All'incontro tra il governo e i vertici della Fiat
Monti avalla la strategia liberista e antioperaia di Marchionne
Niente investimenti in Italia fino al 2014. Proteste degli operai davanti a Palazzo Chigi
È ora di nazionalizzare la Fiat senza indennizzi

L'atteso incontro svoltosi il 22 settembre a Palazzo Chigi tra governo e vertice Fiat, presenti il premier Monti, i ministri Passera, Fornero, Barca, il sottosegretario Catricalà e per parte aziendale l'amministratore delegato, Sergio Marchionne e il presidente John Elkann non è andato affatto bene per i lavoratori. Dall'incontro, durato cinque ore, è emersa la conferma del cambio di strategia della Fiat per l'Italia, con tutte le sue conseguenze estremamente negative in termini produttivi e occupazionali non contrastata, dunque avallata dal governo.
Ma andiamo per ordine. Era emerso nei giorni precedenti in modo ufficiale che il fantomatico piano denominato "Fabbrica Italia", annunciato con trombe e tamburi dal nuovo Valletta, Sergio Marchionne, il 21 aprile 2010, che sulla carta prevedeva un investimento di venti miliardi entro il 2014, il lancio di 16 nuovi modelli auto e il raddoppio della produzione da 700.000 a 1.400.000 unità, non c'è più. Forse sarebbe più esatto dire che non c'è mai stato veramente. Si è trattato di un'illusione, di un inganno atroce usato da Marchionne per fare i suoi "porci comodi" nel nostro Paese, per portare avanti la sua strategia, specie dopo l'accordo fatto con la Chrysler, consistente nel ridurre la presenza della Fiat in Italia per espandersi all'estero, soprattutto in quei paesi come Brasile, Argentina, Polonia, Serbia, Cina dove il "costo del lavoro" è assai più basso, le agevolazioni statali abbondanti e la presenza sindacale inesistente o quasi.
Per due anni il Lingotto ha usato vigliaccamente questo piano per ricattare i lavoratori e l'intero Paese (quante volte si è sentito dire a Marchionne, o fate come dico io senza fiatare o porto tutto all'estero), per imporre i suoi diktat a partire dallo smantellamento del contratto nazionale di lavoro sostituito con un altro di comodo a livello aziendale di stampo padronale per aumentare ritmi e orari di lavoro, tagliare le pause, eliminare o spostare a fine turno la pausa mensa insieme a forti limitazioni fasciste alle libertà sindacali, come il diritto di sciopero, l'eliminazione della RSU e l'obbligo per le organizzazioni sindacali di sottoscrivere gli accordi proposti dall'azienda; pena il divieto ad avere la rappresentanza sindacale in azienda come è capitato alla FIOM che questi accordi li ha avversati.
Al di là di generici annunci la Fiat si è sempre rifiutata di svelare i dettagli di "Fabbrica Italia": quanti investimenti, quali nuovi modelli, quando, dove, con quali prospettive occupazionali. Nemmeno ai sindacalisti collaborazionisti di CISL, UIL e UGL che a scatola chiusa hanno firmato accordi capestro, separati, con il dissenso della FIOM. Eppure in tanti ci hanno creduto in campo sindacale e politico. Noi no! Anche perché gli atti compiuti nel periodo in esame sono andati tutti nella direzione opposta: solo cassa integrazione in tutti gli stabilimenti e chiusura di Termini Imerese, dell'Iribus di Avellino e dello stabilimento di Imola.
L'annuncio ufficiale la Fiat lo ha dato con un semplice cinico comunicato dove sta scritto: "Da quando Fabbrica Italia è stata annunciata ... le cose sono profondamente cambiate, il mercato dell'auto in Europa è entrato in una grave crisi e quello italiano è crollato ai livelli degli anni Settanta!". Fiat-Chrysler "è oggi una multinazionale - si legge - e, quindi come ogni azienda in ogni parte del mondo, ha il diritto e il dovere di compiere scelte razionali in piena autonomia".
