Respingere l'accordo tra Cimoli e i vertici sindacali
No alla privatizzazione dell'Alitalia
No ai licenziamenti

Votare No al referendum sull'accordo
Il piano di ristrutturazione e di privatizzazione dell'Alitalia, concordato dal super manager Giancarlo Cimoli e i sindacati confederali e di categoria, in tempi rapidi e senza un'ora di sciopero, un piano di lacrime e sangue, che impone pesantissimi sacrifici ai lavoratori senza garantire loro un futuro occupazionale certo e senza salvaguardare effettivamente l'unicità e la natura pubblica dell'azienda è praticamente fatto. Manca solo la parte che spetta al governo, ossia lo stanziamento del prestito-ponte di 400 milioni di euro e il varo degli "ammortizzatori sociali" per 3.700 dipendenti destinati a lasciare l'azienda. Un piano che si compone fondamentalmente di tre passaggi: la firma dei contratti di lavoro per i piloti, degli assistenti di volo e del personale di terra, avvenuta in successione nella metà di settembre fondati sull'aumento dei carichi di lavoro, la crescita di produttività, la riduzione dell'occupazione e la decurtazione degli stipendi, il primo; la definizione degli "esuberi" e il riassetto societario dell'azienda che ne prevede la divisione in due società, la riduzione della presenza pubblica nell'azionariato scendendo dall'attuale 62% fino a un minimo del 30% a favore di soggetti privati, la progressiva privatizzazione dei servizi di terra, il secondo; prestito e "ammortizzatori sociali" il terzo.
Tutti e tre questi passaggi sono strettamente connessi, e in questa logica, dipendenti l'uno dall'altro. Il più importante è però quello che in gergo si chiama "piano industriale" proposto dal presidente e amministratore delegato dell'Alitalia e sottoscritto nella notte del 24 settembre da quasi tutte le sigle sindacali presenti (Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uilta, Ugt, Ampac, Anpav, Avia) meno che il Sult (che fa riferimento ai Cobas) che si è rifiutato di firmare rimettendosi al parere dei lavoratori interessati. Perché è nel "piano industriale" che è determinato il presente e il futuro prossimo della più grande azienda di volo italiana. Un presente e un futuro non positivo nel breve termine perché comporta un taglio occupazionale e una riduzione del "costo del lavoro drastico"; anzi negativo nei tempi più lunghi perché il temuto "spezzatino" societario, il drastico ridimensionamento del settore di volo dell'Alitalia e la cancellazione di essa come compagnia pubblica di bandiera è molto di più di un sbocco ipotetico. C'è da prevedere infatti che l'Alitalia, indebolita e ridimensionata, non potrà che essere preda di altre società di volo straniere più forti.

Cosa prevede il piano
Più nel dettaglio ecco cosa prevede questa intesa nei prossimi tre anni. Verrà costituita innanzi tutto Az Fly (operazioni di volo), che controllerà al 100% Az Service (servizi di terra) . Ma solo all'inizio: successivamente Alitalia cederà il 49% a un altro soggetto pubblico, cioè Fintecna controllata dal ministero del Tesoro, tenendo per sé il 51%. Questo fino al 2008, data di scadenza del piano industriale Cimoli. Poi si vedrà. Intanto la partecipazione statale nell'Az Service scenderà dall'attuale 62% a una quota del 30%, vendendo dunque il 32% a uno o più privati. L'Az Fly, specificatamente orientata al trasporto aereo dovrà ridurre i dipendenti dagli attuali 11.700 a 10.000 (-1.700); mentre il taglio occupazionale previsto nell'Az service, per i servizi di terra (informatica, handling, manutenzione) sarà di 2 mila lavoratori, passando dagli attuali 9 mila a 7 mila unità entro il 2006. Complessivamente il taglio occupazionale sarà dunque di 3.700 unità. Per loro ci sarà solo cassa integrazione, mobilità, prepensionamenti o il licenziamento se non avranno i requisiti per andare in pensione anticipata.
Ma l'intesa tra Cimoli e i sindacalisti collaborazionisti comporta non soltanto un duro prezzo da pagare in termini di riduzione occupazionale e modifica societaria in modo privatistico, ma anche pesanti sacrifici imposti ai lavoratori con i suddetti contratti di lavoro siglati da tutti i sindacati di categoria in pochi giorni per i piloti, gli assistenti di volo e il personale di terra, uno dopo l'altro, senza fiatare. Sacrifici che si concretizzano in un aumento rilevante di carichi di lavoro, meno riposi, una decurtazione delle retribuzioni per un risparmio per l'azienda di ben 282 milioni di euro. Per i piloti e il personale di bordo è previsto un aumento consistente delle ore di volo e una riduzione degli equipaggi sia per le tratte oltre 4 mila miglia, sia per le tratte più lunghe. E non è tutto. Per la parte economica, aumenta la parte variabile della retribuzione legata all'attività di volo dal 14 al 23%, ma riconsiderando la rimodulazione della diaria questa soglia sale al 40%. Inoltre, in busta paga non ci sarà nessun aumento fresco per il recupero dell'inflazione.

