Al 2° congresso i rinnegati del comunismo cantano l'inno di Mameli
I DS APPRODANO DOVE VOLEVANO CRAXI E AMATO
Amato: "Da anni aspettavo un giorno come questo. Siamo dello stesso sangue''. Cossutta: "Peccato che la più grande forza riformista non c'è più, è stata il PCI''. Bertinotti: "Socialdemocratici, magari''. Applausi di Ciampi e del presidente della Confindustria. Il caporione fascista Rauti ringrazia per l'invito. Maggioranza (61%) e minoranza (34%) rappresentano due partiti in uno
L'ANTICOMUNISTA LIBERALE FASSINO ELETTO SEGRETARIO

Doveva essere un congresso straordinario di "svolta'', dopo la disfatta elettorale del 13 maggio, per chiarire cause e responsabilità della sconfitta e imprimere un cambiamento di rotta a un partito avviato a un inesorabile declino. E invece, se di "svolta'' si può parlare, quella sancita dal 2° congresso nazionale dei DS, celebrato dal 16 al 18 novembre a Pesaro, è stata ancor più a destra, rispetto al 1° congresso di due anni fa a Torino. La linea liberale e socialdemocratica del Lingotto ne è uscita ancor più accentuata e sacralizzata, con l'approdo pieno e proclamato al riformismo socialdemocratico di Craxi e Amato. Massimo D'Alema, il principale responsabile, assieme al transfuga Veltroni, della politica fallimentare del partito dei rinnegati del comunismo degli ultimi anni, è ancora presidente del partito, e il neoeletto segretario Piero Fassino, che si vanta di essere un socialdemocratico da sempre, un anticomunista, un tecnocrate liberale intimo di casa Agnelli, è un suo stretto alleato. Il "correntone'' rappresentato da Giovanni Berlinguer, in cui erano confluiti la "sinistra'' interna, gli ulivisti veltroniani, Salvi, Cofferati e Bassolino, e che avrebbe dovuto fare i conti con Fassino e i dalemiani, ha fatto invece flop ed è stato sconfitto, ma il partito ne esce comunque diviso in due, e i rischi di un autoscioglimento o di nuove scissioni restano più forti di prima, al di là dell'ipocrita unità di facciata proclamata da tutte le componenti.
Questa in sintesi la situazione sancita dal congresso, che del resto si delineava chiaramente anche alla vigilia delle assise pesaresi, dopo che il dibattito precongressuale e i giochi dei padroni delle tessere avevano già assegnato la vittoria, col 61%, alla mozione "Per governare il futuro'', presentata da Fassino e firmata da tutti i dalemiani, tra cui Bersani, Angius, Turco, Visco, Napolitano, Errani, più 12 segretari regionali. Alla mozione diretta avversaria "Per tornare a vincere'', presentata dal "correntone'' di Berlinguer, firmata anche da Trentin, Folena, Mussi, Salvi, Cofferati, Fumagalli, Melandri e Bassolino, più 3 segretari regionali, era andato solo il 34% dei voti. Il restante 5% era andato alla mozione "Per salvare i DS e consolidare l'Ulivo'', presentata da Enrico Morando e raggruppante tutti gli ulivisti occhettiani, tra cui Petruccioli, Turci, Debenedetti, Mancina e Macaluso.
Più che sull'elezione di Fassino e sulla riconferma della linea del Lingotto, praticamente date per scontate, lo "scontro'' si è quindi spostato su una linea più arretrata, come la questione della riconferma o meno della carica di presidente del partito, inventata apposta per D'Alema, e sulla rappresentanza della minoranza (cariche politiche e istituzionali, spazi e autonomia all'interno e all'esterno del partito, ecc.). Ma anche su questi punti il "correntone'' ha collezionato sconfitte: totale sull'elezione di D'Alema, che è stato riconfermato grazie anche alle contraddizioni tra le varie anime dell'"opposizione'' su come condurre la battaglia contro la riconferma dell'istituto della presidenza della Quercia. Parziale sulle cariche e gli spazi, dal momento che è stata bocciata la richiesta della minoranza di avere la direzione di uno dei due gruppi parlamentari. Perdipiù essa non avrà alcuna rappresentanza nella nuova segreteria del partito, composta tutta da fedelissimi di Fassino e D'Alema, ma ha ottenuto solo (forse) la candidatura di Bassolino a diventare il vice di Rutelli nell'Ulivo al posto di Fassino.

