La legge d'iniziativa popolare è una iniziativa riformista e fuorviante
Il "Reddito minimo garantito" non è condivisibile
Occorre battersi per il lavoro a tutti stabile, a salario intero, a tempo pieno e sindacalmente tutelato per tutti i disoccupati e i precari

Promossa da 34 associazioni, movimenti (dai Basic income Network-Italia a Tilt, da San Precario al popolo Viola, da SEL a PRC di Roma) è partita all'inizio di luglio, la campagna per raccogliere le firme per la presentazione in parlamento di una legge d'iniziativa popolare per l'introduzione del "reddito minimo garantito". Ne occorrono almeno 50 mila.
In un documento di presentazione si apprende che tale "reddito minimo garantito" spetterebbe a tutti coloro (inoccupati, disoccupati, precariamente occupati) che percepiscono un reddito non superiore a 7.200 euro l'anno. Inoltre, devono essere residenti sul territorio nazionale da almeno due anni ed essere iscritti nelle liste di collocamento dei Centri per l'impiego. In termini monetari prevede l'erogazione di 7.200 ero all'anno, pari a 600 euro al mese, rivalutabili in base al costo della vita registrato dall' Istat. Possono concorrere anche le Regioni e gli enti locali attraverso l'erogazione di "reddito indiretto" ossia favorire la prestazione di beni e servizi. Decade il diritto a ricevere tale reddito minimo quando il beneficiario è assunto con contratto a tempo indeterminato, partecipa a percorsi d'inserimento lavorativo retribuiti, "rifiuti una proposta congrua d'impiego dopo il riconoscimento delle sue competenze".
Più in generale, la proposta d'iniziativa popolare prevede una delega al governo il quale (in teoria) dovrebbe definire una "riforma" degli "ammortizzatori sociali" per realizzare un sussidio unico di disoccupazione esteso a tutte le categorie di lavoratori al di là della tipologia contrattuale; il riordino delle prestazioni assistenziali in modo da renderle coerenti all'erogazione del minimo garantito; stabilire per legge il salario minimo orario.
Secondo i promotori, il "reddito minimo garantito" avrebbe lo scopo " di contrastare il rischio marginalità, garantire la dignità della persona e favorire la cittadinanza attraverso un sostegno economico". Il quale agirebbe contro la precarietà "in quanto toglie dalla ricattabilità, è argine allo schiavismo, al lavoro nero e al ricatto mafioso".
Tra gli sponsor dell'iniziativa, Nichi Vendola, leader di SEL, tra i primi firmatari, e Maurizio Landini, segretario generale della FIOM diventato, negli ultimi tempi un paladino del "reddito di cittadinanza" fino a farlo approvare in una riunione del Comitato centrale FIOM di alcuni mesi fa. C'è la richiesta di adesione anche delle segreterie di CGIL, CISL e UIL e non è detto che non arrivino visto che la CES (Confederazione europea dei sindacati) di cui fanno parte è sostenitrice antica del "reddito minimo garantito" nell'ambito di una "riforma" dello "Stato sociale" (leggi dimagrimento e privatizzazione) e che lo stesso parlamento europeo è sulle stesse posizioni.
