La rivolta popolare per il lavoro e la libertà in Tunisia ha vinto
L'affamatore e oppressore è fuggito

La rivolta popolare per il lavoro e la libertà ha costretto l'affamatore e oppressore presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali a fuggire e a rifugiarsi in Arabia Saudita. La protesta inziata nelle regioni interne, la parte povera del paese già affamata e colpita duramente dagli aumenti dei prezzi dei generi di prima necessità decisi dal governo, si è allargata a macchia d'olio verso le zone costiere fino alla capitale Tunisi, dove vive oltre il 30% della popolazione, ha trovato largo sostegno soprattutto tra i giovani colpiti dalla disoccupazione dilagante, si è trasformata in una rivolta di massa contro la dittatura di Ben Ali.
La rivolta ha sfidato la repressione poliziesca, che ha provocato una ottantina di morti, e ha aperto crepe nel regime mollato dall'esercito e difeso solo dai corpi speciali della polizia. Ha saputo, con gran parte dei dirigenti dell'opposizione in esilio all'estero, organizzarsi costituendo gruppi di auto difesa popolare e territoriale nati spontaneamente e successivamente appoggiati dal sindacato Ugtt che si sono diffusi in tutte le città e i villaggi della Tunisia. E che continuano a organizzare una lotta che prosegue contro il nuovo esecutivo, contro il pericolo di una modifica formale delle istituzioni che annulli il successo della rivolta che ha posto fine al regime di Ben Ali.
Il presidente tunisino era apparso il 13 gennaio alla televisione di stato per annunciare il divieto alle forze dell'ordine di far fuoco contro i dimostranti, per promettere "profondi cambiamenti", a partire dalla possibilità di organizzare libere manifestazioni, libertà di stampa e nessuna censura a Internet. Contemporaneamente il governo decretava la riduzione dei prezzi dei generi di prima necessità. Troppo tardi.
Il discorso del presidente avveniva al termine di una giornata di rivolte in tutto il paese nonostante la polizia ancora uina volta avesse usato le armi contro i dimostranti. E altre centinaia di migliaia di dimostranti scendevano in piazza il 14 gennaio, in occasione dello sciopero generale indetto a Tunisi dal sindacato, chiedendo le dimissioni di Ben Ali; una richiesta che riecheggiava nelle altre città da Sidi Bouzid, dove era iniziata la protesta nello scorso dicembre, a Radès, il più importante porto commerciale del Paese nella periferia sud della capitale.
A Ben Ali non restava che scappare con la moglie e un tesoro di 1.500 chili d'oro, per un valore di 45 milioni d'euro.
Una fuga che portava il Consiglio costituzionale a proclamare, il 15 gennaio, la "vacanza definitiva del potere" e la nomina di Foued Mebazaa, presidente del Parlamento, al posto di presidente della Repubblica ad interim. Una decisione che alcuni rappresentanti dell'oposizione criticavano affermando che "la Tunisia ha cacciato il dittatore, ma la dittatura resta. La dittatura non è solo Ben Ali, la dittatura è il sistema. E il sistema si basa sul partito, l'Rdc (Rassemblement constitutionnel democratique, ndr) al potere sotto Ben Ali".
Il primo atto del presidente ad interim era l'incarico al primo ministro Mohammed Ghannouchi di formare un nuovo governo. Il premier si impegnava a liberare tutti i detenuti politici, a aprire inchieste su chi possedeva enormi ricchezze o persone sospettate di corruzione e comunicava che le elezioni legislative e presidenziali si sarebbero tenute entro sei mesi.
Nell'esecutivo di unità nazionale presentato il 17 gennaio da Ghannouchi era abolito il ministero dell'Informazione, che per anni ha controllato rigidamente i media, erano indicati alcuni rappresentanti indipendenti e leader dei partiti di opposizione. Ma dalla lista dei ministri restavano esclusi i partiti dichiarati illegali sotto il regime di Ben Ali mentre restavano sotto il controllo del Rcd ministeri chiave quali Esteri, Interni, Finanze e Difesa. Sulla presenza nel nuovo governo di esponenti del regime del deposto presidente il premier sosteneva che i ministri confermati hanno "sempre agito per preservare l'interesse nazionale" e "hanno le mani pulite".
Non era questo il giudizio dei dimostranti che il 18 gennaio scendevano in piazza a Tunisi e marciavano nella centrale Avenue Bourghiba prima di essere dispersi dalla polizia. Gli slogan contro il Rcd, tradotti su alcuni cartelli anche in inglese erano chiari: "Libertà, la rivoluzione continua", "non ci lasceremo scippare la rivoluzione da Ghannouchi", "Rcd vattene" e "processo per i responsabili del regime, cambiare la costituzione". Senza cambiamenti della costituzione solo gli esponenti del vecchio regime potrebbero candidarsi alle prossime elezioni presidenziali. Nel corteo erano presenti diversi militanti del sindacato Ugtt che faceva sapere di "non riconoscere il nuovo governo".
"Il dittatore non c'è più ma la dittatura rimane", era il commento di diversi esponenti dell'opposizione che si apprestavano a tornare in patria. Almeno tre dei ministri indicati da Ghannouchi rifiutavano l'incarico.
Il premier nel difendere il nuovo esecutivo sosteneva che negli ultimi tempi la Tunisia fosse "gestita dalla moglie di Ben Ali", Leila Trabelsi, più che dal partito del presidente. Come dire che parte dei vecchi gestori del potere non erano responsabili quantomeno delle ultime nefandezze del regime di Ben Ali. Certo la famiglia del presidente e in particolare quella della moglie avevano sotto controllo gran parte del potere economico del paese e erano responsabili della dilagante corruzione nelle istituzioni. Ma l'ascesa al potere di Ben Ali racconta anche un'altra storia. Salito al potere con un golpe nel 1987, Ben Alì si presentò subito come delfino delle grandi potenze europee, e soprattutto come grande amico degli Usa. Allora la Tunisia si liberò dell'ingombrante presenza dei palestinesi dell'Olp, si distaccò da Gheddafi (che oggi si rammarica per la caduta di Ben Ali che continua a considerare "il legittimo presidente") e si avvicinò all'Italia di Craxi, e per costui diventerà il rifugio sicuro quando dovrà scappare per sfuggire alla galera, e agli Usa. È in quegli anni che investitori italiani intensificano i rapporti con il paese trovando lavoratori a buon mercato e ottime condizioni fiscali, seguiti da quelli francesi. La Tunisia di Ben Ali sarà un buon partner per i paesi imperialisti nella difesa contro il "fondamentalismo islamico".
Il sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi alla vigilia della cacciata di Ben Alì aveva voluto riaffermare pubblicamente il sostegno del governo italiano a costui e al suo regime antipopolare.
Un ruolo che i paesi imperialisti si augurano continui a mantenere. Lo afferma il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini quando ha sostenuto che con la Tunisia "abbiamo ottimi rapporti commerciali" e "fanno bene gli imprenditori che non se ne vanno. D'altronde, non esistono condizioni di pericolo e questo è un governo che va sostenuto con forza. il nostro compito è di aiutarli quando é necessario ma non entrare su ciò che devono o non devono fare", il ogni caso, precisa, "dobbiamo aiutare questi governi a mantenere la barra molto dritta contro estremismo e fondamentalismo". Il pensiero è rivolto anche ai regimi di Algeria e in parte di Egitto e Marocco, in situazioni simili alla Tunisia e col rischio che le masse popolari possano imparare dalla vittoriosa rivolta della Tunisia e spodestarli.

19 gennaio 2011