Con argomenti simili a quelli usati da Bush per l'attacco all'Iraq nel 2003
Obama conferma l'aggressione imperialista alla Siria
Letta non condanna la criminale decisione del capofila dell'imperialismo americano, anzi la "comprende"
La Ue invoca una "risposta forte ai crimini di Assad"

Il presidente americano Barack Obama, il 7 settembre nell'ennesimo intervento televisivo, si rivolgeva al popolo americano e confermava la decisione di aggredire la Siria, con o senza l'avallo del Congresso. Due giorni dopo la disponibilità dichiarata dal regime di Damasco di mettere i propri depositi di armi chimiche sotto il controllo internazionale sembra quantomeno allungare i tempi di un intervento che al momento resta al primo posto delle opzioni dell'amministrazione americana. Nonostante una larga opposizione che va dai pacifisti americani, che sempre il 7 settembre sfilavano davanti la Casa Bianca con cartelli sui quali era scritto "No alla guerra in Siria" e "Giù le mani dalla Siria", a papa Francesco che lo stesso giorno aveva convocato a Roma una mobilitazione di preghiera e digiuno contro la guerra in Siria.
La tattica messa a punto da Obama ricalca quasi alla lettera quella già sperimentata nel 2003 dal suo precedessore Bush nella preparazione dell'aggressione all'Iraq. A partire dallo sbandieramento di prove, niente affatto convincenti, sull'uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, che nega, e che giustificherebbero anzi "imporrebbero" al giustiziere Obama di far scattare la punizione.
Il regime di Assad è "responsabile del peggior attacco con armi chimiche del XXI secolo", ha detto Obama scordandosi dell'uso delle armi al fosforo da parte degli invasori americani in Iraq per non parlare del napalm usato contro il Vietnam, "noi siamo gli Stati Uniti e non possiamo chiudere gli occhi davanti alle immagini che abbiamo visto anche se è accaduto dall'altra parte del mondo", affermava con gli stessi toni di Bush o dai propugnatori delle crociate nel Medioevo. L'uso del gas da parte dell'esercito siriano "non è solo un attacco alla dignità umana ma anche una seria minaccia alla nostra sicurezza nazionale", aggiungeva senza tema di sfiorare il ridicolo e per rassicurare il popolo americano contrario in maggioranza alla guerra affermava che "non sarà un altro Iraq o un altro Afghanistan (...) qualsiasi azione contro il regime siriano sarà limitata, in termini di portata e di tempo", una guerra lampo quasi indolore. E concludeva affermando che "come leader della più antica democrazia costituzionale al mondo so che il nostro Paese è più forte e le nostre azioni più efficaci se agiamo insieme" e per questo aveva chiesto il via libera al Congresso.
Bashar al Assad ripeteva che "non ci sono prove che io abbia usato armi chimiche contro la mia gente, non sono stato io". Che Assad sia responsabile di crimini contro il proprio popolo non ci sono dubbi e il popolo siriano ha tutto il diritto di rovesciarlo. Diritto che non spetta all'imperialismo americano e ai regimi arabi reazionari sia che provino l'uso di armi chimiche o meno.
Il discorso del 7 settembre era solo l'inizio di una vera e propria offensiva mediatica di Obama che proseguiva con la trasmissione da parte della Cnn del video fornito dai servizi americani, che documenterebbe l'attacco chimico del 21 agosto scorso contro la popolazione siriana da parte del regime di Assad, e una serie di interviste alle 6 principali reti informative Usa; campagna chiusa al momento dal previsto discorso alla nazione del 10 settembre.
Un primo risultato Obama lo coglieva il 3 settembre quando la commissione Esteri del Senato, con 10 voti a favore, 7 contrari e un astenuto, dava il primo via libera all'intervento armato in Siria. Il testo del documento che passava all'esame dell'aula prevede tra l'altro un limite di 60 giorni per l'operazione, con la possibilità di una sola proroga di altri 30 giorni previa approvazione da parte del Congresso e esclude l'uso di forze di terra. L'analisi del voto non è però del tutto rassicurante per Obama. Il via libera a Obama arrivava da un voto bipartisan col voto favorevole di alcuni repubblicani che compensavano quello contrario di due senatori democratici. Un segnale che potrebbe dare il via libera a Obama anche al senato dove non ha la maggioranza.
