Contro il governo Erdogan e la religione al potere
Rivolta popolare in Turchia
Tre morti, 4 accecati, migliaia di feriti, oltre 1.700 arrestati non fermano la collera dei manifestanti
Due giorni di sciopero contro le violenze della polizia

La protesta era iniziata il 27 maggio quando un gruppo di ambientalisti aveva piantato le tende al Gezi Park, nel pieno centro di Istanbul presso piazza Taksim, per protestare contro la decisione del governo di abbattere i 600 alberi del parco e far posto a un centro commerciale e altri edifici. Il 31 maggio l'intervento brutale della polizia per sgomberare il campo e permettere l'avvio dei lavori ha innescato una reazione a catena che dalle decine di migliaia di manifestanti scesi immediatamente a piazza Taksim per respingere l'intervento poliziesco ha portato in pochi giorni centinaia di migliaia di dimostranti in particolare a Istanbul e Ankara ma anche in quasi una settantina di città in tutto il paese a dar vita a una rivolta popolare contro il governo del premier Recep Tayyip Erdogan. Una rivolta che non si è fermata al momento in cui scriviamo; la collera dei manifestanti è stata più forte della repressione poliziesca che ha causato tre morti, 4 accecati, centinaia forse migliaia di feriti e oltre 1.700 arrestati. Secondo il ministro degli Interni Guler dal 31 maggio al 3 giugno ci sono state 235 manifestazioni di protesta in tutto il paese. Mentre il 4 giugno il sindacato dei lavoratori pubblici proclamava due giorni di sciopero contro le violenze della polizia.
La vicenda è iniziata in piazza Taksim, la piazza storica delle manifestazioni e delle proteste antigovernative che Erdogan teme tanto che lo scorso Primo Maggio il governo ha posto il divieto alla tradizionale manifestazione per i diritti dei lavoratori e inviato la polizia a reprimere le proteste. Dietro la piazza si trova il parco di Gezi che nei mega progetti del premier doveva essere cementificato. Di pari passo con altre zone della città, secondo un piano che prevede anche grandi opere come il terzo ponte sul Bosforo, i cui lavori sono iniziati a fine maggio.
Varie associazioni ambientaliste e sindacati, intellettuali e singoli si erano rivolti a un tribunale amministrativo per salvare il parco. Il tribunale gli dava ragione ma il sindaco della città ignorava la sentenza e all'alba del 31 maggio inviava i bulldozer a spianare il campo e dare il via ai lavori. I manifestanti si opponevano e la polizia interveniva con violente cariche, col lancio di gas lacrimogeni ad altezza d'uomo e l'impiego di idranti. Le immagini del feroce intervento della polizia riprese coi telefonini da parte dei manifestanti e rilanciate dalla rete, confrontate col silenzio tombale dedicato alla vicenda dagli organi di informazione controllati dal governo, spingevano migliaia di persone a scendere in piazza a dar man forte ai manifestanti a Gezi. Nel pomeriggio del 31 maggio erano almeno in 50 mila i dimostranti in piazza Taksim per contestare la cementificazione della città, denunciare la repressione poliziesca e per chiedere le dimissioni del premier. Sotto accusa la politica del governo e in particolare il graduale inserimento di principi e regole religiose nei comportamenti e nelle leggi contestate dalla parte laica del paese.
Il premier Erdogan ribadiva che i progetti andranno avanti e difendeva l'intervento della polizia: "la polizia c'era ieri, è di servizio oggi e lo sarà domani perché la piazza Taksim non può diventare il luogo in cui gli estremisti fanno quel che vogliono". I media hanno paragonato piazza Taksim a Istanbul a piazza Tahrir al Cairo, un paragone temuto da Erdogan che è al potere dal 2002 ed è impegnato a rivoltare Istanbul come un calzino, dotata fra gli altri di un nuovo grande aeroporto e un nuovo canale parallelo al Bosforo per farne il simbolo della aggressiva tigre economica turca e delle sue ambizioni egemoniche regionali, che partono dall'interventismo nella crisi siriana a fianco dei paesi imperialisti e dei sionisti.
Un progetto che non poteva essere fermato da un gruppo di ambientalisti la cui battaglia è diventata la scintilla che ha incendiato il paese. E quella che era nata come una protesta ambientalista assumeva la forma di una battaglia per la libertà di stampa e di opinione proprio in un paese che è al primo posto nel mondo per numero di giornalisti imprigionati, che sono 76, con accuse che vanno dall'essere sostenitori dei gruppi curdi al vilipendio alla religione o agli organi dello stato, a volte senza alcun capo di imputazione preciso. La protesta si estendeva rapidamente alle principali città da Ankara e Smirne e finanche a Konya, una città roccaforte del partito islamico Akp (Partito della Giustizia e dello sviluppo) di Erdogan.
Negli scontri del 31 maggio si registravano un migliaio di feriti, almeno 4 persone accecate, centinaia gli arrestati. Secondo fonti dell'opposizione gli arrestati sarebbero stati oltre un migliaio, fermati durante gli scontri nella notte e rilasciati dopo diverse ore.
La rivolta continuava nei giorni successivi in tutto il paese. L'1 giugno a Ankara la polizia usava i cannoni ad acqua e i gas lacrimogeni per impedire ai manifestanti di avvicinarsi al parlamento. Stessa situazione a Istanbul con la protesta che non si fermava nemmeno durante la notte quando centinaia di manifestanti attraversavano il ponte sul Bosforo e raggiungevano il lato europea della città superando lo sbarramento della polizia.
Erdogan ammetteva "eccessi" da parte della polizia che veniva fatta ritirare da piazza Taksim immediatamente rioccupata da migliaia di manifestanti.
Il 3 giugno centinaia di manifestanti a Istanbul si riunivano davanti alla sede di una rete privata per denunciare la censura dei principali organi di informazione del paese sulla protesta di massa. Altri manifestanti sfilavano in corte nel quartiere di Besiktas, vicino alla residenza sul Bosforo di Erdogan, e affrontavano le cariche delle forze antisommossa. Altri scontri si registravano nel centro di Ankara, a Kizilay, vicino al palazzo della presidenza del governo.
La dura repressione da parte della polizia ha suscitato condanne da tutto il mondo. Fra queste quelle della Casa Bianca con Obama che si è detto "preoccupato" e ha chiesto un'indagine sul comportamento della polizia. Immediatamente seguito dalla riaffermazione della necessaria stretta cooperazione tra i due paesi nella crisi siriana. Che il fidato alleato Erdogan si tolga al più presto dagli impicci è ciò che più preoccupa l'imperialismo americano.

5 giugno 2013