La Telecom non va venduta. Deve essere nazionalizzata

Le bocce non sono ferme e sicuramente vi saranno nuovi sviluppi solo in parte prevedibili. Ma i più recenti avvenimenti sopraggiunti in modo serrato nella tormentata vicenda Telecom sono sufficienti per fare dei bilanci, formulare dei giudizi e trarre delle conclusioni. E cioè che la privatizzazione della Telecom Italia, avviata nel 1997 dal governo Prodi, proseguita dal governo D'Alema nel 1999 e continuata dal governo Berlusconi nel 2001, definita dai protagonisti la "madre di tutte le privatizzazioni", si è rivelata un disastro. I diversi capitalisti che si sono avvicendati nell'acquisto di Telecom (Agnelli, Colaninno-Gnutti, Tronchetti Provera-Benetton) hanno ottenuto il controllo del più grande gruppo telefonico italiano non con soldi propri ma attraverso i prestiti delle banche e dunque l'indebitamento della Telecom. Gli stessi grossi capitalisti hanno puntato più agli interessi propri, alle speculazioni finanziarie che allo sviluppo dell'azienda. Tra questi, Tronchetti Provera è colui che ha prodotto più danni, indebitando, impoverendo, tagliando posti di lavoro. L'annunciata vendita del pacchetto di maggioranza che comanda Telecom Italia ai due colossi telefonici statunitense e messicano rischia seriamente di privare l'Italia di un settore strategico come quello delle telecomunicazioni: dopo la vendita di Wind dell'Enel a un imprenditore egiziano, di Omnitel alla inglese Vodafone, di 3 Italia a un magnate cinese e dopo che la Svizzera Swisscom di fatto si è impossessata di Fastweb. La Telecom va tolta dalle grinfie di capitalisti e finanzieri stranieri o italiani che siano, le soluzioni ricercate tra il governo e le banche per una "cordata italiana" non vanno bene. La nazionalizzazione o per meglio dire la ri-nazionalizzazione è la giusta direzione da battere.

Il fallimento della privatizzazione
Di fronte ai dati di fatto nessuno può rifiutarsi di riconoscere che la privatizzazione della Telecom ha prodotto esiti estremamente negativi, che la gestione dei suddetti padroni, specie quella di Tronchetti Provera, di questi ultimi 8 anni è stata devastante per l'azienda; mentre costoro in un modo o nell'altro hanno intascato soldi. Basti dire, per esempio, che il duo Colaninno-Gnutti, senza aver fatto nulla per meritarli, nel passaggio della Telecom nelle mani Tronchetti Provera, principale azionista di Pirelli e di Olimpia, hanno guadagnato una gigantesca plusvalenza di 1,5 miliardi di euro. Ma anche lo stesso padrone della Pirelli ha succhiato il sangue a Telecom, per ridurre i debiti delle sue aziende, distribuendo dividendi superiori agli utili e ora, vendendola al miglior offerente per intascarne il lauto ricavato. A questo proposito illuminanti risultano le notizie contenute nell'analisi promossa dal sindacato Cgil del settore in particolare quello dell'indebitamento netto che nel periodo considerato è passato da 8 a 42 miliardi di euro; quello relativo alla capitalizzazione dell'azienda passata (a metà 2006) da 114 mila milioni di euro a 41.486 milioni con 72.515 milioni di euro bruciati; quello degli utili non oltre i 12,3 miliardi di euro mentre i dividenti distribuiti agli azionisti e, quindi anzitutto a Tronchetti Provera, sono saliti a 22 miliardi di euro; quello del personale sceso da 117 mila a 70 mila (-30%), senza considerare le conseguenze sull'indotto.
Acquisti sbagliati ed onerosi, come quello di Pagine Utili e della decotta Edilnord, ambedue di proprietà di Berlusconi pagate ben oltre il loro prezzo di mercato. Fusioni onerose (23 miliardi) e controproducenti come quella dell'Olivetti nella Telecom che ha portato, tra l'atro, alla scomparsa della prima in tutti i sensi. Acquisizioni incomprensibili dal punto di vista economico e industriale come quella che riguarda la Tim per un costo di 16,5 miliardi. Ma soprattuto dismissioni a prezzi stracciati per fare cassa: via Seat, Telespazio, Finsiel, via una parte di Tim e sul mercato il patrimonio immenso di immobili della società telefonica. In aggiunta al disastro economico il gravissimo scandalo, su cui sta ancora indagando la magistratura, delle intercettazioni spionistiche organizzate da uomini di vertice della Telecom, come Tavaroli, alle dirette dipendenze di Tronchetti Provera, con la partecipazione di agenti del Sismi e della Cia, da utilizzare nella guerra tra bande della finanza e della politica di palazzo; che certo non ha giovato alla credibilità dell'azienda.

