144 anni fa, ne "Il Capitale", il cofondatore del socialismo scientifico denunciava che il debito pubblico "imprime il suo marchio all'era capitalistica
Marx: Il debito pubblico ingrassa gli speculatori privati

Vogliamo proporre ai nostri lettori per il nuovo anno questo lungo brano tratto da "Il Capitale" di Marx, apparso 144 anni or sono ma straordinariamente attuale, al punto da sembrar scritto oggi, tanto è calzante nella descrizione dei caratteri salienti della presente grave crisi economica e finanziaria capitalistica e delle sue ripercussioni, da una parte, sui lavoratori e le masse popolari che immiseriscono e perdono diritti, e, dall'altra, sulla ristretta fetta di speculatori finanziari borghesi, che vedono moltiplicare vertiginosamente le loro rendite. Non ci stupiamo che un numero crescente di giovani più avanzati e avveduti tra gli studenti italiani che hanno assediato il parlamento il 14 dicembre 2010 e tra i manifestanti del movimento "Occupy Wall Street" stiano riscoprendo o scoprendo per la prima volta Marx e la sua prodigiosa capacità indagatrice sulle leggi che governano il sistema economico capitalistico e anticipatrice sul destino che lo aspetta.
Per rimanere impressionati dall'analisi di Marx basta leggere questo brano, tratto dal Paragrafo 6. Genesi del capitalista industriale del Capitolo 24°. La cosiddetta accumulazione originaria del Libro I de "Il Capitale". A prima vista il tema del debito pubblico, che affligge il capitalismo putrescente alle prese con la cosiddetta "globalizzazione", potrebbe sembrare lontano anni luce dalla cosiddetta accumulazione originaria, cioè dalla "
preistoria del capitale", quel terribile periodo storico che vide la dissoluzione dell'economia feudale e rappresentò "il punto di partenza del modo di produzione capitalistico", "quando è avvenuto - spiega Marx - che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all'ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare". Eppure non è così perché Marx ci spiega che il debito pubblico non è un'inedita ricetta scacciacrisi, saltata fuori come un coniglio dal cilindro dell'economista borghese Keynes nel Novecento e col New Deal, per scongiurare la grande depressione attraverso politiche di investimenti statali ma la rimasticatura e il riciclaggio di politiche praticate e sperimentate dalla borghesia ai suoi albori. Ci spiega che il debito pubblico è nato con la nascita stessa del capitalismo e ha finito per accompagnarla e favorirla: è stato, in breve, "una delle leve più energiche dell'accumulazione originaria".
Insomma il debito pubblico non è il frutto di politiche sociali dispendiose per i bilanci statali, caricati dagli insostenibili costi del cosiddetto "welfare", ma esattamente il contrario giacché esso è "
il credo del capitale" e "imprime il suo marchio all'era capitalistica".
Grande, impareggiabile Marx e piccoli, tapini gli imbroglioni socialdemocratici e revisionisti, che si nascondono dietro a Keynes e alle sue teorie economiche borghesi del debito pubblico quando devono opporre il riformismo alla rivoluzione e alla lotta di classe, salvo poi colpevolizzare due volte le vittime di queste politiche pretendendo di far pagare solo a loro le conseguenze delle politiche economiche borghesi. Ricordate quando con sicumera Obama rassicurava l'opinione pubblica internazionale che la crisi finanziaria innescata dal crac della banca d'affari Lehman sarebbe stata scongiurata perché il Tesoro americano aveva dollari illimitati per acquistare i fondi-spazzatura delle banche? Che cos'era quella se non dilapidazione dei fondi pubblici e ricorso a un ulteriore esorbitante indebitamento statale per salvare le consorterie della speculazione finanziaria? Ora, che la crisi dagli Usa si è allargata all'Europa e al mondo intero, è arrivato il tempo di pagare il conto e, per raddrizzare i bilanci statali in deficit, per scongiurare la bancarotta (come ha ripetuto minacciosamente Monti in parlamento e nella sua conferenza di fine anno) quegli stessi politici ed economisti borghesi (e Monti ne è un rappresentante di spicco dalla duplice veste) attuano misure di lacrime e sangue ai danni dei lavoratori e delle masse popolari attribuendo loro una colpa che non hanno: aver vissuto al di sopra delle loro reali possibilità.
Grande Marx e spregevoli, meschini i trotzkisti e i falsi comunisti, che se la prendono solo col liberismo e non col capitalismo come sistema economico, qualunque siano le varianti di politica economica che i governi e la borghesia al potere adottano per tentare di governarlo al meglio e per fronteggiare le insanabili contraddizioni che ne minano l'esistenza. Ma per quanto il capitale si affanni a cercare ricette miracolistiche ed elisir di lunga vita, è destinato a soccombere perché lo sviluppo del capitalismo toglie, scrivono Marx ed Engels nel "Manifesto del Partito Comunista", "
di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili".

