico di Berlusconi, Tarak Ben Ammar, la Mediolanum di Ennio Doris, altro sodale storico del cavaliere piduista di Arcore, e perfino lo stesso Bollorè, che Nagel aveva accomunato a Geronzi nell'intervista a Repubblica nel tentativo dei berlusconiani, appoggiato anche da Ligresti, di assumere il controllo di Mediobanca nel 2009-2010. Molto più probabilmente aspettano a farlo fuori solo che si siano calmate le acque, sia sul fronte giudiziario che su quello della fusione Unipol-Fonsai, tuttora in corso di completamento e le cui azioni sono ancora in gran parte da finire di piazzare sul mercato.

La guerra per il potere
Quel che traspare da questa vicenda è che la caduta del governo del neoduce Berlusconi e l'avvento del governo dei "tecnici" guidato da Monti ha modificato la situazione preesistente e ridato nuovo impulso alla guerra perenne per il riassetto degli equilibri interni alle varie famiglie e cordate capitalistiche, e Mediobanca non poteva che rappresentarne il naturale campo di battaglia.
Il ruolo di Mediobanca è sempre stato quello di garantire ai propri soci, attraverso tutta una ragnatela di società strutturate come le scatole cinesi, di partecipazioni incrociate e di patti di sindacato, il controllo delle principali società e aziende nazionali a un pugno di grandi famiglie capitalistiche senza bisogno di rischiare grandi capitali e offrendo loro un paracadute sicuro in caso di fallimento. Così era stato fatto anche con Ligresti, favorendone prima l'ascesa e ora correndo ai ripari per salvare il salvabile, non disdegnando stavolta nemmeno il soccorso provvidenziale delle "cooperative rosse" a cui fa capo Unipol, ansiose evidentemente di entrare anche loro, dopo averci già provato maldestramente nel 2005 con la scalata alla Bnl insieme ai "furbetti del quartierino", nel salotto buono dei poteri forti dove si prendono tutte le decisioni importanti riguardo all'economia e alla finanza nazionali. A questo riguardo l'Unità del 5 agosto commentava compiaciuta: "Le cooperative entrano nel capitale di Mediobanca, del Corriere della Sera, della Pirelli. Se fosse questa la novità del malmesso capitalismo tricolore"?
D'altronde nei mesi scorsi altre operazioni finanziarie e lotte di potere si erano svolte all'ombra di piazzetta Cuccia. Basti pensare alla sostituzione di Giovanni Perissinotto con Mario Greco al vertice di Generali, a cui oltre a Nagel hanno partecipato industriali come Del Vecchio, Pelliccioli e Caltagirone. E alla partita - persa in questo caso - per la conquista di Impregilo, che ha visto prevalere la famiglia Salini sul gruppo Gavio, sponsorizzato da Mediobanca.
Altre guerre in corso sono quella societaria scoppiata nella finanziaria Gpi, la cassaforte di Camfin, che controlla a sua volta il pacchetto di maggioranza della Pirelli, tra la famiglia genovese dei Malacalza e quella milanese dei Tronchetti-Provera; ma anche le grandi manovre intorno a Telecom e alla controllata rete televisiva La7 da tempo messe sul mercato, manovre dietro cui si scorge manco a dirlo anche l'ombra del neoduce Berlusconi. In questa partita prettamente economico-politica, cruciale per il controllo dell'informazione in Italia, un ruolo chiave è giocato naturalmente dal governo, tramite l'ex banchiere Corrado Passera, che ha anche la delega alle telecomunicazioni, e che non pare certo morire dalla voglia di scardinare l'attuale monopolio televisivo berlusconiano ma piuttosto proteggerlo.

"Corriere della Sera" e privatizzazioni
Ma soprattutto, al centro di una guerra sotterranea altrettanto cruciale per il controllo dell'informazione, c'è il gruppo Rcs, di cui Mediobanca detiene il 14,2%, che si trova molto indebitato (700 milioni) e con un patrimonio ridotto di un terzo a causa delle perdite in Spagna. Il suo vertice, con l'appoggio di John Elkann, è stato recentemente azzerato con la nomina di Pietro Scott Jovane al posto di Antonello Pericone. Al gruppo milanese che controlla il Corriere della Sera occorrono 400 milioni di ricapitalizzazione, cosa che suscita diversi appetiti, tra cui quelli di Della Valle, interessato ad aumentare la sua quota attuale del 5,5% e a scardinare, dopo esserne già uscito, il ferreo patto di sindacato che governa il più importante quotidiano della grande borghesia finanziaria e industriale italiana. Lo stesso industriale marchigiano, recentemente entrato in clamorosa polemica con Marchionne e gli Agnelli a proposito del loro manifestato disimpegno dall'Italia, ha confermato le indiscrezioni secondo cui avrebbe addirittura raggiunto ormai il 10% della Rcs. E si sa che gli Agnelli sono tra i più gelosi custodi dell'attuale patto di sindacato che egli vuole appunto scardinare.
E poi c'è la ricca partita delle privatizzazioni messe in cantiere dal governo Monti, in cui Mediobanca vuole entrare e che costituirà sicuramente un altro bollente terreno di scontro tra le diverse cosche capitalistiche per accaparrarsi le spoglie del patrimonio pubblico. Tutto questo mentre invece, sotto la feroce politica di massacro sociale del governo Monti, tocca ai lavoratori e alle masse popolari pagare interamente il prezzo della crisi.

19 settembre 2012