Gli operai del siderurgico di Taranto in rivolta per difendere il posto di lavoro
Tenere aperta e risanare l'Ilva
Il gip sequestra l'area a caldo dello stabilimento e ordina l'arresto di 8 dirigenti, tra cui il padrone Riva, per "disastro ambientale"

Disastro ambientale doloso e colposo, getto e sversamento pericoloso di cose, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici: è con queste pesanti accuse che il giudice per le indagini preliminari (gip), Patrizia Todisco, a conclusione di un'inchiesta durata due anni e mezzo e firmata dal procuratore Franco Sebastio, ha disposto il 26 luglio il sequestro senza licenza d'uso di sei reparti dell'area a caldo delle acciaierie Ilva di Taranto, parchi minerali, cokerie, agglomerato, altiforni, acciaierie e rottami ferrosi. Con un'altra ordinanza sono stati messi agli arresti domiciliari il padrone dell'Ilva, Emilio Riva, suo figlio Nicola e sei dirigenti dello stabilimento tarantino.
Appena appresa la notizia, nel primo pomeriggio, migliaia di operai sono usciti dallo stabilimento e hanno formato un corteo di protesta che ha marciato per chilometri fino alla prefettura, bloccando gli accessi alla città. Anche il ponte girevole è stato bloccato e presidiato a lungo, fin dopo il tramonto. Le segreterie di Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil hanno proclamato immediatamente uno sciopero ad oltranza, successivamente sospeso. Anche i lavoratori delle acciaierie Ilva di Genova e di Novi Ligure hanno scioperato e manifestato in segno di solidarietà con i loro compagni tarantini.
Difendere il posto di lavoro, impedire la chiusura dello stabilimento, erano le parole d'ordine gridate degli operai, giacché questi sono i pericoli reali che, come incubi da tempo incombenti, l'ordinanza della magistratura ha alla fine fatto materializzare: la chiusura del più grande polo siderurgico d'Italia e d'Europa, secondo solo per produzione di acciaio alla Germania, la perdita del lavoro non solo per i 5 mila operai dell'area a caldo ma per tutti i 12 mila dipendenti dell'azienda, più altri 8 mila dell'indotto, per un totale cioè di 20 mila famiglie che si ridurrebbero di colpo alla miseria e alla fame, vista la mancanza di qualsiasi altra alternativa occupazionale in quest'area del mezzogiorno. Nessuno infatti si fa illusioni: se l'ordinanza di sequestro del gip, che per ora tecnicamente è solo una notifica, in attesa della decisione del tribunale del Riesame che si riunirà il 3 agosto, dovesse essere concretamente attuata, lo spegnimento dell'area a caldo significherebbe inevitabilmente la chiusura dell'intero stabilimento.
"È arrivato il momento di difendere fino all'osso il nostro posto di lavoro perché di questo si tratta: di lavoro. Noi stiamo difendendo il nostro futuro". "Vogliamo solo che ci lascino lavorare ed è giusto metterci in regola con l'ambiente. Lo faremo. Ma non buttateci in mezzo a una strada". Anche perché "chiudere il reparto a caldo vuol dire mettere sulla strada 20 mila famiglie". Questo il tenore dei commenti che circolavano nei cortei e nei blocchi degli operai, che anche il giorno successivo sono tornati a mobilitarsi, fin dalle 7 quando si è tenuta una grande assemblea davanti alla fabbrica con la partecipazione dei segretari nazionali di Fiom (Landini), Fim (Bentivogli) e Uilm (Palombella). Quest'ultimo, che da diversi anni esercitava praticamente l'egemonia sindacale all'Ilva, è stato vivacemente contestato dai lavoratori, segno che gli è stata attribuita giustamente una maggior responsabilità nell'aver lasciato che le cose arrivassero a questo punto. Molto applaudito invece il passaggio del leader della Fiom, Landini, quando ha detto che "i lavoratori devono difendere il proprio posto, ma il gruppo Riva deve investire per migliorare la compatibilità ambientale degli impianti. E gli operai devono pretendere questo dall'azienda".
Dopo l'assemblea sono partiti il corteo e i blocchi stradali che hanno paralizzato di nuovo la città. Il corteo è arrivato fino ad occupare simbolicamente il Palazzo di città, sede del Comune, dove ha ottenuto l'impegno del Consiglio a mettere al primo posto all'ordine del giorno la situazione dell'Ilva. Alcuni blocchi stradali, come quello al ponte girevole, sono continuati fino a tarda sera, anche dopo la notizia della revoca dello sciopero ad oltranza. Gli operai sono rientrati al lavoro, perché il sequestro degli impianti non è comunque ancora operativo, ma dandosi appuntamento per lo sciopero generale del 2 agosto, vigilia della riunione del tribunale del Riesame.