 
(...)
Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s'impossessò di tutta l'Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l'alienazione dello Stato - dispotico, costituzionale o repubblicano che sia - imprime il suo marchio all'era capitalistica. L'unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è... il loro debito pubblico1. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s'indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell'indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.
Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell'accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall'investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche astrazion fatta dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l'aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.
Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro. Quindi l'accumularsi del debito pubblico non ha misura più infallibile del progressivo salire delle azioni di queste banche, il cui pieno sviluppo risale alla fondazione della Banca d'Inghilterra (1694). La Banca d'Inghilterra cominciò col prestare il suo denaro al governo all'otto per cento; contemporaneamente era autorizzata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando a prestarlo un'altra volta al pubblico in forma di banconote. Con queste banconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci e acquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa moneta di credito fabbricata dalla Banca d'Inghilterra stessa diventasse la moneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per conto dello Stato gli interessi del debito pubblico. Non bastava però che la Banca desse con una mano per aver restituito di più con l'altra, ma, proprio mentre riceveva, rimaneva creditrice perpetua della nazione fino all'ultimo centesimo che aveva dato. A poco a poco essa divenne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centro di gravitazione di tutto il credito commerciale. In Inghilterra, proprio mentre si smetteva di bruciare le streghe, si cominciò a impiccare i falsificatori di banconote. Gli scritti di quell'epoca, per esempio quelli del Bolingbroke, dimostrano che effetto facesse sui contemporanei l'improvviso emergere di quella genìa di bancocrati, finanzieri, rentiers, mediatori, agenti di cambio e lupi di Borsa2.
Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale che spesso nasconde una delle fonti dell'accumulazione originaria di questo o di quel popolo. Così le bassezze del sistema di rapina veneziano sono ancora uno di tali fondamenti arcani della ricchezza di capitali dell'Olanda, alla quale Venezia in decadenza prestò forti somme di denaro. Altrettanto avviene fra l'Olanda e l'Inghilterra. Già all'inizio del secolo XVIII le manifatture olandesi sono superate di molto, e l'Olanda ha cessato di essere la nazione industriale e commerciale dominante. Quindi uno dei suoi affari più importanti diventa, dal 1701 al 1776, quello del prestito di enormi capitali, che vanno in particolare alla sua forte concorrente, l'Inghilterra. Qualcosa di simile si ha oggi fra Inghilterra e Stati Uniti: parecchi capitali che oggi si presentano negli Stati Uniti senza fede di nascita sono sangue di bambini che solo ieri è stato capitalizzato in Inghilterra.
Poiché il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato che debbono coprire i pagamenti annui d'interessi, ecc., il sistema tributario moderno è diventato l'integramento necessario del sistema dei prestiti nazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia un aumento delle imposte in seguito. D'altra parte, l'aumento delle imposte causato dall'accumularsi di debiti contratti l'uno dopo l'altro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico d'imposte non è un incidente, ma anzi è il principio. Questo sistema è stato inaugurato la prima volta in Olanda, e il gran patriota De Witt l'ha quindi celebrato nelle sue Massime come il miglior sistema per render l'operaio sottomesso, frugale, laborioso e... sovraccarico di lavoro. Tuttavia qui l'influsso distruttivo che questo sistema esercita sulla situazione dell'operaio salariato, qui ci interessa meno dell'espropriazione violenta del contadino, dell'artigiano, in breve di tutti gli elementi costitutivi della piccola classe media, che il sistema stesso porta con sè. Su ciò non c'è discussione, neppure fra gli economisti borghesi. E la efficacia espropriatrice del sistema è ancor rafforzata dal sistema protezionistico che è una delle parti integranti di esso.
La grande parte che il debito pubblico e il sistema fiscale ad esso corrispondente hanno nella capitalizzazione della ricchezza e nell'espropriazione delle masse, ha indotto una moltitudine di scrittori, come il Cobbett, il Doubleday e altri a vedervi a torto la causa fondamentale della miseria dei popoli moderni.
Il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno. Gli Stati europei si sono contesi la patente di quest'invenzione e, una volta entrati al servizio dei facitori di plusvalore, non solo hanno a questo scopo imposto taglie al proprio popolo, indirettamente con i dazi protettivi, direttamente con premi sull'esportazione, ecc., ma nei paesi da essi dipendenti hanno estirpato con la forza ogni industria; come per esempio la manifattura laniera irlandese è stata estirpata dall'Inghilterra. Sul continente europeo il processo è stato molto semplificato, sull'esempio del Colbert. Quivi il capitale originario dell'industriale sgorga in parte direttamente dal tesoro dello Stato. "Perché", esclama il Mirabeau, "andar a cercar così lontano la causa dello splendore manifatturiero della Sassonia prima della guerra dei Sette anni? Centottanta milioni di debito pubblico!".
Sistema coloniale, debito pubblico, peso fiscale, protezionismo, guerre commerciali, ecc., tutti questi rampolli del periodo della manifattura in senso proprio crescono come giganti nel periodo d'infanzia della grande industria. (...)


(Da Marx, Il Capitale, Volume Primo, Capitolo XXIV "La cosiddetta accumulazione originaria", pagg. 817-820, Editori Riuniti)

Note
1 - William Cobbett osserva che in Inghilterra tutti gli istituti pubblici vengono designati come "regi", ma che in compenso c'era invece il debito "nazionale" (national debt).
2 - "Se oggi i tartari inondassero l'Europa, sarebbe difficile render loro comprensibile che cosa sia, presso di noi, un finanziere". Montesquieu, Esprit des Lois, vol. IV, p.33, edizione di Londra, 1769


4 gennaio 2012