Il ricatto del fallimento
La trattativa dei rappresentanti dei lavoratori con Cimoli si è svolta in una situazione difficilissima: questo è vero, verissimo. La crisi dell'Alitalia, che inizia almeno dai primi anni '90 e si aggrava ulteriormente dopo l'attentato alle torri gemelle dell'11 settembre 2001 è stata lasciata incancrenire dai governi che si sono succeduti in questo periodo, quelli di "centro-sinistra" e l'attuale del neoduce Berlusconi e da un gruppo dirigente aziendale che si è rivelato miope, inetto e sprecone fino a portarla sulla soglia del fallimento finanziario e a una perdita crescente di mercato rispetto alle altre grandi società di volo europee quali Air France, la Lufthansa, la British Airways e persino la Klm olandese. Una crisi che era emersa in tutta la sua dimensione e drammaticità già l'anno scorso senza che sia stato fatto nulla di serio. Poche cifre per valutare il declino: dal 2000 al 2003 l'Alitalia ha perso oltre 2 milioni di passeggeri; nello stesso periodo il risultato operativo che già segnava una perdita di 255,5 milioni di euro è peggiorato a - 373 milioni di euro; i dipendenti da 23.478 sono calati a 22.200; mentre l'indebitamento a giugno di quest'anno si è attestato su 1.660 milioni di euro. Le speculazioni di Borsa hanno avuto buon gioco per far crollare il valore delle azioni e ridurre pesantemente il valore patrimoniale dell'azienda.
La trattativa è stata difficile anche perché si è svolta sotto il ricatto infame del ministro del Tesoro Siniscalco e di quello del welfare Maroni che avevano vincolato il prestito di 400 milioni di euro e il varo di un programma di "ammortizzatori sociali" all'accordo tra sindacati e azienda da presentare in tempi eccessivamente brevi e comunque entro il 25 settembre scorso. Lo spettro dell'insolvenza finanziaria e della chiusura non è indubbiamente una condizione favorevole per condurre in porto positivamente una vertenza di questo genere e dimensione.

Votare No al referendum sull'accordo
Tuttavia non possiamo condividere il giudizio positivo e la soddisfazione espressi dai segretari sindacali Cgil, Cisl e Uil Epifani, Pezzotta e Angeletti. Ciò almeno per tre motivi: anzitutto perché l'accordo scarica i costi della crisi sulle spalle dei lavoratori nonostante che essi non abbiano nessuna colpa. La storiella che all'Alitalia il "costo del lavoro" fosse più alto rispetto alle società di volo concorrenti e che questo sia alla base delle difficoltà odierne è infatti una vera menzogna. Il secondo motivo poggia sul fatto che non consideriamo valida la "soluzione" indicata nel piano industriale che garantisce un serio rilancio della compagnia di volo di bandiera ma casomai, contiene in sé gli elementi per una sua frantumazione, privatizzazione e riduzione a una società adibita al trasporto nelle tratte nazionali se non un mero servizio di low-cost. Il terzo motivo è legato ai risultati ottenuti che sono lontani delle stesse richieste avanzate unitariamente dai sindacati, non tutte condivisibili per la verità, e dall'accordo di massima del 6 maggio scorso a Palazzo Chigi col governo che almeno prevedeva una Holding pubblica che avrebbe mantenuto l'unitarietà dell'azienda. E così non è!
Essere riusciti a ridurre gli "esuberi" da 5 mila, come chiedeva Cimoli, a 3 mila 700 a noi non sembra sufficiente. E anche i lavoratori non sembrano soddisfatti dei risultati ottenuti, a giudicare dalle prime assemblee che si sono tenute e che hanno respinto l'accordo a grande maggioranza. La lotta che hanno condotto con tanta determinazione nei mesi e negli anni passati aveva come obiettivo il rilancio della compagnia di bandiera ma senza licenziamenti e conservando la natura pubblica. E così non è!
Per tutte queste ragioni noi invitiamo i lavoratori a votare no all'accordo nel referendum sindacale che si terrà nei prossimi giorni in azienda. Per riaprire le trattative con Cimoli e col governo e ottenere modifiche sostanziali migliorative.

29 settembre 2004