Gli effetti devastanti della non obbligatorietà dell'azione penale e dell'autonomia della polizia giudiziaria

Il 10 marzo 2011 il governo Berlusconi ha compiuto un atto molto grave, i cui effetti deleteri e devastanti rischiano di protrarsi ben oltre la durata in carica dell'attuale governo Berlusconi per andare a minare profondamente l'equilibrio dei poteri fissati nella Costituzione dal 1948: il disegno di legge costituzionale proposto in tale data in tema di "riforma" della giustizia va infatti smascherato dalla critica marxista-leninista senza esitazione, mobilitando tutte le energie intellettuali. In modo particolare due sono i punti di questa proposta che i marxisti leninisti devono denunciare a voce alta e chiara: la riforma dell'obbligatorietà dell'azione penale da parte del pubblico ministero e quella relativa all'autonomia della polizia giudiziaria. Tutte le fonti citate sono state pubblicate sul sito internet del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it), quindi hanno un carattere ufficiale.

Obbligatorietà dell'azione penale
L'attuale articolo 112 della Costituzione stabilisce che "il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale": questo significa che in qualsiasi modo un magistrato del pubblico ministero riceva la notizia di un avvenuto reato (la può ricevere personalmente, attraverso le informative della polizia giudiziaria o attraverso denunce o querele di semplici cittadini) egli ha l'obbligo giuridico di aprire un'inchiesta (che il codice di procedura penale chiama "indagini preliminari" e successivamente, se rileva fondata la notizia di reato, di esercitare la cosiddetta "azione penale" che consiste nell'atto giuridico di portare la persona indagata di fronte ad "un giudice terzo ed imparziale" affinché si svolga un processo con tutte le garanzie la prima delle quali è l'assistenza di un avvocato difensore. "Obbligatorietà dell'azione penale" significa quindi che il Pubblico ministero (PM) che ravvisi fondata una notizia di reato deve promuovere l'azione penale senza alcuna discrezionalità: se non lo fa commette egli stesso reato. Questo è un sistema strutturato per punire tutti i reati, senza alcuna discriminazione, mano a mano che giungono all'attenzione dell'ufficio del pubblico ministero, il quale deve essere un organo indipendente dal potere politico. Cosa accadrebbe invece se diventasse legge costituzionale la proposta presentata il 10 marzo? L'art. 15 del disegno di legge propone di modificare l'art. 112 della Costituzione in questo modo: "l'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge", ovvero la prospettiva della "riforma" è quella di affidare ad una semplice legge ordinaria i criteri che stabiliscano l'obbligatorietà dell'azione penale, legge ordinaria che può essere modificata con una deliberazione di Camera e Senato ed è altamente soggetta ai cambi di strategia politica di qualsiasi maggioranza parlamentare. Inoltre stabilire criteri di priorità per la persecuzione di determinati reati o tipi di reato significa - anche ammettendo che la persona del magistrato inquirente rimanga indipendente dal potere politico - assoggettare e vincolare strettamente la sua attività professionale alle strategie politiche del momento.
Insomma, mentre oggi è la stessa Costituzione che impone in modo assoluto, senza eccezioni e riserve al PM di esercitare l'azione penale, domani sarà la legge ordinaria ad indicare al PM i criteri sui quali si dovrà basare l'obbligatorietà: nella conferenza stampa di Berlusconi ed Alfano si è infatti parlato esplicitamente di una "legge sui criteri di esercizio dell'azione penale" che indicherà quali reati abbiano la precedenza nel lavoro dei magistrati inquirenti, cioè i PM, con la conseguenza che l'azione penale giuridica (cioè svolta da un magistrato indipendente con criteri obiettivi fissati dalla legge e che si svolge mano a mano che le notizie di reato giungano a conoscenza del magistrato stesso) verrà sostituita da una azione penale politica (in quanto la scelta di quali reati perseguire in via prioritaria è appunto una scelta politica che viene necessariamente influenzata dalle esigenze dell'elettorato che esprime quella maggioranza parlamentare). Si pensi a quali reati vorrà perseguire prioritariamente Berlusconi, le centrali finanziarie, economiche e istituzionali della destra borghese di riferimento ed anche le organizzazioni criminali che nel meridione e non solo lo appoggiano: sicuramente non quelli di mafia e di criminalità organizzata, sicuramente non quelli societari, fiscali, finanziari, e in generale i reati dei colletti bianchi, ed ecco che la giustizia diventa uno strumento del governo, proprio in violazione dell'art. 3 della stessa Costituzione che stabilisce l'uguaglianza formale dei cittadini, perché a finire sotto processo saranno gli immigrati rei di "immigrazione clandestina", saranno coloro che protestano, che occupano case, saranno i ragazzi dei centri sociali che fumano uno spinello. Dietro questo provvedimento si nasconde in realtà non solo la violazione formale del principio di uguaglianza, ma si nasconde un criminale progetto per costringere il pubblico ministero a ottemperare alle regole fissate dai gruppi sociali che esprime la maggioranza parlamentare, e quindi il governo, regole che - consacrate nella legge - obbligheranno il PM a dare la preferenza a quei reati che turbano in un modo o nell'altro l'"ordine borghese", lasciando invece che quelli compiuti da elementi appartenenti alla borghesia stessa cadano in prescrizione, passando essi obbligatoriamente in secondo piano.