La contrarietà all'intervento in Siria era espressa anche dall'Associazione americana dei giuristi (Aaj), accreditata presso le Nazioni unite, che il 4 settembre denunciava le "intenzioni imperiali del presidente Barack Obama e dei suoi alleati nel condurre una guerra contro la Siria in violazione della Carta dell'Onu, utilizzando come pretesto accuse senza conferme circa l'uso di armi chimiche da parte dell'esercito siriano". I giuristi dell'Aaj denunciavano che "gli Usa mancano di credibilità. Hanno mentito sulle armi di distruzione di massa per invadere l'Iraq, hanno usato armi chimiche come l'agente orange in Vietnam e hanno cosparso di uranio impoverito l'Iraq, la Serbia e l'isola di Vieques", e sottolineavano che la Carta dell'Onu, all'articolo 2 "vieta agli stati membri il ricorso alla minaccia o all'uso della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di uno Stato; per l'art. 39 è solo il Consiglio di sicurezza a poter stabilire misure in conformità con gli art. 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionali. E solo l'art. 51 permette il ricorso all'uso della forza, e riguarda il diritto alla legittima difesa individuale o collettiva nel caso di un attacco armato contro uno Stato membro dell'Onu. Ma la Siria non ha attaccato gli Stati Uniti".

Il G20 di San Pietroburgo
Una mano all'interventista Obama veniva dagli alleati europei al vertice del G20 di San Pietroburgo del 5 e 6 settembre, dove comunque doveva incassare il no della Russia e delle altre potenze emergenti.
Il presidente americano ricorreva ai toni messianici tirando in ballo la presunta credibilità dell'intera comunità internazionale: "Non ho fissato io la linea rossa sull'uso delle armi chimiche ma il mondo intero" sentenziava mettendo sul tavolo le "prove inconfutabili" dell'uso dei gas da parte di Assad e la necessità, quasi l'obbligo dell'intervento militare. Putin rispondeva che tutte le prove fornite dagli Usa erano considerate "assolutamente non convincenti" e che avrebbe difeso l'alleato Assad. Con la Russia si schieravano la Cina e le altre potenze emergenti India, Brasile, Sudafrica, assieme a Indonesia e Argentina.
Il presidente della Commissione europea Manuel Barroso e quello del Consiglio Herman Van Rompuy, in rappresentanza dell'Ue, sottolineavano che era solo la Francia del socialista Hollande a voler intervenire anche se ritenevano che le prove dell'uso di armi chimiche da parte di Assad fossero convincenti.
E infatti a favore dell'intervento non si schieravano esplicitamente solo Stati Uniti, Turchia, Canada, Arabia Saudita e Francia ma anche altri paesi che firmavano la dichiarazione stilata dalla Casa Bianca nella quale viene chiesto che l'Onu presenti "il prima possibile" i risultati delle indagini condotte dai suoi ispettori in Siria e che il Consiglio di sicurezza "agisca di conseguenza". Per non generare equivoci sulle intenzioni dei firmatari il documento "condanna in modo categorico l'orribile attacco" effettuato usando gas nocivi lo scorso 21 agosto presso Damasco e sentenziava che "le prove indicano che è il governo siriano ad esserne il responsabile". Firmata in calce da Stati Uniti, Australia, Canada, Francia, Italia, Giappone, Corea del Nord, Arabia Saudita, Turchia, Regno Unito e Spagna.
Lo firmava anche il presidente del consiglio italiano Enrico Letta che affermava di aver sottoscritto l'appello per non ripetere "i disastri di dieci anni fa", quando americani ed europei si divisero sulla guerra in Iraq. Nel nome dell'unità tra le due sponde dell'Atlantico, invocate anche dal ministro degli Esteri Emma Bonino che in un primo momento si era detta contraria all'intervento anche col mandato Onu e che si è velocemente ricreduta, Letta non condanna la criminale decisione del capofila dell'imperialismo americano, anzi la "comprende". E dà il suo contributo nelle forme che ritiene possibili. Come dimostra l'invio in Libano di almeno una nave militare.

In Libano il lanciamissili Andrea Doria
Il cacciatorpediniere lanciamissili Andrea Doria è partito il 4 settembre dalla base di Taranto verso il Mediterraneo orientale per "attività di vigilanza e pattugliamento in mare, e controllo dello spazio aereo", affermava una nota della Difesa.
Il compito della nave, che dovrebbe essere affiancata anche dalla fregata Maestrale, sarebbe quello di fornire copertura ai circa mille soldati italiani del contingente Onu impegnati nell'Operazione Leonte, la missione Unifil composta da militari di 37 nazioni che erano stati schierati nel 2006 per fare da cane da guardia per conto dei sionisti di Tel Aviv alla frontiera tra Israele e il Libano. Il comando Unifil è affidato al momento al generale italiano Paolo Serra.
Lo Stato maggiore italiano garantiva che si trattava solo di una misura precauzionale e che la presenza di una nave militare è prevista nei decreti che autorizzano la missione Onu "qualora se ne presentasse la necessità". Evidente che la necessità è dettata dall'accelerazione imposta dall'imperialismo americano al suo intervento diretto nella crisi siriana.
Il governo Letta ripeteva per giorni che non sarebbe intervenuto nella crisi siriana senza una decisione dell'Onu. Ma la firma sotto il documento di San Pietroburgo e l'invio di unità militari italiane nel Mediterraneo orientale non sono certo il segno di chi vuol starne fuori.
