La "fase due" della politica di lacrime e sangue
Il piano di Monti: liberalizzazioni selvagge e libertà di licenziamento

Incassata l'approvazione pressoché unanime del parlamento nero alla superstangata da oltre 30 miliardi del decreto "salva Italia", il governo Monti della grande finanza, della UE e del massacro sociale procede come un carro armato nell'attuazione della "fase due" della cura di lacrime e sangue imposta al Paese: quella del cosiddetto "piano per la crescita", che sulla carta dovrebbe rilanciare l'economia e far crescere l'occupazione, ma che in realtà prepara solo altri pesanti attacchi ai diritti e alle condizioni dei lavoratori e misure volte ad imporre le leggi del liberismo capitalista in tutti i settori dell'economia e dei servizi, sia a livello pubblico che privato.
Il piano "cresci Italia" di Monti si muove infatti su due direttrici ben precise, le liberalizzazioni del mercato e dei servizi e la "riforma del mercato del lavoro", centrata sull'abolizione delle "rigidità" che ostacolano la "flessibilità in uscita": vale a dire la libertà di licenziamento, che il governo vuole attuare in tempi rapidi, per presentarsi al vertice dell'Eurogruppo di fine gennaio almeno con un pacchetto di misure già approvato. Misure che intende prendere al di là di ogni opposizione sindacale, sociale e "corporativa", perché - è il mantra che ripete in ogni sede e occasione - "ce lo chiede l'Europa" e perché sono indispensabili a far ripartire la crescita economica e creare nuovi posti di lavoro.
Ma è davvero così? Prendiamo per esempio la "riforma del mercato del lavoro". Basterebbe guardare al metodo con cui è stata messa in campo per capire quanto su di essa il governo Monti stia giocando sporco: prima la ministra del Welfare, Elsa Fornero, è partita subito con un brutale e arrogante attacco all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che protegge i lavoratori delle aziende sopra i 15 dipendenti dai licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, rivelando che la sua abolizione è l'obiettivo centrale perseguito dalla "riforma", in continuità con la politica fascista e antioperaia del suo predecessore Sacconi. E che lo avrebbe imitato anche nella sciagurata politica della trattativa separata con i vari sindacati, ovviamente per isolare la CGIL. Poi, di fronte alle forti proteste di questa confederazione, ha dovuto fare un aggiustamento tattico dichiarando che il tema dell'articolo 18 poteva essere affrontato "alla fine" degli incontri con i sindacati.
Ma intanto il governo non perde occasione per ribadire che questo tema "esiste" e che "non deve essere un tabù", come ha detto ultimamente lo stesso Monti anche nell'intervista compiacente a "Che tempo che fa". E come del resto aveva ribadito anche Napolitano nel suo discorso di Capodanno, e soprattutto nel precedente discorso alla cerimonia degli auguri al Quirinale, quando aveva ammonito neanche tanto velatamente la CGIL a non frapporre tabù nella trattativa tra governo e parti sociali.

