Nessuna illusione su Obama
Il nuovo presidente Usa cambia tattica nel tentativo di mantenere l'egemonia dell'imperialismo americano nel mondo

Il 20 gennaio, come previsto da un copione che si recita invariato da duecento anni e passa, il boia Bush ha sloggiato dalla Casa Bianca e il nuovo inquilino, Barack Obama, gli è subentrato prestando solenne giuramento sulla bibbia sulla spianata davanti al parlamento di Washington. Mai però nella storia degli Usa la cerimonia di insediamento di un presidente aveva visto una così grande partecipazione di pubblico e una così enorme risonanza sia all'interno che all'estero. Un record sottolineato dai due milioni di persone presenti alla cerimonia, dai tre giorni di festeggiamenti nella capitale con la presenza delle più grandi star della canzone e del cinema, dalla diretta televisiva praticamente in mondovisione, nonché dai cento milioni di dollari spesi per mettere in piedi l'intero megaspettacolo.
Passata però questa sbornia mediatica così sapientemente orchestrata e senza badare a spese, occorre domandarsi se le aspettative, le speranze e i "sogni" che il 44° presidente degli Usa ha suscitato in patria e all'estero siano in qualche modo giustificati. O non facciano piuttosto parte di una nuova grande illusione a cui l'imperialismo americano ricorre, come altre volte nel passato, quando si trova in difficoltà e ha bisogno di riacquistare consenso e sostegno in campo interno e internazionale. Un'illusione che è particolarmente forte anche in Europa e nel nostro Paese, da sempre sostenuta entusiasticamente dalla "sinistra" borghese e ormai anche dalla destra, in un coro unanime di osanna al nuovo capofila dell'imperialismo mondiale. Ma non c'è dubbio che Obama è soprattutto un idolo del "centro-sinistra", allargato nella fattispecie ai dirigenti trotzkisti di Rifondazione e de "Il Manifesto" e ai dirigenti revisionisti del PdCI, e che il PD lo considera il leader mondiale dei riformisti, come e più di quanto era avvenuto con Clinton e con Blair.
Eppure basta scorrere il testo del discorso di insediamento di Obama per constatare che non c'è nulla di sostanzialmente cambiato rispetto ai suoi predecessori, Bush compreso. Stessi sono i principi ispiratori di fondo, stessi gli obiettivi e perfino molti degli uomini del suo staff. Cambiano solo i metodi e la tattica, e più che altro le parole e le formule retoriche con cui tali obiettivi vengono ammantati. Ma i riformisti, i trotzkisti e i revisionisti nostrani preferiscono fingere di non accorgersene e fare da cassa di risonanza alla retorica di Obama, tanto sono ormai rimbambiti e incantati dal falso mito della "democrazia più grande del mondo" e imbevuti della presunta "superiorità" del sistema bipartitico americano, che si alimenta di differenze formali quanto di convergenze sostanziali.