L'impressionante disastro ambientale
D'altra parte nemmeno può essere ignorata la gravità del disastro ambientale e dei danni alla salute della popolazione causati dallo spaventoso inquinamento prodotto impunemente per decenni dall'Ilva. Le stesse perizie medica ed epidemiologica allegate all'ordinanza di sequestro danno un quadro impressionante di questo disastro ambientale, sociale ed umano, certificando la relazione diretta tra emissioni inquinanti della fabbrica e i decessi per tumore, malattie cardio-circolatorie e respiratorie: 174 decessi accertati in sette anni, che riguardano soprattutto i quartieri vicini alle acciaierie, Tamburi e Borgo, dove il tasso di mortalità è quattro volte più alto e i ricoveri per malattie cardiache sono il triplo che nel resto della città, e dove un'ordinanza comunale proibisce ai bambini di giocare nei parchi inquinati. In tutto sarebbero una media di 30 per anno i decessi, 18 per anno i tumori maligni, 19 per anno i ricoveri per eventi coronarici e 74 per anno, principalmente tra i bambini, i ricoveri per malattie respiratorie direttamente attribuibili alle emissioni industriali. Per non parlare dell'inquinamento alimentare e della campagna e del mare circostanti Taranto, dimostrati fra l'altro dall'abbattimento di oltre 2.000 capi di bestiame, il divieto di consumare fegato di ovini e caprini allevati nel raggio di 20 chilometri dall'area industriale, il divieto di pescaggio e vendita di mitili provenienti dal primo seno del Mar Piccolo, e così via.
Questi i tragici effetti di un inquinamento provocato e aggravato dall'aver deliberatamente ignorato e trascurato le più elementari norme di sicurezza e di prevenzione, risparmiando sulle spese di adeguamento tecnologico degli impianti per massimizzare i profitti, e mettendo a tacere i sindacati, i lavoratori e le loro famiglie, le prime a subire i terribili effetti della diossina, del benzopirene, del pcb, delle polveri sottili e degli altri gas che da sempre ammorbano la città, col cinico ricatto della "scelta" tra il lavoro a queste terribili condizioni o la chiusura degli impianti e la perdita del lavoro. E questo sia per ragioni prevalentemente clientelari, quando l'Ilva era ancora statale e si chiamava Italsider, sia per pura sete di profitto, dopo che è stata comprata a prezzi stracciati dalla famiglia Riva grazie alla sua privatizzazione decisa nel 1995.

