Orribile strage di lavoratori a Molfetta: in cinque muoiono intossicati dentro un'autocisterna
Del tutto assenti le azioni di prevenzione. Sciopero generale in Puglia. Il governo in extremis vara il decreto sulla sicurezza
Confindustria arrogante pretende l'impunità

C'era non la certezza, perché governanti e padroni oltre alle lacrime di coccodrillo e alle frasi di circostanza non avevano fatto nulla di concreto, ma almeno l'auspicio che stragi come quella del 6 dicembre scorso alla ThyssenKrupp di Torino dove 7 operai morirono arsi vivi non ne accadessero più. Invece, sia pure con modalità diverse, un simile dramma terribile, inaccettabile, intollerabile si è verificato di nuovo il 3 marzo a Molfetta (in provincia di Bari), alla Truckcenter, una piccola azienda per lavaggi di autocisterne. Proprio mentre erano impegnati al lavaggio di uno di questi mezzi, 4 lavoratori, più il titolare dell'azienda, in rapidissima successione, sono morti intossicati.
Guglielmo Mangano, 44 anni, di Andria (Bari), da 8 mesi lavorava alla Truck. È stato il primo a cadere nella cisterna privo di sensi e subito dopo perde la di vita. Luigi Farinola, 37 anni, sposato con un figlio di 6 anni e un altro che nascerà nei prossimi mesi. È il più lesto a calarsi nella cisterna per prestare aiuto al collega Mangano, senza pensare al rischio che sta correndo. Un attimo e cade senza vita. Segue Biagio Sciancalepore, 26 anni, in carico alla Truck solo da qualche giorno, stessa dinamica, si cala per dare aiuto, ma le esalazioni velenose che hanno riempito l'ambiente non gli danno scampo. Come una catena micidiale si getta dentro anche il giovane Michele Tasca, appena 20 anni, di mestiere cuoco, presente sul posto (forse a nero) per guadagnare qualche euro in attesa della stagione estiva, morirà il giorno dopo. È la volta del "padroncino", Vincenzo Altomare, 64 anni, un ex camionista che in pensione si è inventato questa nuova attività. È la quinta vittima. Vuole andare a vedere cos'è successo, senza precauzioni, cadrà come gli altri.
Morti assurde, avvenute per avvelenamento, per insufficienza respiratoria o cardiocircolatoria. Avvenute non per fatalità ma per una serie di mancanze gravi: insufficiente competenza e professionalità a svolgere questi tipi di lavoro (ripulitura di autocisterne con residui chimici di vario genere); mancanza di strumenti di prevenzione antinfortunistica (i lavoratori deceduti non indossavano nemmeno una semplice mascherina); mancanza di formazione sulla sicurezza che nel caso specifico avrebbe suggerito di non precipitarsi in soccorso se c'è rischio di vita, di non andare senza indossare una maschera con l'ossigeno. È apparso chiaro che nessuno aveva detto ai dipendenti della Truckcenter come comportarsi, quali sono le procedure, in casi come questo. La mancanza o l'insufficienza di cultura e formazione sulla sicurezza di chi lavora e rischia insieme alla mancanza o insufficienza dei mezzi antinfortunistici sono tra le cause principali del fenomeno.
Le responsabilità
Il capitalismo assassino, con le sue logiche perverse tutte finalizzate al massimo profitto, ha versato nuovo sangue operaio. Ci sono responsabilità, oggettive, che sono indubbiamente del proprietario dell'azienda. Ma ci sono altre responsabilità più grandi e più gravi che ricadono sulle istituzioni che hanno il compito di effettuare i controlli nei luoghi di lavoro e di verificare se vi sono violazioni delle norme antinfortunistiche. Non è ancora chiaro che tipo di residui chimici contenesse l'autocisterna e come si sia creata questa miscela irrespirabile che ha causato la morte dei cinque lavoratori. Su questo sta indagando la magistratura. L'ipotesi di reato è quella di omicidio colposo plurimo. Cinque le persone indagate allo stato: Mario Castaldo e Alessandro Buonopane, dirigenti di Fs Logistica proprietaria della cisterna killer; Vincenzo Polito, dirigente della Cemat Puglia che gestisce il deposito delle cisterne a Bari; Pasquale Campanile che con la Fs Logistica ha un contratto per la manutenzione delle cisterne; Filippo Abbinante, l'autista che ha condotto la cisterna dal deposito alla Truckcenter.
Rabbia e sciopero generale
La strage ha suscitato dolore e rabbia anzitutto tra i familiari delle vittime, tra i lavoratori e le masse popolari di Molfetta e della Puglia intera. Come e più del passato, essendo questo un periodo elettorale, governanti e boss parlamentari si sono precipitati a versare le solite, inutili, ipocrite lacrime di coccodrillo. A partire dalla più alta carica dello Stato, Giorgio Napolitano, dal presidente del consiglio Romano Prodi fino al governatore della Puglia Nichi Vendola. Poi Veltroni e perfino Berlusconi. Il che ha fatto dire allo zio di Michele Tasca: "I politici? No, questa passerella per la campagna elettorale non la voglio nemmeno vedere: io non credo più a nessuno, sono lontani dalla gente". Rivolgendosi ai giornalisti ha aggiunto: "Una cosa la potete scrivere, stavolta a votare non vado".