Autonomia della polizia giudiziaria
Altro punto dolente, che rischia di avere pesantissimi riflessi di classe è quello relativo alla proposta governativa di rendere la polizia giudiziaria più autonoma dal pubblico ministero. L'attuale articolo 109 della Costituzione stabilisce ora che "l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria". Con l'espressione "autorità giudiziaria" si intende la magistratura, ossia quel corpo autonomo di tecnici del diritto composto da giudici e dai rappresentanti dell'ufficio del pubblico ministero, e si stabilisce la subordinazione funzionale ad essa della polizia giudiziaria, cioè di quella parte delle forze di polizia che si occupano della repressione dei reati dopo che essi siano stati commessi. È soprattutto il pubblico ministero ad avere un rapporto di direzione funzionale sulla polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari, ovvero la fase successiva all'acquisizione della notizia di reato, ovvero il momento in cui vengono compiuti quegli atti investigativi che poi, offerti al giudice nel processo, diventano "prova" nel contraddittorio dialettico con gli avvocati difensori. L'articolo 12 del disegno di legge costituzionale intende modificare l'art. 109 della Costituzione in questo modo: "il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge", cioè sparisce la parola "direttamente" e si specifica che sarà la legge ordinaria a dettare le modalità di tale subordinazione, con la conseguenza che mentre ora il giudice ed il pubblico ministero possono disporre autonomamente della polizia giudiziaria che ha l'obbligo costituzionale di rispondere a tali organi, in futuro il potere politico attraverso la legge potrà svincolare del tutto o quasi la polizia stessa dal controllo della magistratura. Ed infatti nella conferenza stampa di Berlusconi ed Alfano si è parlato di una "legge sui rapporti tra l'ufficio del PM e la polizia giudiziaria".
Quali riflessi devastanti comporterebbe tale riforma? La risposta è chiara, ma prima bisogna comprendere bene perché ora la polizia giudiziaria è subordinata all'autorità giudiziaria: il codice di procedura penale stabilisce attualmente al primo comma dell'art. 347 che "acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero", cioè proibisce in modo tassativo che organi di polizia possano tenere nei loro archivi notizie di reato come invece accadeva con il vecchio codice di procedura penale fascista del 1930 rimasto in vigore fino al 1989 quando l'attuale lo ha sostituito, e una delle maggiori innovazioni fu proprio quella di proibire alla polizia giudiziaria il compimento di inchieste autonome che inevitabilmente finivano con l'essere fonte di ricatti nei confronti di oppositori politici o di persone sgradite al potere esecutivo. Svincolare la polizia giudiziaria dalla magistratura significa necessariamente vincolarla al potere esecutivo, cioè al governo, ed è difficile persino immaginare cosa possa combinare una polizia giudiziaria che nel sistema capitalista è al soldo del governo, il quale a sua volta è il comitato di affari della borghesia, e soprattutto è difficile immaginare cosa possa riuscire a fare un governo come quello di Berlusconi qualora disponga di una polizia giudiziaria che faccia inchieste autonome e raccolga notizie su chiunque si opponga alla sua cricca borghese!
Si tenga poi presente che mentre oggi l'art. 59 del codice di procedura penale sancisce la subordinazione diretta della polizia giudiziaria ai magistrati, il disegno di legge va esattamente nella direzione opposta, ovvero tende a svincolare almeno in parte la polizia dalla magistratura stessa, con la conseguenza che i magistrati stessi debbano andare (per usare una espressione usata proprio da Berlusconi) "con il cappello in mano" a chiedere al governo uomini e mezzi necessari per le inchieste. Insomma, a rischio anche qui saranno sempre più i proletari, in balia di una polizia che già con le attuali norme è difficile tenere a freno (si ricordino i fatti di Genova del 2001, nonché gli omicidi di Sandri, Cucchi, Rasman, Aldrovandi)!

