Votato a maggioranza dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite
Palestina Stato "osservatore" all'Onu
Una parte di Hamas non è d'accordo. Netanyahu: "Non cambierà nulla. Non sarà costituito uno Stato palestinese senza il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico"
I sostenitori dello Stato unico per ebrei e palestinesi non mollano

Con 138 sì, 9 no e 41 astenuti l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il 29 novembre la mozione che accoglie la Palestina come Stato "osservatore" all'Onu. Un passaggio cercato dal presidente palestinese Abu Mazen nella stessa data del voto che alle Nazioni Unite nel 1947, con una decisione rivelatasi sbagliata, approvò il piano di spartizione della Palestina, con lo Stato di Israele e uno Stato palestinese mai nato.
Lo status di "osservatore" è altra cosa e la Palestina rimane infatti un paese sotto occupazione militare dei sionisti che ne hanno il controllo effettivo. La Palestina potrà soltanto ratificare le convenzioni internazionali sui diritti umani, dalla Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale alla Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine di Apartheid. Potrà almeno diventare un'Alta Parte Contraente delle Convenzioni di Ginevra e ratificarne i due protocolli aggiuntivi, dandogli il potere di perseguire i crimini internazionali commessi sul proprio territorio, in virtù dell'Articolo 146 della Quarta Convenzione di Ginevra. Crimini di cui potrà investire la Corte penale internazionale. Il più "pericoloso" potere acquisito da Abu Mazen a quanto risulta dai giudizi espressi da vari governi.