Monti e Fornero: "Niente veti sull'articolo 18"
"Siamo stati chiamati per fare queste cose - ha detto Monti parlando delle misure in ponte coi giornalisti - e dobbiamo farle anche senza l'accordo di tutti. Questo è il nostro compito altrimenti non ci avrebbero chiamati. Tra un anno ce ne andremo. E questa è pure la ragione per cui non possiamo accettare veti". Dunque questa è la vera linea del governo, e i colloqui "bilaterali" che in questi giorni Fornero ha avviato coi leader sindacali di CGIL, CISL, UIL e UGL hanno solo un valore formale, tutt'al più consultivo. In realtà il governo sta valutando le diverse opzioni di "riforma" del "mercato del lavoro" e degli "ammortizzatori sociali" sulle quali si riserva di decidere alla fine, e tutte conducono allo stesso obiettivo: la completa libertà di licenziamento attraverso l'abolizione dell'articolo 18; cosa sulla quale il principale partito della maggioranza, il PDL del neoduce Berlusconi, lo sprona ad andare fino in fondo. Così come, del resto, fa la Confindustria, che con il suo direttore generale Giampaolo Galli lo invita addirittura ad estendere la licenziabilità anche ai dipendenti pubblici, perché, a suo dire, anche lo Stato "è un'azienda in crisi, dunque deve gestire la crisi come farebbe un'impresa privata ricorrendo alla mobilità, anche esterna se necessario". Neanche Bonanni e Angeletti hanno posto pregiudiziali all'inserimento in agenda del tema dell'articolo 18, così come si sono ben guardati di fare muro con Susanna Camusso contro la tattica governativa degli incontri separati per metterla in difficoltà.
Quanto all'altro dei due partiti principali della maggioranza, il PD del liberale Bersani, basti dire che la prima opzione di "riforma del mercato del lavoro" sposata da Fornero è quella del giuslavorista e deputato PD Pietro Ichino, basata sull'abolizione dell'articolo 18 e la licenziabilità dei dipendenti in cambio di un sussidio decrescente col tempo e di una riduzione delle forme di precariato. Una linea fortemente sponsorizzata dalla destra veltroniana ed ex democristiana del PD, ma non affatto esclusa neanche da Bersani, il quale ribadisce di "non essere pentito" della fiducia accordata a Monti, gli chiede solo di non rompere l'accordo raggiunto il 28 giugno tra le direzioni sindacali e si attesta attualmente sulla seguente linea opportunista, sostanzialmente condivisa da Susanna Camusso: "Trattiamo su tutto, ma le priorità non sono i licenziamenti, la flessibilità in uscita. L'articolo 18 è l'ultimo problema". Da trattare cioè alla fine ma comunque da trattare, come concede del resto anche la Fornero. Anche il liberal-trotzkista Vendola copre a sinistra l governo Monti accreditando la favola delle misure per la "crescita": "Se il governo - ha scritto infatti il leader di SEL sul suo sito Facebook - farà nel secondo tempo quei provvedimenti di giustizia sociale, sostenibilità ambientale, crescita economica mancati fino ad ora, noi lo apprezzeremo".

"Licenziare per favorire l'occupazione"
Nessuno di costoro però, né la Confindustria né il governo né gli imbroglioni della "sinistra" borghese che lo coprono e lo sostengono, sono in grado di spiegare perché la libertà di licenziamento dovrebbe come per magia aumentare i posti di lavoro, in una situazione di recessione ormai in atto e di dilagante disoccupazione come quella in cui è precipitato il Paese. E neanche ci spiegano perché mai la "flessibilità in uscita" dovrebbe essere una priorità mentre sono aperte drammatiche vertenze in ogni settore industriale, che interessano secondo fonti sindacali ben 230 casi di crisi aziendali (tra cui Fincantieri, Irisbus, Lucchini di Piombino, Pansac, Ansaldo Breda, Fiat, tutto il polo chimico, degli elettrodomestici e buona parte di quello tessile), che coinvolgono 300 mila lavoratori e mettono in pericolo nel breve periodo altri 30-40 mila posti di lavoro.
Davvero tutto ciò si può affrontare e risolvere abbattendo il tabù dell'articolo 18? Mentre l'Istat certifica che tra ottobre e novembre si sono persi altri 28 mila posti di lavoro, la maggior parte donne, e che la disoccupazione giovanile ha ormai varcato la spaventosa soglia del 30%? Eppure ciò è esattamente quanto il governo Monti, la UE, Napolitano, la Confindustria, il partito del neoduce Berlusconi e la "sinistra" borghese vorrebbero dare a bere. Anche uno studio dell'Ocse ha dimostrato la falsità della tesi che in Italia sia più difficile licenziare che nel resto d'Europa: secondo questo studio (Strictness of employement protection), l'"indice di flessibilità" per i licenziamenti in Italia è di 1,77, al di sotto della media mondiale che è di 2,11. In Germania e nei paesi scandinavi, per esempio (indice 3,0), licenziare un lavoratore a tempo indeterminato è più difficile che in Italia. L'Italia invece ha un indice tra i più alti (4,88) solo per quanto riguarda i licenziamenti collettivi: ma questo è da considerarsi un male?

