L'ordinamento didattico a "y"
Varata l'università di classe del regime neofascista

Il neoduce Berlusconi va avanti come uno schiacciasassi: dopo la scuola (vedi Il Bolscevico n. 14/2003) viene instaurata l'università del regime neofascista. Al decreto messo a punto dal ministro Letizia Moratti, che ridisegna l'università italiana secondo lo schema ad Y, è stato dato parere favorevole dal Senato e - lo scorso 16 giugno - anche dalla Camera. Il sistema universitario diviene una succursale della Confindustria asservito totalmente alle esigenze di competitività delle imprese tanto che la Thatcher di viale Trastevere nel comunicato stampa emesso subito dopo l'approvazione alla Camera ha annunciato "la possibilità di una fase di sperimentazione che consenta agli atenei che lo vorranno di applicare l'ordinamento didattico a `Y' fin dall'anno accademico 2004-2005".

Restaurato il doppio binario
Il decreto segna il passaggio dal famigerato 3+2, instaurato dalla "riforma" Zecchino del governo del DC Prodi del 1999 (tre anni di Laurea di Base e due anni di Laurea Specialistica), all'1+2+2.
Si tratta del cosiddetto percorso ad Y che ridefinisce e spezzetta ulteriormente il sistema universitario del nostro Paese prevedendo per gli studenti un solo anno di istruzione comune per tutti, il primo, tra i corsi di laurea "affini". E' la chiave di volta della controriforma poiché è l'anno che, per Moratti, deve fare maggiore "filtro" tra gli studenti selezionandoli in base al "merito". E alla classe sociale di appartenenza. Chi risulterà adatto all'università del regime neofascista e chi viceversa sarà costretto a fermarsi al primo anno!
Se consideriamo infatti i dati dell'università "riformata" balza all'occhio l'enorme numero di studenti che al termine del primo anno non è riuscito a completare gli esami in tempo: un numero che in molte università arriva a oltre il 90% degli iscritti. Questi studenti con il nuovo ordinamento dei corsi di studio non supereranno lo sbarramento del primo anno e non potranno accedere al "percorso d'elite" con conoscenze generali, quello cioè che consente di conseguire la successiva "laurea magistralis" di secondo livello, saranno cioè indotti ad abbandonare l'università. Per quelli che invece, arrancando e a prezzo di grandi sacrifici, vorranno comunque proseguire gli studi, è previsto l'incanalamento forzato e irreversibile nel percorso cosiddetto "professionalizzante".
Dopo il primo anno che taglia i fuori-corso e i figli delle masse lavoratrici e popolari dall'istruzione universitaria, i percorsi per gli studenti si biforcano nettamente in un indirizzo che trova il suo sbocco nella "laurea di base" (1+2) e nella successiva "laurea specialistica" ridefinita "magistralis" (1+2+2) ed un altro, di serie B, "diretto all'acquisizione di specifiche competenze professionali" che porta alla laurea professionalizzante (1+2), frequentato il quale sarà difficile, se non impossibile, accedere al corso di laurea di serie A, dopo la quale, un ulteriore percorso di tre anni, porta alla "laurea doctoralis".
Nel testo governativo volutamente non c'è chiarezza sulla possibilità per chi consegue il titolo di studio nel percorso più professionalizzante di proseguire comunque gli studi in un corso di laurea magistrale, né sulle condizioni per tale proseguimento (art. 11, comma 7, lettera a), per di più i crediti del corso triennale più professionale non bastano ad accedere ai 2 anni successivi di specializzazione, ossia non equivalgono al segmento 1+2 del percorso di serie A.
L'obiettivo è quindi chiaro: restaurare un doppio binario tra formazione professionale e istruzione generale com'è stato fatto in campo scolastico sul modello del ventennio mussoliniano e costringere gli studenti che sono riusciti ad arrivare all'università a "decidere" il proprio percorso dopo un solo anno, senza possibilità di cambiare idea, secondo un modello che generalizza, peggiorandola, la distinzione di classe tra laurea, laurea breve e diploma.
All'autonomia organizzativa e didattica degli atenei è lasciato sia il compito di stabilire se cominciare con la "Y" già dal prossimo anno sia di introdurre il "numero chiuso" a proprio piacimento all'ingresso e per ogni segmento del sistema formativo, fermo restando che la Moratti e la maggior parte dei rettori concordano comunque sulla necessità di inasprire i criteri di accesso all'università ed in particolare alle lauree specialistiche.
Infine, non deve stupire che nell'università morattiana non siano previsti corsi Master post-universitari, ciò tende a favorire il già fiorente mercato privato che li organizza a costi esorbitanti.

Crediti e manodopera per le imprese
Risulta rimodulato anche l'odioso, forcaiolo e meritocratico sistema dei "crediti" formativi instaurato dalle precedenti controriforme varate dai ministri del "centro-sinistra" Berlinguer e Zecchino. Un credito si ottiene con 25 ore di attività sotto diverse forme: frequenza, studio, tirocini, ecc. All'interno di queste 25 ore la Moratti ha aumentato la percentuale di ore impiegate per il lavoro pratico. La riforma Zecchino prevedeva che il tempo impiegato in attività formative come stage e tirocini formativi presso imprese ed enti pubblici o privati non superi il 50% delle 25 ore per ogni credito. La Moratti ha pensato bene di eliminare questo vincolo di modo che non vi sia un limite al lavoro gratuito da offrire alle aziende. E' prevista anche la cancellazione dell'obbligo per gli atenei di destinare almeno il 15 per cento di ciascun curriculum ad attività formative a scelta autonoma dello studente, a quelle di preparazione della prova finale e di conoscenza di una lingua straniera, a quelle infine di tipo trasversale e relazionale per il miglior inserimento del laureato nel mondo del lavoro (lettere d, e, f, del testo vigente dell'art. 10, comma 2, di cui si prevede la soppressione), con l'obiettivo di un irrigidimento settoriale monodisciplinare dei corsi di laurea e di laurea magistrale, derivante dall'eliminazione della quota obbligatoria di formazione destinata alle discipline affini, alle culture di contesto, alla formazione.

