Parlando agli operai dello stabilimento Fiat-Sevel e rivolgendosi anche al governo e alle istituzioni
Ricatto di Marchionne: o accettate le mie regole o niente investimenti
"Se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo". Il nuovo Valletta accetta la richiesta di Landini per un incontro, ma "non possono essere messi in discussione gli accordi presi dalla maggioranza dei sindacati"

Dopo l'"affronto" della sentenza della Corte costituzionale sull'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, che stabilendone l'incostituzionalità ha ripristinato il diritto di rappresentanza in fabbrica anche dei sindacati, come la Fiom, che non firmano gli accordi imposti dall'azienda e dai sindacati collaborazionisti, la risposta ricattatoria di Marchionne non si è fatta molto attendere: "Non vogliamo mettere in discussione gli investimenti già annunciati, ma non possiamo accettare il boicottaggio dei nostri impegni, avallato anche da autorevoli istituzioni. È importante che questo governo proponga qualche soluzione, ci dica quali sono le nuove norme che vanno a rimpiazzare l'articolo 19", ha avvertito infatti l'amministratore delegato della Fiat, parlando il 9 luglio ai lavoratori della Sevel di Atessa (Chieti), lo stabilimento dove si produce il furgone Ducato, per il quale sono in ballo 700 milioni di investimento o il trasferimento della produzione in Turchia o in Messico, e davanti al quale manifestavano gli operai cassintegrati chiedendo di poter tornare a lavorare e denunciando le vere condizioni di lavoro in fabbrica.
Un chiaro ricatto, il suo, affinché il potere politico e le istituzioni intervengano per cancellare al più presto con qualche provvedimento ad hoc le conseguenze della sentenza della Consulta, così da consentirgli di proseguire senza ulteriori intralci nella sua politica di imposizione di relazioni industriali mussoliniane in tutti i suoi stabilimenti, grazie all'emarginazione della Fiom e agli accordi separati con leader sindacali compiacenti e crumiri come Bonanni (Cisl), Angeletti (Uil), Di Maulo (Fismic) e Centrella (Ugl), presenti in prima fila a spellarsi le mani per il suo arrogante discorso.
"Noi abbiamo bisogno di certezze. Ma io non sono disposto a mettere altro capitale a rischio se non so come comportarmi con le altre parti sociali. Fino a ieri sapevo. Ora, dopo la Consulta, non sappiamo più. Negli Stati Uniti le regole sono chiare. Qui non so con chi parlare", ha insistito il nuovo Valletta piazzando un'altra neanche tanto velata minaccia, quella che tra non molto potrebbe materializzarsi con l'acquisto della Chrysler e il (per ora solo ventilato) trasferimento della sede centrale della Fiat da Torino a Detroit, con il suo definitivo ritiro dall'Italia e la chiusura di quasi tutti gli stabilimenti. Già adesso essi sono tutti colpiti dalla cassa integrazione, e degli investimenti promessi in cambio dell'accettazione dei contratti capestro sul modello di Pomigliano non s'è visto neanche l'ombra.
Anzi gli investimenti neanche vengono più promessi, salvo per le poche unità produttive che gli interessano come la Sevel, e comunque sotto ricatto, per giustificare, come si è visto ad Atessa, la richiesta di "norme certe", leggi la cancellazione dei diritti sindacali e costituzionali dei lavoratori e la libertà per lui di sfruttare la mano d'opera a proprio piacimento. Altrimenti li usa solo come scusa per chiudere gli stabilimenti che considera "rami secchi", dandone la colpa alla riottosità della Fiom e alla troppa conflittualità sindacale: "Marchionne ci ha comunicato che, in assenza di norme certe, la Fiat fermerà gli investimenti a Mirafiori e Cassino", ha riferito il crumiro Angeletti, svelando in pratica quale sarà il destino di queste due fabbriche già deciso dal nuovo Valletta. Il quale infatti ha confermato che "per Mirafiori bisogna capire quando saremo pronti a nuovi investimenti. Per l'Alfa vedremo, non è detto che si debba fare in Italia".
Marchionne ha anche rivelato di aver accettato la richiesta di un incontro propostogli per lettera dal segretario nazionale della Fiom Landini, un'"apertura" preparata da un'intervista "autocritica" a la Repubblica del parlamentare di SEL Giorgio Airaudo (ex segretario torinese della Fiom), in cui aveva ammesso "errori" ed "estremismi" sia da parte della Fiat che della Fiom. Marchionne però ha chiarito subito che "siamo più che disponibili a incontrare la Fiom, ma partendo dal dato acquisito che non possono essere messi in discussione gli accordi presi dalla maggioranza (dei sindacati collaborazionisti, ndr). Li incontreremo con la speranza che anche loro riconoscano che in gioco c'è la possibilità di far rinascere il sistema industriale. Il paese ha bisogno di ritrovare la pace sindacale se vogliamo far ripartire lo sviluppo. Dobbiamo tornare a un sano senso del dovere: per avere bisogna anche dare". E per chiarire che cosa Landini dovrebbe dare ha concluso: "Lasciatemi dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati. Se però continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo".
Stando così le cose non si capisce quale sia l'utilità di questo incontro tra Landini e Marchionne. Se non per quest'ultimo, se come temiamo quello di Landini dovesse tradursi nel classico viaggio a Canossa "aprendo" al diktat del nuovo Valletta.
Come auspica per esempio il rinnegato Piero Fassino, neopodestà di Torino, che nel plaudire all'incontro ritenendo "essenziale" il dialogo tra Fiat e Fiom, sostiene che "uno dei motivi delle incomprensioni di questi anni è l'evidente sottovalutazione che in Italia è stata fatta dei successi ottenuti da Marchionne".

17 luglio 2013