UN CONGRESSO DA "ULTIMA SPIAGGIA''
Tuttavia la scontata vittoria dei fassiniani e dalemiani non è stata propriamente una marcia trionfale. Gli stessi slogan adottati per questo congresso tradiscono il clima cupo, depresso, da ultima spiaggia, in cui in realtà il partito dei rinnegati si è trovato costretto a celebrarlo: "Il coraggio di cambiare il mondo'', con la parola "mondo'' scritta a rovescio, era infatti il titolo scelto per queste assise straordinarie dettate da una sconfitta inaspettata, arrivata come una mazzata dopo 5 anni al governo del Paese, che ha ridotto questo partito al 16% dei voti (il 12% rispetto all'intero elettorato), dal 30% e passa che aveva raggiunto a metà degli anni '80. Un involontario simbolo di uno stato d'animo sconcertato e funereo, ancor più crudemente rappresentato dallo slogan coniato dallo stesso Fassino: "O si cambia o si muore''. Perfino D'Alema, cercando di rianimare il partito attorno alla sua nuova direzione e alla linea congressuale, ha alimentato senza volerlo il clima pessimista che è aleggiato inesorabilmente sulla tre giorni pesarese, quando ha avvertito che se falliranno anche queste scelte "non ci sarà una prova d'appello''.
Tra gli invitati una folta rappresentanza della casa del fascio e del governo Berlusconi, tra cui il consigliere personale del neoduce e sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e poi Casini, Fisichella, Pisanu e La Russa. Particolarmente significativa dei nuovi "rapporti'' instaurati con i fascisti ex repubblichini la presenza di Pino Rauti, che ha ringraziato per l'invito. C'era anche Vittorio Agnoletto, per il cui invito in rappresentanza del movimento no-global aveva particolarmente insistito Cesare Salvi.
In apertura dei lavori il congresso in piedi ha cantato l'inno di Mameli, secondo ormai la liturgia patriottarda, nazionalista e militarista imposta da Ciampi per tutte le manifestazioni pubbliche, a cui i rinnegati DS reggono zelantemente il sacco. Sbrigata subito la formalità dell'elezione di Fassino alla guida del partito, il congresso ha ascoltato il suo discorso di investitura, zeppo di citazioni dei nuovi "maestri'' dei rinnegati nostrani: Blair, Schroeder, Jospin e perfino Roosevelt. La tesi centrale di questo discorso è la seguente: "Abbiamo perso le elezioni e siamo entrati in una crisi molto profonda, perché non siamo riusciti a rendere evidente e netto il nostro riformismo. C'è stato un deficit di riformismo''. Ragion per cui - ne conclude Fassino - "dobbiamo spingerci oltre, avere più coraggio'': avere più "vocazione governativa'' che "tendenza all'opposizione''. In questo quadro ha chiuso ogni spiraglio al dialogo con i no-global, ribadendo la scelta guerrafondaia della Quercia, e ai nuovi pruriti operaisti e movimentisti di Cofferati. Anzi, nella replica ha chiesto e ottenuto che il congresso inviasse addirittura un applauso e un messaggio di solidarietà alle truppe italiane in partenza per l'Afghanistan.

L'APPRODO ALLA "CASA DEI RIFORMISTI''
Insomma, per superare una crisi che è conseguenza di scelte neofasciste, antioperaie e guerrafondaie occorre girare la barra del partito ancora più a destra! Questa la paradossale ricetta salvifica di Fassino, che imperterrito ha proclamato la fine della "traversata del deserto'' per i DS e l'approdo - finalmente - al "progetto più largo'' della "casa dei riformisti'' di Giuliano Amato, per restituire all'Italia un'"unica e grande forza del riformismo socialista italiano'', che si confronti anche con Rifondazione per "riconoscersi reciprocamente come espressione di una sinistra plurale''.