Inquinamento e logica del profitto
"Chi gestiva e gestisce l'Ilva - scrive infatti il gip Todisco nell'ordinanza riferendosi al gruppo Riva - ha continuato ad inquinare con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza". Anzi, "nel corso degli anni e fino alla data odierna nessuna misura idonea è stata mai sostanzialmente adottata, sicché le polveri, unitamente a fumi e gas, continuano a diffondersi nell'ambiente circostante". E ciò, sottolinea il gip, "nonostante la farsa dei diversi atti di intesa" che sono stati firmati dall'azienda negli anni. Cosicché, conclude l'ordinanza, "non si può più consentire al siderurgico tarantino del gruppo Riva di sottrarsi al dovere di anteporre alla logica del profitto, sino ad oggi così spregiudicatamente e cinicamente seguita, il rispetto della salute e della salubrità dell'ambiente".
In una conferenza stampa tenuta assieme al procuratore di Taranto, Sebastio, il procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce, Giuseppe Vignola, ha spiegato che quello preso dai magistrati "è stato un provvedimento molto sofferto", ma reso inevitabile dall'obbligatorietà dell'azione penale, com'è stato per i morti della Thyssen, di Marghera e di Genova, "e visto che sono stati e vengono a tutt'oggi colpiti anche i bambini, noi non potevamo non agire".
Il problema è che chi rischia di pagarne l'intero prezzo sono proprio gli operai dell'Ilva, doppiamente vittime dell'inquinamento e della perdita del posto di lavoro che incombe, stretti come sono in una morsa micidiale tra la macchina della giustizia e il cinico interesse capitalistico della proprietà, che pur di non fare i massicci investimenti per adeguare gli impianti rinunciando a una parte dei lauti profitti realizzati in questi anni, potrebbe giocare a strumentalizzare la disperazione dei lavoratori per far sì che tutto continui come prima; oppure, nel caso non gli riuscisse, potrebbe lasciar chiudere gli impianti per trasferirli all'estero.
Per quanto infatti l'ex prefetto milanese Bruno Ferrante, da poco nominato presidente dell'Ilva dopo le dimissioni del figlio di Riva, abbia assicurato che l'azienda farà di tutto per tenere in vita le acciaierie, nessun impegno è stato neanche accennato in merito a un possibile piano per adeguare gli impianti come richiesto dalla magistratura per evitare il sequestro. E a questo proposito suonano anzi minacciose le parole del presidente di Federacciai, aderente a Confindustria, Antonio Gozzi, che ha dichiarato a la Repubblica: "Questa vicenda è il paradigma del futuro della siderurgia in questo Paese. Decidiamo se ci sono ancora le condizioni per fare o meno questo tipo di attività. E se verificheremo che non è possibile, ce ne andremo da un'altra parte".

Continuare la lotta per il lavoro e il risanamento dell'Ilva e di Taranto
Nemmeno possono bastare le rassicurazioni del ministro dell'ambiente Clini e quelle del ministro dello Sviluppo economica Corrado Passera, che hanno assicurato a parole l'impegno del governo a non permettere la chiusura dell'Ilva, ma che a parte i 336 milioni stanziati per la bonifica del territorio di Taranto, comunque nettamente insufficienti e in ritardo, non hanno annunciato alcuna iniziativa concreta per chiamare la proprietà ad assumersi le sue responsabilità e a presentare un piano credibile da discutere col governo e i rappresentanti dei lavoratori per scongiurare il sequestro e avviare il risanamento. Anzi, in fondo la giustificano, come ha fatto Clini, sostenendo che l'inchiesta dei giudici tarantini sarebbe vecchia, che nel frattempo l'Ilva si era sostanzialmente adeguata agli standard europei, e che l'intervento giudiziario favorisce la concorrenza dei francesi e dei tedeschi. Dichiarazioni tanto più paradossali e sospettabili di copertura della proprietà in quanto, subito dopo, il ministro ha ammesso che in realtà era in corso un lungo contenzioso giudiziario tra il suo dicastero e l'azienda, la quale non ha mai risposto alle sue sollecitazioni per affrontare insieme il problema del risanamento ambientale. Se l'Ilva era a norma, perché il ministero dell'ambiente aveva un contenzioso con la sua proprietà?
La partita per i lavoratori dell'Ilva e per i sindacati si gioca dunque sul continuare la mobilitazione, con tutte le forme di lotta volta a volta giudicate utili e necessarie, per costringere la proprietà e il governo a fare ciascuno per quanto di sua competenza tutti i passi necessari per tenere aperta e in funzione l'acciaieria, senza la perdita di un solo posto di lavoro, e iniziare immediatamente la bonifica del territorio inquinato, avviando subito un piano per l'adeguamento degli impianti ai più moderni standard internazionali di norme antinquinamento. E nel caso che la proprietà tergiversi e si rifiuti di assumersi le sue responsabilità sociali, ferme restando quelle penali ed economiche che devono fare il loro corso giudiziario, l'Ilva va nazionalizzata senza indennizzo e deve ritornare in mano pubblica, invertendo la sciagurata e fallimentare politica delle privatizzazioni voluta dai passati governi della destra e della "sinistra" borghese, che tanti disastri ha provocato e sta provocando all'economia, all'occupazione e al territorio, di cui questa grave vicenda rappresenta l'esempio ad oggi più drammatico ed eclatante.

1 agosto 2012