La gestione devastante degli Tronchetti Provera
Il numero uno della Telecom insomma ha potuto fare tutto quello che ha voluto con una disinvoltura e un'impunità totali a danno della stragrande maggioranza degli azionisti, dei lavoratori occupati e del Paese nonostante che di suo, dei suoi capitali, non ci abbia messo più dell'1%, utilizzando il gioco della scatole cinesi dove in quella più grossa ci sta una società più piccola, poi un'altra ancora più piccola e così via dicendo. Ecco come funziona: egli possiede il 100% della Mtp & C. Sapa, che possiede il 61% di Gpi, che possiede il 50,1% della Cam Fin, che possiede il 25,5% di Pirelli & C., che possiede l'80% di Olimpia, che possiede il 18% delle azioni di Telecom. Tutte queste percentuali corrispondono all'incirca all'1% del valore di Borsa della Telecom. E continua a fare ciò che gli torna comodo come si è visto con il "licenziamento" di Guido Rossi dalla presidenza della Telecom che pure ce l'aveva messo lui nel settembre del 2006 per recuperare un'immagine di credibilità parzialmente compromessa dalle vicende suesposte, per poter procedere senza ostacoli nella sua strategia di vendita della società anche alla concorrenza straniera.
Secca la risposta di Rossi affidata a un'intervista a la Repubblica del 6 aprile: "nonostante gli anni di difficoltà, i ridimensionamenti, le occasioni perdute, la Telecom è l'ultima grande impresa italiana che è ancora in grado di fare ricerca". E cita i 3 miliardi di euro investiti in ricerca, innovazione e sviluppo nel 2006. Dice che essa è "un patrimonio del paese. Il suo indebitamento è dovuto solo a quelli che l'hanno scalata, a chi sta ai piani superiori. L'azienda è sana - aggiunge - ha un cash flow straordinario, genera utili. Non merita di essere al centro di un giuoco del massacro". Dice che non si può "obbedire a chi (leggi Tronchetti Provera, ndr) di suo ha investito lo 0,6% del capitale e pretende di controllare la società". Dice che "nessuno osa toccare le anomalie patologiche del nostro sistema: le scatole cinesi e i patti di sindacato". E conclude: "Questa sembra la Chicago degli anni Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei Baroni dei Ladri nell'America del primo Novecento".

