Siria
Un milione in piazza sfidano la repressione di Assad
Inaccettabile ingerenza di Usa e Francia
Le manifestazioni del 15 luglio, le ultime dei venerdì di proteste contro il governo del presidente Bashar al-Assad iniziate il 15 marzo nella città meridionale di Deraa, sono state le più partecipate delle proteste di massa nei quattro mesi di rivolta; il venerdì dedicato alla "liberazione dei prigionieri politici" ha visto scendere in piazza almeno un milione di manifestanti in varie città del paese, circa 500 mila sono sfilati per le vie di Hama e altrettanti a Deir Ezzor, secondo le opposizioni; altre decine di migliaia manifestavano a Damasco, Homs, Idleb, Deraa e Talbisa.
In alcune città polizia e esercito sono intervenuti contro i cortei e hanno aperto il fuoco uccidendo una quarantina di manifestanti, la maggior parte dei quali partecipavano alla protesta nei quartieri periferici della capitale Damasco, centinaia i feriti e gli arrestati.
La repressione governativa, che secondo le opposizioni ha causato la morte di circa 1.500 manifestanti, non ferma la rivolta popolare contro il regime di Assad che è cresciuta e si è estesa in larga parte del paese.
Altre manifestazioni si erano svolte nei giorni precedenti fra le quali quella del 13 luglio a Damasco dove circa 200 artisti e intellettuali erano sfilati in corteo per il centro chiedendo la fine dell'assedio delle città e la liberazione dei prigionieri.
Dal 10 al 13 luglio si era tenuta a Damasco la conferenza preliminare per il dialogo nazionale promossa dal governo e a cui erano stati invitati esponenti politici dell'opposizione e della società civile (artisti, religiosi, intellettuali). Alcuni dei partecipanti hanno chiesto un serio impegno del governo per il varo di riforme politiche in senso democratico, evidenziando la contraddizione tra le promesse di maggiori libertà avanzate da Assad, ma ancora lontano dall'essere messe in pratica, e il pugno di ferro usato dal suo governo contro la protesta nelle piazze.
I principali organizzatori delle manifestazioni rispondevano con un "no al dialogo" fino a quando il governo non avesse messo fine alla repressione e avesse liberato tutti i prigionieri politici. Mentre il 16 luglio a Istanbul si teneva una conferenza dell'opposizione siriana promossa da personalità indipendenti e partiti politici per "costituire un consiglio transitorio di salvezza nazionale" con l'obiettivo di definire il percorso politico "che possa permettere al paese di uscire dal totalitarismo e dalla tirannia per raggiungere un percorso democratico", spiegavano gli organizzatori. Un percorso ancora da definire ma che potrebbe funzionare se sostenuto dalle manifestazioni popolari e se terrà fuori dalla porta le ingerenze dei paesi imperialisti che lavorano contro Assad non certo negli interessi del popolo siriano quanto per i propri, contro una Siria schierata a favore delle cause palestinesi e libanesi.
Una inaccettabile ingerenza di Usa e Francia era stata la visita dei loro ambasciatori l'8 luglio a Hama per esprimere aperto sostegno alla protesta contro il governo di Damasco. Una presenza che aveva provocato la reazione dei sostenitori del presidente Assad che tentavano di fare irruzione nelle ambasciate dei due paesi nella capitale mentre un comunicato del ministero degli Esteri siriano denunciava che i due ambasciatori si erano recati nella città "senza ricevere le necessarie autorizzazioni" e si erano resi responsabili di "una ingerenza flagrante nelle questioni interne siriane".
Un'accusa respinta, ma nello stesso tempo confermata, dal segretario di stato Usa, Hillary Clinton, che in una intervista del 15 luglio affermava: "nessuno di noi può veramente influenzare una situazione al di là del fatto che possiamo esprimere le nostre idee e favorire i cambiamenti che noi stessi auspichiamo". Favorire come? Alcuni giorni prima aveva sostenuto che "il presidente Assad non è indispensabile", come se la questione siriana fosse cosa da decidere a Washington e non a Damasco.

20 luglio 2011