Non dubitiamo delle buone intenzioni dei promotori della legge d'iniziativa popolare, ma a noi del PMLI non convince e perciò non la condividiamo, e non da oggi. Non tanto e non solo sui contenuti specifici sui quali non ci dilunghiamo, ma sulla proposta in sé. Il dibattito sull'introduzione di uno strumento di questo genere, e delle sue varianti, che si chiamino "reddito minimo garantito", "reddito minimo d'inserimento", "reddito sociale minimo", "salario sociale" va avanti da oltre 20 anni. Diversi i disegni di legge presentati nel tempo: nell''89 ben due, il primo da parte dei DS, primo firmatario Antonio Bassolino, il seconda per un "salario di cittadinanza" da parte dell'allora Democrazia proletaria, primo firmatario, Giovanni Russo Spena. Nel '98, con i governi di "centro-sinistra" D'Alema/Amato il reddito minimo diventa legge dello Stato (Dlg n.273/98), si chiamerà "reddito minimo d'inserimento" con risultati del tutto deludenti, assai lontani dalle aspettative. Tra il 2000 e il 2002 altre due proposte di legge targate PRC: per "il salario sociale" la prima, presentata da Fausto Bertinotti, per il "reddito minimo sociale" presentata da Salvi, Cento e dal Comitato per il "reddito minimo garantito" la seconda. C'è anche un'esperienza a livello regionale, quella della Campania che nel 2004 approvò, anche con i voti di AN, un provvedimento per l'introduzione del "reddito di cittadinanza" che si risolse, al di là delle promesse roboanti della giunta Bassolino e del PRC che lo sosteneva, in un'elemosina per pochi e per breve durata.
Non bisogna dimenticare che i primi a pensare a un "minimo vitale" a un "sussidio di povertà" furono gli economisti di scuola liberale e liberista, come Milton Friedman, per citarne uno famoso in sostituzione del diritto al lavoro e ai servizi sociali e previdenziali. Successivamente i socialdemocratici, specie europei, fecero propria la proposta del "reddito di base" garantito, in vista di una revisione del welfare, in dimensione ridotta, per ragioni di debito della spesa pubblica. Infine sono arrivati i trotzkisti che ne hanno fatto una loro bandiera. In tempo di "globalizzazione" dei mercati con i suoi effetti negativi sull'occupazione la richiesta del minimo garantito invece del diritto del lavoro è diventata esplicita. La tesi è: il lavoro tende a scomparire, e quello che rimane a precarizzarsi. Per cui, a parte una minoranza super professionalizzata, ci sarà chi dovrà accettare un lavoro malpagato, chi dovrà aspettare anni prima di trovare un lavoro e chi il lavoro non lo troverà mai. Atteso che gli attuali "ammortizzatori sociali" risultano inadeguati ad affrontare questa nuova situazione, continua, ci vuole un modo per distribuire reddito a chi non lavora, un "reddito base" sufficiente per condurre una "vita dignitosa".
Non che l'analisi sia infondata. Tuttavia non condividiamo la rinuncia che essa presuppone alla piena occupazione e ai diritti sociali, del lavoro e previdenziali fondamentali universalistici, dichiarati irrealizzabili nel tempo della "globalizzazione" imperialista e dunque un ripiegamento sul terreno della sussidiarietà, sul "minimo vitale garantito". E soprattutto non condividiamo la rinuncia al rovesciamento della società capitalistica che in tale schema è ampiamente sottointeso.
Non va indebolita ma rafforzata la lotta per il lavoro a tutti stabile, a salario intero, a tempo pieno e sindacalmente tutelato, a partire dall'abrogazione della legislazione che regola il lavoro precario, lo sviluppo del Mezzogiorno almeno al pari degli standard raggiunti al Centro-Nord del Paese, piani straordinari per l'occupazione per giovani, donne disabili e disoccupati di lungo periodo (con un costo di 25 miliardi di euro si potrebbe creare rapidamente un milione di posti di lavoro), un fisco più leggero per i redditi medio-bassi e più pesante sui redditi alti, le rendite e i grandi patrimoni, una pensione adeguata, sanità, scuola e università pubbliche e gratuite. Tutto ciò non esclude certo gli "ammortizzatori sociali" con in testa l'indennità di disoccupazione che deve essere al pari del salario medio degli operai dell'industria e durare un periodo congruo alla ricerca di un nuovo lavoro.
Siamo ben consapevoli che nel capitalismo non è possibile risolvere i problemi economici e sociali delle masse lavoratrici e popolari in modo soddisfacente e stabile. Proprio per questo proponiamo di lottare per il socialismo, più esattamente per l'Italia unita rossa e socialista. Una strategia questa all'interno della quale collochiamo le rivendicazioni immediate sopracitate.

Firenze, 18 luglio 2012