Una "nazione sempre in guerra"
Non per nulla Obama ha iniziato il suo discorso esattamente nello stile di Bush (che tra l'altro ha ringraziato e lodato pubblicamente), dichiarando che "la nostra nazione è in guerra contro una rete di violenza e di odio che arriva lontano", come a sottolineare che non ci saranno svolte radicali nella "guerra al terrorismo globale" decretata dalla precedente amministrazione, e mettendo subito in chiaro che il suo obiettivo di fondo, come quello di tutti i suoi predecessori, è di "riaffermare la grandezza della nostra nazione". "Rimaniamo la nazione più prospera e più potente della terra", ha ribadito infatti con orgoglio il neo presidente, pur costretto ad ammettere che "la nostra economia si è fortemente indebolita, conseguenza della grettezza e dell'irresponsabilità di alcuni".
Per Obama, cioè, la colpa della crisi è di pochi individui avidi, ma l'economia di mercato e il sistema capitalistico non si discutono, inquantoché "la questione di fronte a noi non è se il mercato sia una forza del bene o del male. Il suo potere di generare benessere ed espandere la libertà è rimasto intatto". Si tratta solo di inserire dei correttivi perché "senza un occhio rigoroso il mercato può andare fuori controllo". Allo stesso modo non è in discussione il ruolo egemonico dell'imperialismo Usa nel mondo, ma si tratta solo di sostituire all'approccio unilaterale e rozzo di Bush nella guerra ai "nemici dell'America" un approccio più diplomatico e multilaterale, ma sempre con l'obiettivo di mantenere saldamente in pugno l'egemonia mondiale: "Ricordiamoci che le precedenti generazioni hanno sgominato il fascismo e il comunismo non solo con i missili e i carri armati, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci", ha ammonito infatti il nuovo inquilino della Casa Bianca prendendo le distanze dalle illegalità di Bush, ma al tempo stesso rispolverando la "missione" anticomunista ed egemonica dell'America tanto cara a Reagan e agli altri suoi predecessori come lo stesso Kennedy.
Con Obama il lupo americano perde il pelo ma non il vizio, tant'è vero che ha ribadito che lascerà "responsabilmente l'Iraq alla sua gente", ma per spostare più truppe in Afghanistan, e che lavorerà "senza sosta per diminuire la minaccia nucleare", vale a dire per costringere l'Iran a capitolare con le buone o con le cattive al diktat imperialista. Infatti in campagna elettorale, pur cercando di differenziarsi da Bush e Mc Cain annunciando un approccio più diplomatico nella partita con l'Iran, Obama ha sempre sostenuto di non escludere nessuna opzione, quella militare compresa. Sull'Iraq ha via via abbandonato i proclami iniziali di un ritiro rapido, tanto che ora si parla di ben 16 mesi e già il generale Petraeus, che rimane al comando in Medio Oriente, ha messo fortemente in dubbio anche questo termine. Senza contare che le truppe via via ritirate dall'Iraq verranno inviate in Afghanistan e nelle zone confinanti del Pakistan, dove Obama si è detto pronto ad intervenire anche infischiandosene delle sovranità di quel paese.
Non per nulla William Kristol, uno dei più ferventi neocon alla corte di Bush, nel registrare la visita di Obama al cimitero militare di Arlington, l'ha così interpretata: "Sa che anche lui sarà un presidente di guerra. Sa che le decisioni che lo aspettano nella sua veste di comandante in capo saranno le più importanti". E come a confermare in pieno questa previsione, Obama ha detto: "Se consideriamo la strada che si apre davanti a noi, noi dobbiamo ricordare con umile gratitudine quegli americani coraggiosi che, proprio in queste ore, controllano lontani deserti e montagne. Essi hanno qualcosa da dirci oggi, proprio come gli eroi caduti che giacciono ad Arlington mormorano attraverso il tempo. Noi li onoriamo non solo perché sono i guardiani della nostra libertà, ma perché essi incarnano lo spirito di servizio: una volontà di trovare significato in qualcosa più grande di loro. In questo momento - un momento che definirà una generazione - è precisamente questo lo spirito che deve abitare in tutti noi". Anche per Obama, dunque, la libertà e la democrazia dell'America si difende arrogandosi il diritto di invadere altri paesi e massacrare altri popoli, né più né meno come per il boia Bush.