La giustizia e la lotta di classe
Ecco quindi che i temi in apparenza così astratti e metafisici come quelli legati alla sciagurata controriforma della giustizia del governo Berlusconi sono in realtà concreti e direttamente incidenti nella realtà sociale, evidenziando un chiaro approccio di classe da parte della cricca borghese rappresentata da Berlusconi: a farne le spese saranno i lavoratori, i giovani, chiunque protesti, manifesti, si opponga, perché verranno privati di alcune fondamentali garanzie che lo Stato borghese ha finora rispettato. La legge è sempre espressione di rapporti di classe, e non abbia dunque timore il proletariato a contrapporre con la lotta di classe il proprio senso di giustizia a quello creato ad uso e consumo dalla borghesia. Nell'antichità veniva ritenuta giusta la schiavitù, fino al 1789 in Francia veniva ritenuto giusto che i nobili ed il clero non pagassero tasse ed avessero privilegi, ma tutto quello che veniva ritenuto allora giusto oggi non lo è più. Domani, nel socialismo, non sarà ritenuto giusta né la proprietà privata del capitale né l'esistenza del diritto borghese.
Si dia voce ad Engels in un brano tratto da "La questione delle abitazioni": "In un certo stadio, molto primitivo, di sviluppo della società sorge il bisogno di comprendere in una regola comune tutti gli atti della produzione, della spartizione e dello scambio dei prodotti, atti che ricorrono giornalmente; di provvedere a che il singolo si assoggetti alle condizioni comuni di produzione e di scambio. Questa regola, che dapprima è semplice consuetudine, diventa ben presto legge. Con la legge sorgono necessariamente degli organi incaricati di farla osservare: i pubblici poteri, lo stato. Procedendo l'evoluzione sociale, questa legge si sviluppa dando luogo ad una legislazione più o meno ampia.
Più complicato diventa questo sistema, e più la sua terminologia si allontana da quella mediante cui si esprimono le condizioni usuali della vita economica. La legislazione acquista l'aspetto di un elemento indipendente, che fa derivare la giustificazione della propria esistenza e il motivo del suo ulteriore sviluppo non dai rapporti economici, ma da motivi propri, immanenti, poniamo dal 'concetto di volontà'. Gli uomini dimenticano che il loro diritto deriva dalle condizioni della loro esistenza economica, nella stessa maniera in cui hanno dimenticato la propria discendenza dagli animali. Col progredire della legislazione che si sviluppa in un corpo complicato, vasto, si affaccia la necessità di una nuova divisione del lavoro sociale; si forma una categoria di giuristi specializzati, e con essi sorge la giurisprudenza. Nel suo ulteriore sviluppo, questa compara i diritti vigenti presso i vari popoli e nelle varie epoche, considerandoli non come espressione dei rapporti economici via via vigenti, ma come sistemi che hanno le proprie radici in se stessi. La comparazione presuppone qualcosa di comune; questo si ha in quanto i giuristi compongono con ciò che vi è di più o meno comune di tutti questi sistemi giuridici il diritto naturale. Ma il metro con cui si misura ciò che è diritto naturale e ciò che non lo è, consiste nell'espressione più astratta del diritto stesso: la giustizia. Da questo momento in poi l'evoluzione del diritto consiste, per i giuristi e per chi crede loro sulla parola, soltanto nello sforzarsi di avvicinare sempre di più le condizioni umane, che siano espresse in termini giuridici, all'ideale della giustizia, della giustizia eterna. E questa giustizia rimane sempre e soltanto l'espressione idealizzata, divinizzata dei rapporti economici vigenti, ora nel loro aspetto conservatore, ora nel loro aspetto rivoluzionario. La giustizia dei greci e dei romani considerava giusta la schiavitù; la giustizia dei borghesi del 1789 rivendicava l'abolizione del feudalesimo, considerandolo ingiusto...".
(Engels, La questione delle abitazioni, Edizioni Rinascita, pagg. 123-124).

16 marzo 2011