Le votazioni
I soli nove voti contrari sono venuti dagli Stati Uniti di Obama e da Israele in compagnia di Canada, Repubblica Ceca, Micronesia, Isole Marshall, Nauru, Palau e Panama. I paesi europei si sono divisi tra molti favorevoli e alcuni astenuti. Astenuta la Germania e i tradizionali alleati sionisti Olanda e Gran Bretagna; Londra aveva chiesto a Abu Mazen, in cambio del voto a favore, l'impegno palestinese a non portare Israele dinanzi alla Corte penale internazionale per i crimini di guerra e contro l'umanità. Richiesta formalmente non accolta. Il primo ministro italiano Mario Monti, in un primo momento incline all'astensione, ha schierato l'Italia per il voto a favore ma ha subito telefonato al premier sionista Netanyahu per rassicurarlo sulla "forte e tradizionale" amicizia fra Italia e Israele e per garantirgli il "fermo impegno italiano ad evitare qualsiasi strumentalizzazione che possa portare indebitamente Israele, che ha diritto a garantire la propria sicurezza, di fronte alla Corte Penale Internazionale".
Stando a indiscrezioni uscite dal palazzo di vetro dell'Onu Abu Mazen, contro il parere di diversi esponenti della sua organizzazione, l'Olp, avrebbe garantito che per almeno sei mesi i palestinesi non faranno ricorso al diritto di denuncia presso la Corte.
"Dateci il certificato di nascita", aveva detto Abu Mazen all'assemblea Onu, per "rilanciare il processo di pace", e soprattutto per rimettersi al centro della questione palestinese dopo che la guerra di Gaza e la successiva tregua lo avevano visto spettatore e con un consenso in caduta libera persino in Cisgiordania. Il 23 settembre del 2011 aveva presentato all'Assemblea generale la richiesta di riconoscimento formale dello Stato palestinese; la richiesta era rimasta ferma al palo per l'opposizione degli Stati Uniti che annunciavano il veto al momento in cui sarebbe passata in Consiglio di sicurezza. E Abu Mazen non aveva alzato un dito per difendere la sua richiesta. Aveva ripiegato sul riconoscimento della Palestina nell'Unesco e infine per quello di "osservatore" all'Onu, una richiesta che non doveva passare dal giudizio del Consiglio di sicurezza ma solo dal voto a maggioranza qualificata dell'Assemblea generale.
Dal palco dell'Onu rialzava la testa e i toni affermando che "è arrivato il momento di dire basta all'occupazione e ai coloni, perché a Gerusalemme Est l'occupazione ricorda il sistema dell'apartheid ed è contro la legge internazionale"; ha infine ribadito che i palestinesi "non accetteranno niente di meno dell'indipendenza sui territori occupati nel 1967 con Gerusalemme Est". Già il diritto al ritorno per i palestinesi cacciati dalle loro terre nel 1947 lo aveva recentemente accantonato; lui, uno dei profughi, aveva espresso il desiderio di rivedere il luogo natio solo come turista.
La sera del 29 novembre le bandiere gialle di Fatah sventolavano assieme a quelle verdi di Hamas e a quelle delle altre formazioni della resistenza palestinese in Cisgiordania, soprattutto, e a Gaza. La mossa di Abu Mazen era stata appoggiata dal leader di Hamas in esilio, Khaled Meshaal, il protagonista della trattativa al Cairo sulla tregua a Gaza, ma bocciata dal primo ministro palestinese Ismail Haniyeh e dal leader di Hamas a Gaza, Mahmoud Zahar, che l'aveva bollata come "una stupidaggine". Un contentino che allontana ancora di più la prospettiva di uno Stato palestinese effettivo.
Sull'onda della promozione a "osservatore" la delegazione palestinese vedeva accolte a larghissima maggioranza dall'Assemblea generale alcune bozze di risoluzione presentate l'1 dicembre tra le quali una che chiedeva di prendere immediate misure per giungere alla soluzione del conflitto, attraverso l'applicazione delle decine di risoluzioni Onu mai concretizzate, lo stop della colonizzazione israeliana in Cisgiordania e della costruzione del Muro, passata con 163 i voti a favore, sei i contrari e cinque astensioni; una su Gerusalemme per ribadire l'illegalità delle politiche israeliane nella zona araba della città occupata nel 1967, passata con 162 voti favorevoli, 7 contrari e 6 astenuti. Due prese di posizione importanti ma rese inefficaci dalla mancata volontà dei paesi imperialisti e degli amici dei sionisti di farle rispettare neanche dopo il contemporaneo annuncio da parte del regime di Tel Aviv della costruzione di altri 3 mila alloggi per allargare le colonie in Cisgiordania e in particolare in una parte di Gerusalemme che sarebbe congiunta alla grande colonia di Maale Adumim tagliando in due la Cisgiordania.
D'altra parte alla vigilia del voto il premier sionista Benjamin Netanyahu aveva già ammonito che "non cambierà alcunché sul terreno" e aveva messo le mani avanti dichiarando che "non sarà costituito uno stato palestinese senza il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico; non sarà costituito uno Stato palestinese senza la proclamazione della fine del conflitto; non sarà costituito uno Stato palestinese senza provvedimenti di sicurezza reali che difendano lo Stato di Israele e i suoi abitanti. (...) Come primo ministro di Israele non consentirò che una nuova base terroristica dell'Iran venga a costituirsi nel centro di questa terra, nella Giudea-Samaria (Cisgiordania, ndr) a un chilometro da qua", ossia da Gerusalemme, dove teneva il discorso.
Nella riunione del 2 dicembre il governo sionista decideva inoltre per rappresaglia di bloccare il trasferimento delle tasse raccolte per conto dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) sulle merci transitate dai porti israeliani secondo gli accordi firmati a Parigi nel 1994; si tratta di circa 90 milioni di euro, che dovevano essere trasferiti a dicembre all'Anp. Il premier Netanyahu ribadiva che "Israele continuerà a costruire a Gerusalemme e in ogni luogo della mappa degli interessi strategici dello stato di Israele" e con una faccia di bronzo senza pari affermava che "la mossa unilaterale dell'Autorità palestinese all'Onu è un'impudente violazione degli accordi firmati", come se lo status di "osservatore" equivalesse al riconoscimento pieno. Quanto a violare gli accordi e le leggi internazionali i sionisti sono i primi nel mondo. Come certificato anche solo dal mancato rispetto delle risoluzioni Onu sulla Palestina.