Bastone e carota al "mondo musulmano"
Dov'è infatti la differenza con Bush, quando il suo successore lancia minacce a imprecisati nemici proclamando "voi non ci sopravviverete e noi vi sconfiggeremo"? E quando da una parte offre al "mondo musulmano" una "nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto", ma dall'altra lo ammonisce che "vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno", cioè a sottomettervi docilmente alla superpotenza planetaria a stelle e strisce e al suo fedele pupillo, il nazi-sionista Israele?
A proposito di Israele va ricordato che egli non ha speso una sola parola per condannare il genocidio di Gaza, su cui del resto aveva tenuto un ostinato quanto agghiacciante silenzio anche mentre il massacro era in pieno svolgimento. E sulla sua complicità con i massacratori nazi-sionisti dovrebbe far riflettere anche la perfetta tempistica con cui questi ultimi hanno sospeso i bombardamenti proprio alla vigilia del suo insediamento, senza contare le lodi sperticate che i boia di Tel Aviv gli hanno indirizzato appena Obama ha rimpiazzato il loro vecchio protettore Bush. Che alla Casa Bianca sia cambiato il suonatore ma non la musica imperialista e guerrafondaia lo hanno ben capito i palestinesi di Gaza, che infatti non si fanno nessuna illusione sul suo conto, così come l'hanno capito gli iracheni, che intervistati in proposito hanno dichiarato di non aspettarsi nessun miglioramento futuro.
Per quanto Obama sia osannato come un messia egli non è altro che uno dei tanti rampolli dell'establishment americano scelto perché meglio degli altri rappresentava l'uomo giusto al momento giusto. Condotto in un vicolo cieco dalla politica ottusamente unilaterale e bellicista di Bush e minato dalla più grave crisi economica e finanziaria dagli anni della grande depressione, l'imperialismo americano aveva un disperato bisogno di rifarsi un'immagine e riacquistare consensi, per ricompattare attorno a sé il popolo americano e fargli accettare meglio le dure misure che lo aspettano e per conservare la leadership mondiale scesa al suo punto più basso dai tempi della seconda guerra mondiale. C'era bisogno di un presidente "di svolta", capace di rappresentare una "novità" rispetto al passato, e costui non poteva essere Mc Cain, troppo simile a Bush, e nemmeno Hillary Clinton, troppo identificata con la vecchia amministrazione del marito. C'era bisogno di un "outsider", un personaggio capace di riprodurre ancora una volta l'eterno mito americano dell'"uomo fatto da sé" grazie alle magiche virtù della "grande democrazia" americana che promuove i più umili alle più alte vette, e che riesce sempre a rinnovarsi e a riprendere il suo ruolo guida del mondo capitalistico nonostante gli insuccessi e le crisi in cui cade periodicamente. E Obama incarna a meraviglia questo ruolo quasi salvifico: "Un incantesimo che aprirà una nuova America", titolava significativamente il britannico Guardian l'indomani del suo insediamento.

Chi c'è dietro l'operazione Obama
Il fatto stesso che il neo presidente si sia più volte e con solennità rivolto a dio, come mandante della "missione" dell'America nel mondo, giurando sulla bibbia nonostante i suoi sostenitori più progressisti gli avessero chiesto di rompere l'ambigua tradizione, e che si sia richiamato con altrettanta solennità ai "padri fondatori" della nazione americana, risponde perfettamente al ruolo messianico che le potenti lobby finanziarie, economiche e politiche del grande capitale statunitense gli hanno cucito addosso.
A un certo punto della campagna elettorale, e in particolare dopo lo scoppio della crisi finanziaria, queste lobby hanno cominciato a puntare massicciamente su di lui. Si sa che tra i suoi maggiori "contributors" figurano per esempio grandi Università dell'élite alto-borghese come Harvard e Stanford, giganti della new technology come Microsoft, IBM e Google, grandi major di Hollywood come Time Warner, molti tra i più potenti studi legali degli Usa, e soprattutto grandi banche d'affari come Goldman Sachs, JPMorgan Chase, Citigroup, UBS e Morgan Stanley, che hanno erogato a Obama finanziamenti due o tre volte superiori di quanto hanno concesso al suo avversario repubblicano.
Il fatto poi che fosse di pelle nera, a parte la prima fase della campagna, non lo ha penalizzato, anzi alla fine lo ha premiato, non solo perché è riuscito ad attirare il voto dei neri (tradizionalmente e giustamente indifferenti alle elezioni presidenziali in quanto sanno per esperienza che le "diversità" tra i candidati democratici e repubblicani sono puramente di facciata), ma perché rappresenta ancor meglio il carattere di "svolta epocale" che si è voluto dare a questa tornata elettorale. Del resto il colore della pelle non è certo di per sé un vaccino contro i guerrafondai e i servi dell'imperialismo, come si è ben visto con Condoleezza Rice e Colin Powell. Inoltre chi ha messo Obama su quella poltrona ha provveduto sapientemente a circondarlo di personaggi super esperti e di provata fedeltà all'establishment, dal suo vice Biden alla nomina della Clinton a segretario di Stato (ministro degli Esteri), da Gates (ex segretario di Stato di Bush) alla Difesa al capo di gabinetto Emanuel, noto agente sionista e già membro dell'amministrazione Clinton, e così via.
Nessuna illusione, dunque, su Obama. Egli incarna solo il volto attualmente più "presentabile" del rapace imperialismo americano. Ma i popoli che ne subiscono la feroce oppressione non tarderanno molto a scoprire che egli è fatto della stessa pasta dei suoi predecessori. Intanto il popolo martire di Gaza lo ha già provato amaramente sulla sua pelle.

28 gennaio 2009