"La storica contrapposizione tra movimento comunista e socialdemocrazia è stata risolta dal crollo del muro di Berlino'', ha tagliato corto il neo segretario della Quercia rivolto alla inquieta "sinistra'' interna, citando lo stesso Amato per sottolineare l'irreversibilità della svolta: "Il passato è finito e l'imperativo del presente è costruire il futuro''. Nella replica, a ribadire il concetto, Fassino ha rivolto un ringraziamento solenne al "padre'' storico dei riformisti del PCI-PDS-DS, Napolitano, che - ha detto - "ci avrebbe fatto risparmiare tanto tempo se lo avessimo ascoltato alcuni anni fa''.
Entusiastico il commento di Giuliano Amato, ai cui piedi, in quanto erede di Turati, Nenni e Craxi, Fassino ha deposto le spoglie di quello che un tempo fu il PCI: "Sono anni che aspettavo un giorno così...non è il giorno della fine ma quello dell'inizio di un processo che cambia la storia che cominciò nel '21''. A nome dell'intera classe dominante borghese in camicia nera e fez, cogliendo al volo la "svolta'' di Pesaro, Ciampi ha inviato un messaggio di caloroso saluto al congresso, con il quale i DS "si presentano come moderno partito riformista europeo, impegnato nelle istituzioni e nel paese per la costruzione di un'Italia più giusta al suo interno e più autorevole nel contesto internazionale''. E difatti anche il presidente di Confindustria, Antonio D'Amato, ha apprezzato la "grande ansia riformatrice nell'esposizione fatta da Fassino'': "mi è piaciuta - ha aggiunto - la voglia di una sfida forte per il cambiamento e per le riforme''.
Il falso comunista Cossutta plaude all'"unità delle forze socialiste e riformiste'', ma si rammarica perché "il primo vero partito riformista in Italia, il PCI, non c'è più''. E l'imbroglione trotzkista Bertinotti, a sua volta, ha definito il discorso di Fassino "coerente con quello che pensa e onesto'', e la sua linea politica "all'apparenza socialdemocratica ma nel concreto centrista, liberale''. Come a dire: DS socialdemocratici? Magari!

TUTTI FIGLI DEL PSI
D'Alema, intervenuto nella seconda giornata e accolto con grandi ovazioni, è apparso ancora come il vero leader del partito dei rinnegati, per quanto abbia cercato di fare appello all'unità di tutti attorno al nuovo segretario. Ma chi ha veramente fatto breccia nei delegati, dopo che Fassino e D'Alema gli avevano spianato la strada, è stato Giuliano Amato. Non ha dovuto far altro che raccogliere il frutto già maturo che questi gli avevano offerto su un piatto d'argento: "PCI e PSI se le sono date di santa ragione - ha detto infatti l'erede del disegno craxiano intervenendo applauditissimo in chiusura dei lavori - ma erano figli dello stesso sangue, sono nati tutti dal partito che fu fondato nel 1892''. "Non lo volete considerare padre, consideratelo nonno. Ma quando si arriva ai nipoti il sangue è lo stesso''.
"Oggi finalmente siamo tutti riformisti'', ha poi ironizzato Amato, ricordando ai congressisti che "un tempo riformista ero solo io. Voi vi chiamavate riformatori, perché l'altra parola non vi piaceva. Fa piacere, adesso, sentirvi litigare su cos'è riformista''. Essendo lui l'autore del "progetto'', ha poi delineato con più precisione di Fassino il "partito dei riformisti'' che si andrà a costituire: un "partito grande della sinistra'', sul modello di Blair, in cui trovino casa "come è sempre stato'' riformisti e massimalisti, capace di irretire anche movimenti anticapitalisti come i no-global. Un partito in cui - ha sottolineato - "non mi piacerebbe che Bertinotti fosse il segretario, ma di cui non c'è ragione che anche lui non sia un militante''. Strano? Non tanto, perché chiunque conosce "l'ABC del comunismo'' - ha spiegato Amato - capisce che il leader di RC non è in realtà che "un socialdemocratico estremista''.