Gli atenei di serie A e B
Un'altra modifica sostanziale della "riforma" Moratti riguarda l'ulteriore accentuazione della divisione tra atenei di serie A e di serie B. Non ci stupisce affatto se si dà un'occhiata all'autore della bozza di legge, quel De Maio già cofirmatario del ddl che precarizza e privatizza la ricerca universitaria e già rettore della Luiss, una delle più prestigiose università private italiane.
La bozza di legge stabilisce che il ministero possa decidere quali corsi di laurea e fino quale livello potranno essere attuati da ogni singola università, chiaramente in base a criteri non esplicitati. Possiamo scommettere che le prime università a possedere i requisiti richiesti saranno quelle private, tra le quali hanno un ruolo non secondario quelle cattoliche, che potranno dunque attivare corsi di ogni tipo e di ogni livello, da quello professionalizzante a quello magistralis. Inoltre, ovvia conseguenza di questa modifica sarà la corsa delle università ad adeguarsi ai criteri richiesti, con conseguenti aumenti di tasse e quant'altro per renderle competitive sul mercato.
La differenziazione sempre più marcata tra i diversi atenei si riflette inevitabilmente nella differenza di valore dello stesso titolo di studio preso in atenei diversi. La laurea in lettere, ad esempio, di un ateneo prestigioso non verrà considerata pari ad un'identica laurea conseguita in un ateneo di serie B. I titoli di studio finiscono così per perdere ogni valore legale, i corsi di laurea e le facoltà dove è scarso l'interesse delle imprese, rischiano il collasso.
Infine, un aspetto non secondario è che la riforma è "a costo zero". Già la "riforma" degli ordinamenti in corso ha comportato un incremento significativo dell'attività didattica senza un corrispondente incremento né di fondi, né degli organici di personale docente e tecnico amministrativo, né delle strutture fisiche (aule, biblioteche e laboratori). Oggi si propone alle Università la creazione di un canale biennale aggiuntivo senza prevedere incrementi né di fondi, né di organici né di strutture fisiche, con l'aggravante che con le finanziarie sono stati tagliati drasticamente i fondi alle università e che con il Dpcm del 4 febbraio 2004 sono stati chiusi i rubinetti destinati al "diritto allo studio". Le università saranno costrette quindi a procacciarsi fondi dai privati e quelle del Sud se non vogliono chiudere ad aumentare le tasse ed esternalizzare i servizi.
Infine l'obbligo per le università di provvedere entro diciotto mesi ad adeguare gli ordinamenti didattici dei propri corsi di studio alle disposizioni del nuovo regolamento e dei relativi decreti applicativi, previsto dall'articolo 13, comma 1, dello schema di decreto, è destinato a sconvolgere pesantemente la vita universitaria, poiché ad un periodo di grande caos determinato dal nuovo modello didattico universitario delle legge Zecchino, aggravati peraltro dalle ben note e serie difficoltà finanziarie, si aggiunge il caos del nuovo ordinamento morattiano, con la conseguenza che nelle facoltà potranno persistere almeno tre ordinamenti diversi.

Le reazioni
Il partito più entusiasta di tale feroce selezione è stato AN, che ha salutato con grande favore il ripristino di un percorso fortemente elitario (la magistralis), in continuità culturale con il loro punto di riferimento in tema di "riforme" dell'istruzione: il gerarca fascista Giovanni Gentile.
Non adeguate alla gravità del provvedimento sono state le reazioni del mondo accademico. Le proteste dei rettori e dei presidi si sono concentrate opportunisticamente su aspetti secondari, quali un presunto attentato del governo alla autonomia universitaria: la polemica si basa su di un comma del decreto che stabilisce al 50 per cento il "minimo" dei crediti fissati a livello nazionale, a fronte del precedente 45 per cento, e, soprattutto, non fissa alcun "massimo", a fronte del precedente 66 per cento, "con la conseguenza che - spiegano alla Crui - almeno in linea di principio, l'intero ammontare dei crediti di un corso di laurea potrebbe essere stabilito a livello nazionale, senza lasciare alcuna possibilità di scelte autonome da parte dell'ateneo"; lo stesso può ripetersi per le "lauree magistrali", per le quali il "minimo" è fissato al 40 per cento (articolo 10, comma 4) e non vi è, come per le lauree, "alcun massimo".
A sintetizzare il pensiero degli intellettuali di regime e dei baroni universitari è stato Ernesto Galli della Loggia che alla Moratti ha chiesto solo "maggiore fiducia": "Ci lasci fare delle cose, ci lasci decidere se optare tra i due sistemi, il 3+2 o quello ad `y', si fidi di più. E se sbagliamo infligga delle penalità".
Dure invece le proteste dell'Udu (Unione degli universitari) che annuncia mobilitazioni contro la "riforma" che persegue lo stesso disegno e i medesimi obiettivi della "riforma" scolastica, una "riforma" marcatamente "classista, perché porterebbe a percorsi di serie A e percorsi di serie B, dividendo nettamente corsi immediatamente professionalizzanti e corsi invece più qualificati per gli studenti che aspirano a diventare classe dirigente. Tutto questo a vantaggio dei padroni, che potranno scegliere con più tranquillità i propri dirigenti tra i pochi dottori magistralis sul mercato e potranno usufruire di più manodopera a costo zero".

1° settembre 2004