Le ritorsioni di Tel Aviv
D'altra parte Tel Aviv può permettersi di spadroneggiare sulla Palestina grazie alla complicità dei paesi imperialisti. La decisione di allargare le colonie e l'occupazione della Cisgiordania ha provocato una ridicola reazione degli Usa e dell'Unione europea. La responsabile della diplomazia Ue, l'inglese Catherine Ashton, ha osato "esortare" Israele a retrocedere dai suoi piani in quanto rappresenterebbero un "ostacolo alla pace". "L'Ue - mormorava la Ashton - ha ripetutamente affermato che l'espansione degli insediamenti è illegale secondo il diritto internazionale" e chiedeva al governo israeliano di "mostrare il suo impegno per una ripresa dei negoziati di pace non perseguendo questo progetto". Cinque governi europei (Francia, Gran Bretagna, Spagna, Danimarca e Svezia) e l'Australia convocavano i rispettivi ambasciatori israeliani per esprimere la loro protesta. Che finora non ha smontato nemmeno un mattone nelle colonie che punteggiano tutta la Cisgiordania.
Già ora le aree autonome palestinesi sotto il controllo dell'Anp, e uniche figlie dei falliti accordi di Oslo del 1993, sono come bantustan, i ghetti sudafricani dell'apartheid. Qui dovrebbe nascere lo Stato indipendente palestinese, senza continuità territoriale, senza sovranità, senza controllo delle sue frontiere e del suo spazio aereo; quello che sarebbe l'obiettivo finale della soluzione dei "due popoli, due Stati".
Le motivazioni addotte dagli Usa di Obama per votare contro la promozione a "osservatore" all'Onu della Palestina sono state appunto quelle che tale passaggio sarebbe stato un ostacolo al processo di pace; è "controproducente per il principio due popoli, due Stati" affermava il segretario di Stato americano Hillary Clinton. Stessa argomentazione nella nota di Palazzo Chigi che annunciava il voto favorevole dell'Italia. La decisione, si legge nella nota, "è parte integrante dell'impegno del governo italiano volto a rilanciare il processo di pace con l'obiettivo di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, che possano vivere fianco a fianco, in pace, sicurezza e mutuo riconoscimento".
Per Netanyahu questo vuol dire considerare "Israele come Stato del popolo ebraico", uno Stato ebraico che porta all'annullamento di fatto della risoluzione dell'Onu 194 che sancisce il ritorno dei profughi palestinesi del 1948 nella loro terra d'origine e ribadisce il ruolo di cittadini di serie inferiore della minoranza palestinese in Israele, dei 1,6 milioni di arabi israeliani.
Il processo di pace avviato sotto l'egida dell'imperialismo americano e che aveva portato agli accordi di Oslo del 1993 tra il presidente palestinese Arafat e il sionista Shimon Peres prevedevano tra gli altri la creazione dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), un governo palestinese ad interim sulla striscia di Gaza e su pezzi della Cisgiordania che sarebbe stato in carica per un periodo di cinque anni durante i quali sarebbe stato negoziato un accordo permanente verso la costituzione dello Stato palestinese, a partire al più tardi dal maggio 1996. Tale negoziato non si è mai avviato, a Tel Aviv avevano altri progetti.

Il fallimento degli accordi di Oslo
Nel frattempo la striscia di Gaza è stata trasformata dai sionisti in una prigione a cielo aperto per l'oltre milione e mezzo di palestinesi che ci vivono sotto l'amministrazione del legittimo governo di Hamas mentre è andato avanti il progetto sionista di annettere tutta Gerusalemme Est e gran parte della Cisgiordania, lasciando ai palestinesi il controllo, parziale, dei loro principali centri abitati.
Le proposte per una soluzione della questione palestinese avanzate dall'imperialismo e riportate negli accordi di Oslo del 1993, o le varianti riportate in tutti i piani successivi si sono dimostrate funzionali agli interessi imperialisti dei sionisti israeliani e una negazione dei diritti dei palestinesi. L'ipotesi dei "due popoli, due stati" non è altro che la continuazione di questa politica. Fallimentare per il popolo palestinese. Nel tempo si è fatta spazio una diversa ipotesi per una soluzione che prevede un solo Stato in Palestina, discussa e sostenuta anche tra i progressisti ebrei, contrari quantomeno alla pulizia etnica praticata dai governi di Tel Aviv.
Un solo Stato in Palestina era l'ipotesi iniziale dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), modificata da Arafat per firmare gli accordi di Oslo. Accordi rifiutati da Hamas che dopo la vittoria nelle elezioni per il parlamento palestinese del 2006 e la formazione del governo guidato da Haniyeh tramite il suo portavoce a Gaza affermava che "noi possiamo accettare la creazione di uno stato in Cisgiordania, nella striscia di Gaza e a Gerusalemme Est, con il ritorno dei profughi e la liberazione di tutti i prigionieri. Allora potremo firmare una tregua di lunga durata, per dieci anni se occorre, o anche di più". Ma "per quanto riguarda il rifiuto dell'esistenza d'Israele e il rifiuto della permanenza degli ebrei in Palestina, permetteteci di distinguere tra gli ebrei in quanto tali, cioè in quanto seguaci di una religione, che noi rispettiamo e con cui abbiamo condiviso una storia onorevole attraverso la storia islamica, e l'attuale occupazione sul nostro territorio. Il problema infatti non è un problema con gli ebrei. Noi porgiamo il benvenuto agli ebrei che vogliono vivere con noi; questo è un atteggiamento permanente che constatiamo lungo tutta la storia dell'Islam, già compresa l'epoca del nostro Profeta, Maometto. No, il problema è che c'è un'occupazione che grava sul nostro territorio. (...) Ci sono accuse contro il movimento di Hamas, secondo cui questo movimento cercherebbe di 'gettare gli ebrei al mare'. Queste sono affermazioni false e infondate. Noi rispettiamo il giudaismo come religione e gli ebrei come esseri umani. Invece, noi non rispettiamo un'occupazione che ci caccia dalle nostre terre e che pratica contro di noi ogni forma di aggressione, adoperando le armi più atroci, utilizzate contro il nostro popolo palestinese".

5 dicembre 2012