Quello che non era riuscito insomma a Craxi e Amato a causa dell'esplodere di tangentopoli - riassorbire il PCI-PDS nel PSI entro il centenario della sua fondazione - sta riuscendo ora a un decennio di distanza. Sempre che questo processo faccia in tempo a realizzarsi compiutamente e il partito dei rinnegati del comunismo non sparisca prima fagocitato dall'Ulivo, come vogliono i veltroniani e gli occhettiani, o dilaniato da altre scissioni a sinistra. Certo è che le cause oggettive della sua profonda crisi non sono state minimamente scalfite da questo congresso, nonostante le diverse formule escogitate per aggirarle ("Cosa 1'', "Cosa 2'', il "socialismo liberale'' e ora la "casa dei riformisti''), e bruciate una dietro l'altra prima ancora di averle fatte digerire alla sua sempre più assottigliata e disorientata base. Cosa che è stata ben espressa nel suo intervento da uno smarrito Folena con queste sconsolate parole: "Sono dieci anni che svoltiamo, che parliamo di approdo al socialismo riformista e di una unità più ampia della sinistra. Ma ad ogni congresso contiamo i voti in meno che abbiamo''.

L'INCOGNITA DI COFFERATI E DELLA "SINISTRA''
Continua a pesare, anche dopo il congresso, l'incognita Cofferati, che non si sa cosa deciderà di fare "da grande'': se cioè sarà tentato di usare la Cgil, con lo scontro sindacale con Confindustria e governo che già bussa alle porte, per scardinare il precario equilibrio post congressuale e muovere alla conquista dell'egemonia di fatto di un partito diviso e alla ricerca disperata di un'identità e di un leader presentabili, ridotto com'è a gestire uno spazio politico sempre più angusto, schiacciato tra lo strapotere di Berlusconi e il revanscismo democristiano, a destra e al centro, e il riaccendersi dei movimenti di lotta, a sinistra. Il segretario della Cgil lo ha praticamente fatto capire, quando nel suo intervento molto duro verso la linea riformista di destra della maggioranza, paradossale se si pensa alla sua formazione riformista amendoliana, ha detto: "Considero questo il mio partito'', ma dentro di esso vivono "due idee diverse di riformismo''.
Anche Salvi, del resto, ha voluto rimarcare che il congresso non ha riavvicinato le diverse posizioni, e che se la maggioranza non terrà nel debito conto le istanze della minoranza si potrebbe andare incontro a nuove divisioni: cosicché, ha detto, magari "voi cercherete di tessere la vostra tela, mentre noi ci adopereremo per distruggerla''. Lo stesso Berlinguer, applauditissimo autore di un intervento assai sferzante contro Fassino, si è mostrato scettico sul futuro dell'unità congressuale, rispondendo "me lo auguro'' a chi gli chiedeva se ora i DS sono più uniti di prima. Anche Bassolino, che per l'occasione aveva furbescamente messo da parte il doppiopetto di governatore per indossare i vecchi panni di operaista, ha agitato lo spettro di una "scissione'', se non nel partito almeno tra il partito e le giovani generazioni, "che sono di sinistra ma non trovano il dialogo con noi''.
Che farà, insomma, la "sinistra'' diessina? Sembra che stia decidendo di dar vita a un "coordinamento nazionale'', senza scissioni. Per ora. Intanto lancia segnali verso Rifondazione e i movimenti. Tortorella, su il manifesto, rilancia l'idea della "federazione'' tra le varie "anime'' interne ai DS, che si proietti anche all'esterno, nella "sinistra sociale''. Fulvia Bandoli, su Liberazione, prende atto che "il partito è uno, ma parla lingue diverse'', e annuncia: "Agiremo su due terreni, dentro e fuori il partito''. E rilancia anche lei l'idea della "federazione''.
Tutto questo non fa che aumentare la confusione, la Babele di lingue e il disorientamento che si sono abbattuti su questo partito, da quando la parte più cosciente del suo elettorato, disgustato dall'esperienza dei governi Prodi, D'Alema e Amato, l'ha abbandonato per l'astensionismo e si è dissolto il collante dell'esercizio del potere di governo che ha tenuto insieme le sue diverse "anime'' negli anni del "centro-sinistra''.

5 dicembre 2001