Liberalizzare nel privato per privatizzare nel pubblico
Quanto al piano di liberalizzazioni il governo punta a realizzarlo in tempi ancor più rapidi, quasi sicuramente attraverso un decreto legge da approvare nella riunione del Consiglio dei ministri del prossimo 20 gennaio. Fermo restando che interverremo nel dettaglio appena questo piano verrà reso noto, intanto si può già osservare che dopo la liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura dei negozi già passata con la manovra di dicembre, nel mirino del governo ci sono di nuovo i tassisti e le farmacie, i cui provvedimenti che li riguardavano, come la liberalizzazione delle licenze per i primi e la liberalizzazione della vendita dei medicinali di fascia C per le seconde, erano stati stoppati in parlamento dall'opposizione di PDL e Lega che si ergono a loro protettori in cambio di voti. A questi si aggiungono ora altri settori, come energia (rete gas), distributori di carburanti, servizi postali assicurativi e bancari, trasporti, ordini professionali e tutto il comparto dei servizi pubblici, a cominciare dalle municipalizzate, acqua compresa. È questo infatti l'obiettivo finale a cui mira il piano di liberalizzazioni del tecnocrate borghese Monti: liberalizzare il settore privato come anticamera per arrivare a liberalizzare e dare in pasto ai privati l'intero comparto dei beni e servizi pubblici.
La logica è la stessa per entrambi i settori: spalancare le porte al mercato capitalista selvaggio, rimuovere ogni ostacolo che si frappone tra i cittadini-consumatori e i pochi e sempre più grandi gruppi monopolistici, anche stranieri, che si spartiscono l'intero mercato nazionale delle merci e dei servizi. La scusa è quella di favorire la concorrenza tra soggetti diversi per abbassare i prezzi. Ma si tratta di pura demagogia, come l'esperienza dei settori già liberalizzati da anni dimostra. Basti pensare al caso clamoroso dell'acqua, le cui tariffe hanno subito dappertutto un'impennata dopo le liberalizzazioni e privatizzazioni delle municipalizzate. Ma lo stesso si può dire dei carburanti e delle polizze RC auto, dove i petrolieri e le compagnie di assicurazione hanno fatto cartello all'interno dei rispettivi gruppi per cui riescono a tenere alti i prezzi base pur lasciando agli utenti l'illusione di rosicchiare qualche infimo risparmio migrando da un distributore all'altro e da una compagnia all'altra.
Un'illusione, questa della maggior concorrenza, avallata anche dal liberale Bersani, non a caso il più deciso nel coprire e incoraggiare la politica liberalizzatrice e privatizzatrice del governo Monti, essendo stato il primo ad aprire questa strada quando era ministro allo Sviluppo economico nel secondo governo Prodi. Poi si è visto in realtà a chi sono andati i benefici di quella politica. In ogni caso la concorrenza tra soggetti privati ci può essere solo laddove ci sono da lucrare profitti, altrimenti nessuno ha interesse a gestire servizi pubblici, anche se di grande utilità sociale: il caso tipico è quello del trasporto ferroviario, dove già si assiste all'ingresso di nuovi soggetti nelle linee di lusso ad alta velocità (vedi la società di Montezemolo e Della Valle), mentre le linee regionali e locali per i pendolari sono sempre più abbandonate e allo sfascio e non fanno gola a nessuno. A meno che nel piatto non ci sia anche un rincaro sostanzioso del prezzo dei biglietti e degli abbonamenti, per cui si cadrebbe dalla padella nella brace.

Il costo sociale delle liberalizzazioni
Dove invece le liberalizzazioni producono effettivamente un abbassamento dei prezzi, come nel caso del commercio, occorre valutare però anche i risvolti sociali negativi che non vengono mai citati, e che sono quelli della desertificazione dei quartieri, attraverso la sparizione dei piccoli esercizi di strada a vantaggio dei supermercati, dei centri commerciali, degli outlet e dei grandi monopoli della distribuzione. Con il parallelo aumento della disoccupazione, dello sfruttamento dei lavoratori rimasti e del degrado della vita civile nelle città, sempre più caratterizzate da centri urbani dedicati allo shopping di lusso e periferie-dormitorio sempre più squallide e abbandonate al degrado. La Confesercenti, l'organizzazione che a differenza di Confcommercio rappresenta più la piccola che la grande e media distribuzione, per esempio, denuncia che con la liberalizzazione delle aperture nei prossimi tre anni chiuderanno altri 80 mila esercizi commerciali e si perderanno 240 mila posti di lavoro.
Quanto agli ordini e ai gruppi professionali, come avvocati, tassisti, farmacisti, edicolanti, benzinai ecc., è vero che presentano chi più chi meno caratteristiche corporative, ma questo non può fornire il pretesto al governo per una liberalizzazione selvaggia di questi settori, tanto più se mira - come si legge in trasparenza - a favorire anche qui solo i grandi gruppi privati con più forza economica e contrattuale: che siano i grandi studi legali all'americana, i più avvantaggiati dall'abolizione dei minimi tariffari; le grandi compagnie private di taxi, capaci di fare incetta di licenze deprezzate e di arruolare autisti a basso costo per prendere il controllo del ghiotto settore; i grandi centri commerciali, che accentrerebbero anche grosse fette del mercato dei carburanti, dei medicinali, dei giornali, e così via.

11 gennaio 2012