Il negoziato con At&t e America Movil
Rossi si riferisce non solo e non tanto alla sua cacciata dalla presidenza Telecom, ma soprattutto alle iniziative assunte da Tronchetti Provera per vendere il gruppo telefonico pensando unicamente agli affaracci suoi e fregandosene del suo futuro. Si riferisce all'accordo di massima realizzato con la statunitense At&t e la messicana America Movil per la cessione del 66,6% di Olimpia e tramite lei del pacchetti di maggioranza della Telecom per 2, 92 euro per azione per un introito complessivo di 4,6 miliardi di euro. Si sono presi un mese di tempo, come da normativa vigente, per precisare e formalizzare l'accordo. Se la infausta cessione andasse in porto l'azienda telefonica di bandiera passerebbe nelle mani di gruppi stranieri con un futuro assai incerto e con possibili ristrutturazioni, separazioni, dismissioni. Per esempio si sa già che la Tim-Brasile sarebbe fagocitata dal colosso telefonico messicano. Inoltre, che fine farebbero le società televisive La7 e Mtv di proprietà Telecom, visto che la legge americana vieta alle società telefoniche di possederle?
Il blitz di Tronchetti Provera, com'era prevedibile, ha suscitato un pandemonio. Anzitutto tra le banche e le società finanziarie che detengono parte delle azioni della Telecom e della Pirelli e che si sono trovate di fronte al fatto compiuto. Si tratta di Hopa, Mediobanca, Generali, si tratta del gruppo bancario Intesa-San Paolo, di Capitalia, oltre che di Benetton che detiene il 4,45% di Pirelli e il 20% di Olimpia. Ha creato un gran movimento in Borsa, con il passaggio di mano in poco tempo di ben il 19% delle azioni Telecom. Reazioni si sono avute anche tra le forze politiche in campo governativo, il ministro per lo sviluppo economico, Bersani (DS), il ministro per le telecomunicazioni, Gentiloni (Margherita) e il ministro per le infrastrutture, Di Pietro (IdV) sono quelli che si sono fatti sentire di più: Prodi invece, scottato dalla vicenda Rovati, fa il pesce in barile, e si limita a dire che spetta al mercato sbrigare la vicenda. Preoccupazioni sono state espresse dai sindacati: c'è il rischio che la Telecom faccia la fine di Alitalia, ha detto il segretario della Cgil Epifani. La cosiddetta "sinistra radicale" presente nel governo condanna la privatizzazione, denuncia la gestione attuale, si dichiara contraria alla vendita agli americani ma si ferma sull'italianità della Telecom e non ha il coraggio di rivendicare la nazionalizzazione. La questione è grossa, anche perché ci sono in ballo le infrastrutture della Telecom, in primis la rete dei cavi pari a 105,7 milioni di km e la fibra ottica pari a 3,7 milioni di km.

La cordata italiana
La partita è però del tutto aperta. Gli attuali (grandi) azionisti di Telecom hanno diritto di prelazione e non è detto che alcuni di loro in qualche modo non lo esercitino. La discussione in atto verte essenzialmente sulla ricerca di una soluzione italiana realizzata tra banche e altri soggetti privati disponibili a gestire il progetto industriale. Si sono fatti i nomi di De Benedetti, di Colaninno e persino di Berlusconi. Ma c'è chi, come Intesa -San Paolo, non esclude un patto con gli stessi acquirenti d'oltreoceano. C'è chi invece preferirebbe un'alleanza con le società europee di settore come Telefonica spagnola, Telecom France, oppure Telekom Deutsche, tutte interessate ad entrare nell'affare Telecom Italia. Un altro aspetto della discussione, questa in sede governativa e politica, verte sulla divisione della rete che dovrebbe tornare di proprietà pubblica, dalle altre attività della società al di là di chi ne controllerà il pacchetto azionario di maggioranza.
In una vicenda di questo genere le sorprese e i colpi di scena sono all'ordine del giorno. Il 17 aprile scorso, giorno in cui si è tenuta l'assemblea degli azionisti e dove si è verificata un'aperta contestazione alla gestione Tronchetti Provera da parte dei piccoli soci, l'At&t ha dichiarato di ritirarsi dall'affare. Il consiglio di amministrazione ha designato alla presidenza, Pasquale Pistorio, un manager che piace sia alla destra e che alla "sinistra" borghese, oltre alla Confindustria e alla finanza internazionale. I sindacati hanno annunciato uno sciopero per il 10 maggio sulla base di queste rivendicazioni: no allo scorporo e alla vendita della Tim, la rete deve restare italiana, per il futuro societario della Telecom, meglio una public company.
Noi pensiamo che nessuna di queste soluzioni vada bene. Pensiamo che la privatizzazione sia stata negativa sia per principio sia per i risultati. Pensiamo che la Telecom non vada venduta perché è un'azienda di interesse nazionale e di carattere strategico di cui il nostro Paese non può privarsi. Pensiamo che la nazionalizzazione sia la più giusta ed efficace via da perseguire per sottrarla alla speculazione finanziaria, evitare la sua frammentazione e ridimensionamento, salvaguardare e sviluppare l'occupazione dei lavoratori e per difendere i diritti di milioni di consumatori. Noi pensiamo che su questo obiettivo si debba costruire un ampio fronte unito a partire dai lavoratori interessati e dalle forze politiche e sindacali, con gli economisti e gli intellettuali democratici e di sinistra a cui stanno a cuore gli interessi del Paese, disponibili a condurre questa importante battaglia.

24 aprile 2007