Un avvertimento della mafia e della destra
Il pm Di Matteo minacciato di morte
"Perché questo paese non può finire governato da comici e froci"

Con due lettere anonime di "avvertimento" spedite alla Procura di Palermo, la mafia ha fatto sapere di aver decretato l'eliminazione fisica di Nino Di Matteo, il magistrato attualmente più esposto d'Italia, che il prossimo 27 maggio sosterrà la pubblica accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia che vede sul banco degli accusati boss di Cosa nostra, politici e uomini delle "forze dell'ordine".
Le due lettere uguali, scritte al computer e firmate da un sedicente "uomo d'onore della famiglia trapanese" che si proclama in "disaccordo" con la decisione, sono state prese molto sul serio dagli inquirenti, perché contengono dei particolari molto precisi sugli spostamenti del magistrato e sui punti deboli delle misure protettive che lo riguardano, tanto che è stato subito disposto il rafforzamento della sua scorta e intensificata la sorveglianza intorno al tribunale di Palermo.
La morte di Di Matteo, dicono le missive, è stata decisa "in alternativa a quella di Massimo Ciancimino", ed "è stata chiesta dagli amici romani di Matteo (Matteo Messina Denaro, il boss tuttora latitante, ndr), perché questo paese non può finire governato da comici e froci". Si aggiunge che "Matteo ha dato l'assenso" e ha coinvolto "altri uomini d'onore, anche detenuti", e che il "botto" avverrà a maggio, con armi ed esplosivo già pronti in alcuni depositi segreti di Palermo.
In Procura l'"avvertimento" mafioso ha riportato immediatamente al clima dell'estate del 1992, con i sanguinosi attentati ai giudici Falcone e Borsellino, e questo per le impressionanti coincidenze con la situazione attuale, in piena crisi politica generata da elezioni dall'esito incerto, dall'assenza di un governo e con una difficile elezione del nuovo capo dello Stato, e alla vigilia di uno dei più importanti processi a Cosa nostra, in cui sono implicati anche rappresentanti delle istituzioni che all'epoca parteciparono alla trattativa segreta tra lo Stato e la mafia: "Il clima complessivo è tale da destare la massima attenzione - ha dichiarato infatti il procuratore generale di Palermo Francesco Messineo - perché ci sono numerose analogie tra la situazione attuale e il '92: abbiamo lo stallo istituzionale, una fase di confusione politica e un'imminente elezione del capo dello Stato".
Anche allora vi furono "avvertimenti" e segnali che preannunciavano le stragi, tutti però volutamente ignorati dall'alto: le telefonate della sedicente "Falange armata", le veline dell'agenzia dell'andreottiano Vittorio Sbardella, che annunciavano un "botto" proprio alla vigilia dell'attentato di Capaci, la lettera del terrorista nero Elio Ciolini che preannunciò l'eliminazione di Salvo Lima e la cronologia degli attentati successivi, e così via.