I lavoratori pugliesi il 5 marzo hanno attuato uno sciopero generale regionale di 4 ore indetto dai sindacati confederali. A Molfetta un corteo di 6 mila manifestanti, partendo da piazza del Municipio ha attraversato la città. Molti i giovani, molta la rabbia. Toccante il minuto di silenzio in onore degli operai morti sul lavoro, prima dei comizi finali. La manifestazione è stata anche l'occasione per riportare all'attenzione di tutto il Paese la gravità assoluta delle morti quotidiane sul lavoro che non ha freni, che non si attenua, un'ecatombe, una guerra. Dall'inizio dell'anno sono già 203 le "morti bianche", quattro al giorno, più altrettanti lavoratori deceduti al termine della malattia professionale, ma questi non fanno notizia. Accadono al Nord, come al Centro e al Sud, accadono in tutti i settori. Anche se si riscontra una prevalenza nelle piccole aziende e in edilizia e agricoltura.
Dopo i fatti tragici della Thyssen, dopo quelli non meno gravi di Molfetta, a seguito di una protesta popolare che si è fatta più risentita, più forte e, non per ultimo, a seguito delle imminenti elezioni politiche, il governo Prodi ha deciso di varare nella sua riunione del 5 marzo il decreto attuativo della legge delega 123 dell'agosto scorso che regolamenta la sicurezza sui luoghi di lavoro ma che non sarà immediatamente operativo. Dovrà passare alle commissioni parlamentari, alla Conferenza Stato-Regioni per poi tornare al consiglio dei ministri per l'approvazione definitiva. Il decreto è rimasto fermo colpevolmente sei mesi al ministero del Lavoro in attesa di trovare un accordo con i sindacati e le associazioni padronali. Ma l'intesa non è arrivata per la forte obiezione della Confindustria sulla parte sanzionatoria. C'è appena un mese prima della consultazione elettorale. Vedremo se alle parole seguiranno i fatti.
Un decreto insufficiente
Il testo presentato dal ministro Damiano e poi approvato ha subito modifiche di non poco conto (si potrebbe chiamarle anche cedimenti) per andare incontro alle esigenze delle aziende e superare l'opposizione della Confindustria. In particolare sulla parte che regola le sanzioni a fronte di gravi violazioni di legge sulla sicurezza sul lavoro. Nella versione finale il decreto prevede infatti un regime sanzionatorio più morbido rispetto al testo originale, che stabiliva l'arresto da sei mesi a due anni per il datore di lavoro che non avesse effettuato le adeguate verifiche dei rischi in casi specifici. Diversamente, il decreto approvato concede la possibilità, in alcune circostanze, di tramutare l'arresto - stabilito nei casi di gravi inadempienze in aziende considerate fortemente a rischio fino a un massimo di 18 mesi - col pagamento di un'ammenda non inferiore a 8.000 euro e non superiore a 24.000 euro. A patto che il "datore di lavoro" si metta in regola con gli adempimenti previsti. Questa norma non è applicabile in caso di recidività o se si sono determinati, per colpa del "datore di lavoro", infortuni sul lavoro con danni per la salute del lavoratore.
Ovviamente le sanzioni non solo per violazione delle norme ma per incidenti gravi avvenuti sul luogo di lavoro, con feriti o morti, sono più pesanti: si va dalla sanzione amministrativa fino a 1.500.000 euro, alla sospensione delle attività e all'interdizione alla collaborazione con le pubbliche amministrazioni e alla partecipazione agli appalti pubblici e alle gara d'asta. Secondo i casi si aggiungono le imputazioni di carattere penale per lesioni e omicidio colposo.
Tutto sommato, nulla di trascendentale: agli imprenditori viene chiesto di attuare le norme antinfortunistiche previste nella legge delega n.123. In caso di violazione grave di queste norme scatta una pena variabile tra i 6 e i 18 mesi di carcere, ma con gli sconti di pena e la condizionale la galera non la vedono nemmeno. In caso di morti sul lavoro per colpa palese del padrone è giusto che le aziende paghino una multa più salata (anche se per quelle grandi rappresenta un onere sopportabilissimo) e che vengano escluse dagli appalti pubblici. Ma i padroni, oltre alle lacrime di coccodrillo e alle dichiarazioni di circostanza, vuote e senza conseguenze pratiche e concrete, non ci vogliono mettere altro. Di più, pretendono l'impunità. Il presidente della Confindustria, Cordero di Montezemolo, si è lasciato andare ad affermazioni arroganti e provocatorie: Il decreto "è l'ultimo atto di una sinistra anti-industriale, demagogica... Così si fa demagogia, si rende difficile l'attività delle imprese serie ma si rischia di non salvare una vita in più". Vergogna!

12 marzo 2008