Il portavoce della Difesa affermava che l'invio delle navi era dovuta a una "decisione autonoma delle Forze armate", dunque si trattava di una scelta tecnica e non politica. Una versione poco credibile che serviva solo a parare il governo Letta, tanto più che nello stesso momento la Difesa affermava che non vi era stata nessuna richiesta di protezione da parte del comando di Unifil. In ogni caso una decisione del genere chiama alle responsibilità politiche del governo italiano che a piccoli passi viaggia verso un maggior coinvolgimento nella crisi siriana, sotto le forti pressioni degli Usa.
Il documento di San Pietroburgo sarà successivamente firmato anche da altri paesi fra i quali Germania, Ungheria, Marocco, Qatar e Emirati Arabi Uniti. Mentre il Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG, che comprende Bahrain, Kuwait, Oman, Emirati Arabi, Qatar e Arabia Saudita) esortava la comunità internazionale a intervenire immediatamente in Siria per "liberare" il popolo dalla "tirannia" del suo governo.
Infine anche l'Unione europea (Ue) raggiungeva l'unanimità su un documento che chiedeva una "risposta forte" all'attacco chimico del 21 agosto, sul quale le informazioni a disposizioni mostrano la responsabilità del regime di Assad, affermava l'alto rappresentante Ue per la politica estera Catherine Ashton dopo la riunione dei ministri degli Esteri dei Ventotto a Vilnius in Lituania il 6 settembre. Alla riunione aveva partecipato il segretario di Stao americano John Kerry che si dichiarava "molto grato per la forte dichiarazione" dei paesi Ue sulla Siria e sottolineava che "il numero dei paesi disposti a intervenire sul piano militare è a doppia cifra". Il gruppo dei volenterosi, come la banda raccolta da Bush per l'aggressione all'Iraq, rimpolpava le fila.
Dopo il discorso di Obama del 7 settembre a favore della missione autoassegnatasi di giustiziere del mondo toccava al capo dello staff presidenziale, Denis McDonough, intervenire con interviste in 5 talk show e annunciare che "il raid contro la Siria sarà anche un messaggio rivolto all'Iran perché non si senta libero di poter sviluppare l'arma nucleare".
Gli obiettivi dell'intervento dell'imperialismo americano in Siria diventano sempre più chiari e trovano consensi soprattutto nel campo degli alleati sionisti. L'ex capo dell'intelligence militare di Tel Aviv sottolineava che l'attacco alla Siria deve "ristabilire il potere di deterrenza" degli Stati Uniti nei confronti di tutti i leader mediorientali che potenzialmente sfidano Israele con armi non convenzionali, un segnale rivolto soprattutto all'Iran. Infine affermava che "è vitale per Israele che la guerra civile siriana non si concluda con la vittoria di Assad, poiché, spiega, ciò rinsalderebbe l'asse Tehran-Damasco-Hezbollah".
Gli imperialisti sionisti di Tel Aviv mettevano in campo anche una specie di prova generale dell'attacco quando il 3 settembre lanciavano due missili balistici verso il mar Mediterraneo nel corso di manovre militari congiunte con gli Stati Uniti. Una provocazione verso Damasco che poteva reagire e fornire l'alibi per un intervento immediato. D'altra parte gli Usa hanno completato il loro schieramento militare nella regione con l'arrivo nelle acque del Mar Rosso della portaerei Nimitz assieme a quattro cacciatorpediniere e un incrociatore, pronta a passare all'azione. Supportata dalle basi aeree e navali in Turchia dalla base di appoggio della Sesta Flotta Usa proprio in Israele, a due passi dalla Siria, nel porto di Haifa. Per non parlare della flotta dei Droni della base di Sigonella e dei caccia di Aviano.
Nel corso di una conferenza stampa a Londra il 9 settembre, il segretario di Stato Usa Kerry, sosteneva che "Assad potrebbe evitare un attacco consegnando le sue armi chimiche alla comunità internazionale entro la settimana prossima". Da Mosca arrivata immediatamente la risposta tramite la doppia dichiarazione dei ministri degli esteri russo e siriano, Sergei Lavrov e Walid Muallem, col via libera a un accordo per mettere i depositi di armi chimiche siriani sotto il controllo internazionale, con l'obiettivo di distruggerle.
Obama si compiaceva di questo "sviluppo potenzialmente positivo" e lo accreditava come lo sviluppo "di una soluzione diplomatica sulla Siria discussa con Putin durante il G20: questa è la continuazione di quelle conversazioni". Si profilerebbe così una soluzione per evitare in extremis l'intervento militare americano, un piano di riserva per evitare la guerra. Poi Obama avvertiva: "No a tattiche dilatorie che riportino la situazione allo stallo". Riaprendo il balletto già visto prima dell'aggressione all'Iraq.

11 settembre 2013