Silenzio delle istituzioni e dell'"informazione" di regime
Ma, esattamente come allora, questa preoccupazione del superiore di Di Matteo non è condivisa affatto fuori dalla cerchia dei magistrati antimafia in prima linea, visto che all'infuori de Il Fatto Quotidiano non ne ha parlato praticamente nessun altro organo di "informazione", e non uno straccio di dichiarazione di solidarietà a Di Matteo è venuto dai vertici delle istituzioni politiche, a partire dal nuovo Vittorio Emanuele III, Napolitano, tanto sollecito invece nel difendere il diritto del "cittadino" Berlusconi di sottrarsi alla giustizia e nel concedere la grazia a una spia latitante condannata per complicità in rapimento e tortura; e nemmeno da parte dal Consiglio superiore della magistratura, che Napolitano presiede, che anzi ultimamente si è fatto vivo solo nell'avviare un'azione disciplinare contro l'ex collega di Di Matteo, Antonio Ingroia.
Perfino il vertice dell'Associazione nazionale magistrati sta osservando un rigido e inqualificabile silenzio sulla vicenda, dopo essersi già distinto nel dicembre scorso nell'attaccare i pm palermitani schierandosi dalla parte di Napolitano. Cosa che aveva provocato le dimissioni di Di Matteo dall'associazione stessa, da lui accusata di essersi "andata sempre più caratterizzando per interventi che sembrano dettati da criteri di 'opportunità politica'... a scapito della doverosa tutela di colleghi impegnati in attività giudiziarie delicate".
Al contrario, invece della solidarietà, proprio lo stesso giorno che è partito l'"avvertimento mafioso", il 21 marzo, il pm antimafia ha ricevuto in davvero strana coincidenza un avviso di provvedimento disciplinare avviato dal procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, per aver violato i "doveri di diligenza e di riserbo" e il "diritto di riservatezza" del capo dello Stato, con l'intervista a la Repubblica in cui confermò l'esistenza delle intercettazioni tra quest'ultimo e l'imputato al processo sulla trattativa Stato-mafia, Nicola Mancino, ministro dell'Interno all'epoca dei fatti. Intercettazioni che guarda caso erano già state rivelate dal settimanale Panorama di proprietà di Berlusconi, ma quell'intervista fornì il pretesto a Napolitano per il ricorso alla Corte costituzionale che poi lo ha salvato decretando la distruzione delle intercettazioni, e a distanza di un anno l'ha fornita anche a Ciani per colpire e isolare ancor di più il magistrato già nel mirino di Cosa nostra. Tra parentesi il Pg Ciani fu, riguarda caso, proprio quello a cui si rivolse Napolitano, su richiesta di Mancino, per sollecitare l'avocazione dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia dalle mani dei pm palermitani; e il Pg obbedì subito, sollecitandola a sua volta all'allora procuratore antimafia Pietro Grasso, che però si svincolò accortamente dalle indebite pressioni di Ciani chiedendo una richiesta scritta, che ovviamente non poté essere fornita.
"Dopo quella iniziativa disciplinare un poco inopportuna, se non addirittura scandalosa - ha commentato amaramente il procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi - Di Matteo è più isolato che mai. Chi vuole creare preoccupazione e tensione ha antenne sottili per comprendere questo momento e non si fa scrupolo per rendere il clima ancor più pesante". La mafia, cioè, capisce benissimo quando un magistrato è isolato e osteggiato dalle stesse istituzioni che lo dovrebbero invece sostenere e proteggere, e lo colpisce proprio in quel momento: come è successo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, "massacrati e poi pianti con ipocrite lacrime e onorati soltanto perché erano morti, non costituivano più un pericolo per chi, lasciandoli soli, ne aveva decretato la morte", ha osservato nel suo blog Salvatore Borsellino annunciando una manifestazione di solidarietà delle "Agende rosse" davanti al tribunale di Palermo per l'8 aprile.

Strategia mafiosa per una soluzione politica di destra
Tale isolamento è tanto più grave in un momento in cui Di Matteo sta concludendo il processo agli ex ufficiali del Ros dei carabinieri, Mauro Mori e Mario Obinu, imputati per aver favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano, sempre nel quadro della famigerata trattativa Stato-mafia: "Questo è un momento drammatico in cui lo Stato processa sé stesso", ha detto il pm nella sua requisitoria, e in queste sue parole c'è la chiave per capire quello che successe allora, quando "una parte delle istituzioni, per una inconfessabile ragion di Stato, ha cercato il dialogo con la mafia, nel convincimento che fosse utile a ristabilire l'ordine pubblico". Ma anche quello che minaccia di ripetersi oggi, per favorire una soluzione di destra all'attuale crisi politico-istituzionale creata dalla situazione economica e sociale esplosiva e dal sommovimento elettorale che ha portato allo stallo e all'ingovernabilità il regime neofascista.
I riferimenti agli "amici romani" di Matteo Messina Denaro, ossia ai suoi referenti politici, e ai "comici e froci" che rischiano di andare al governo al loro posto, leggi Grillo e il suo Movimento 5 Stelle e il governatore siciliano Crocetta, e/o quello pugliese Vendola, parlano molto chiaro a tale riguardo. Non si vogliono "salti nel buio" e che si creino maggioranze "nuove" e non ancora ben controllate da Cosa nostra tramite i suoi "amici" nei partiti tradizionali della destra e della "sinistra" borghesi: in altre parole si vuol favorire un governo PD-PDL come chiede a gran voce Berlusconi, e l'inciucio tra il neoduce e i notabili del PD per portare al Quirinale un altro Vittorio Emanuele III che tenga a bada i magistrati e garantisca gli occulti e antichi legami di complicità tra le istituzioni borghesi e Cosa nostra.

10 aprile 2013