La Fiat ha fissato la data del 30 ottobre per svelare nel dettaglio il cambio di strategia in Italia. Ma le sue linee portanti sono chiare sin da ora: almeno fino al 2014 non è previsto nessun investimento e nessun lancio di nuovi modelli, a parte la nuova Panda già in produzione, però non a pieno regime, a Pomigliano. Ciò prospetta una forte sottoutilizzazione degli impianti (nel 2011 sono state prodotte 400.000 auto a fronte di un milione e mezzo di qualche anno fa) che renderà necessario un utilizzo massiccio della cassa integrazione e che prepara le condizioni per la chiusura di uno o due stabilimenti. E comporta che gli investimenti della Fiat prenderanno sempre più la via di altri paesi: basti dire che sia in Brasile sia in Cina sono in procinto di partire i lavori per costruzione di due grandi stabilimenti per il montaggio di auto Fiat.
È vera la crisi di sovrapproduzione di auto e il calo delle vendite nel mercato europeo e italiano. Va però detto che la crisi era già in pieno svolgimento quando fu annunciato il piano "Fabbrica Italia" che, tra l'altro doveva servire, fu detto, proprio per affrontarla nel modo migliore; che altri marchi automobilistici, tedeschi in testa, hanno scelto di difendere e magari allargare gli spazi di mercato innovando, producendo nuovi modelli in tutte le gamme. La Fiat invece ha scelto di star ferma, almeno in Europa, con i risultati disastrosi che sono davanti a tutti criticati persino dai pescecani Romiti e Della Valle.
Ora che i buoi sono scappati c'è una richiesta generalizzata al governo dai partiti politici della destra e della "sinistra" borghese e dai sindacati di intervenire. Già il governo, anzi i governi, quello precedente del neoduce Berlusconi e l'attuale del tecnocrate liberista borghese che hanno assecondato e appoggiato l'operato di Marchionne anche con sostanziosi aiuti pubblici senza mai chiedere alcun impegno come contropartita. Un esempio. Al termine di un incontro con Marchionne del marzo scorso Monti ebbe a dire: "Forse darebbe soddisfazione ad un politico vecchia maniera poter dire: ho insistito affinché la Fiat continui a sviluppare gli investimenti in Italia. Ma la Fiat non ha nessun dovere di ricordarsi dell'Italia, e chi gestisce ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti le locazioni più convenienti".
Alla luce di tutto questo, che valore può avere la dichiarazione di Marchionne esternata nella riunione col governo: "la Fiat non lascerà l'Italia"? Nessuna giacché non è supportata da precisi programmi di investimento e produttivi. Né può essere accolta come seria e fondata la tesi sostenuta dal nuovo Valletta: con i guadagni conseguiti all'estero sostengo l'insediamento italiano in attesa che la crisi passi e il mercato riprenda a correre.
Intanto crescono la preoccupazione e l'indignazione tra gli operai del gruppo Fiat. Una delegazione degli operai Iribus era davanti a Palazzo Chigi a protestare mentre si teneva l'incontro. Gli operai della Fiat di Pomigliano (quasi 3 mila devono essere ancora riassunti in base agli accordi sottoscritti) al termine di un'assemblea indetta dalla FIOM hanno formato un vivace corteo spontaneo che si è recato presso il palazzo del Comune ed è sfilato nelle vie cittadine. Davanti alla sede della UIL sono volate delle uova e sono partiti degli slogan con l'accusa: "venduti venduti". Forte la tensione anche tra gli operai degli stabilimenti di Melfi e di Cassino che sentono il pericolo del ridimensionamento se non della chiusura vera e propria.
Quanto meno inadeguata la reazione dei sindacati: chiedono "chiarimenti" a Marchionne, ma lui ha già chiarito con le parole e con i fatti qual è la strategia della Fiat. È tempo di coinvolgere e mobilitare i lavoratori. Le assemblee unitarie proposte dalla FIOM possono essere utili a questo fine. Ma bisogna avere chiaro l'obiettivo da perseguire. L'esproprio e la nazionalizzazione della Fiat dev'essere la rivendicazione, senza indennizzi visto che i contribuenti italiani la Fiat l'hanno già pagata più del dovuto. È questa l'unica soluzione vincente che può permettere, magari attraverso la riconversione industriale del gruppo in tutto o in parte nel settore dei trasporti pubblici su gomma e su rotaia, di rilanciare le produzioni e salvaguardare l'occupazione.

26 settembre 2012