Tra Monti, Alfano, Bersani e Casini
Vergognosa intesa sull'articolo 18 che viene cancellato
La controriforma del lavoro non migliora le condizioni dei lavoratori, dei precari e dei giovani e instaura relazioni sindacali mussoliniane
Solo la piazza può respingere la controriforma

La controriforma liberista sul "mercato del lavoro" di Monti-Fornero è ormai giunta a un passo dalla sua approvazione definitiva. Chiusa la finta trattativa con le "parti sociali" il Consiglio dei ministri aveva approvato il 23 marzo un lungo documento presentato dal ministro del Welfare, Elsa Fornero, dove erano illustrate le linee guida della "riforma" e in cui spiccava la sostanziale cancellazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi la libertà di licenziamento con un semplice indennizzo economico e senza possibilità di reintegro nel posto di lavoro.
Era esplosa, a seguito di ciò, la protesta operaia in tutto il Paese con scioperi, cortei, manifestazioni di piazza, blocchi stradali e in alcuni casi occupazione dei binari delle ferrovie. La CGIL aveva proclamato 16 ore di sciopero di cui 8 da dedicare a una giornata di lotta nazionale per chiedere il mantenimento del reintegro in caso di licenziamento illegittimo deciso dal giudice. Una parte consistente del PD manifestava l'intenzione di non votare la "riforma" senza modifiche. Nonostante le ripetute dichiarazioni di indisponibilità a rivedere il testo della controriforma Monti si è deciso, anche su consiglio del nuovo Vittorio Emanuele III, Giorgio Napolitano, che ha continuato a seguire, minuto dopo minuto, la vicenda, a convocare i segretari dei partiti che compongono la sua maggioranza di governo, Bersani del PD, Casini del Terzo polo, Alfano del PDL per trovare un'intesa sull'art. 18 e non solo.
L'incontro c'è stato, nei primi giorni di aprile. E l'intesa è stata trovata. Un'intesa che noi giudichiamo vergognosa e inaccettabile sia per il metodo che per i contenuti concordati. Perché scippa alle "parti sociali" una materia, quella del lavoro, che è sempre stata, almeno dal dopoguerra in poi, di loro stretta pertinenza e sancisce la fine, da destra, della concertazione con i sindacati che ne escono ridimensionati, con meno potere contrattuale per incidere sulle scelte del governo. Perché l'intesa blinda un testo che sarà difficile se non impossibile cambiare in sede parlamentare, riducendo le Camere a una mera funzione di ratifica. Perché l'intesa Monti e segretari della destra e della "sinistra" borghese dà il via a una controriforma devastante che, complessivamente, peggiora le tutele delle lavoratrici e dei lavoratori e lascia praticamente intatti i problemi del precariato e dell'inserimento dei giovani nel lavoro, accantona, appunto, il metodo della concertazione e instaura nuove relazioni sindacali mussoliniane. Perché realizza il principale e vero obiettivo di questa controriforma, ovvero la libertà di licenziamento.
 
Cancellato l'articolo 18
All'intesa ha fatto seguito, seduta stante da parte del ministro, la compilazione del disegno di legge (ddl) suddiviso in 39 articoli e denominato pomposamente: "Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita". Nell'art. 14 di questo ddl ("Tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo") è riapparsa la parola, reintegro, anche nel caso di licenziamenti per motivi economici e organizzativi. Il che ha fatto cantare vittoria al PD e alla CGIL e suscitato le ire delle associazioni padronali, Confindustria in testa. Sui principali quotidiani sono apparsi titoli del tipo: "il governo ha fatto marcia indietro", "reinserito il principio del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo". Ma non è vero nulla, è un grosso inganno che va smascherato fino in fondo.
In realtà la minuscola, impercettibile modifica apportata nel ddl è più formale che reale. Lo smantellamento dell'art. 18 è pienamente confermato, così come viene confermato l'ampliamento della flessibilità in uscita che si traduce in licenziamenti più facili. Vediamo come. Il governo ha "spacchettato" l'art. 18 in licenziamenti discriminatori, licenziamenti disciplinari e i licenziamenti per motivi economici e organizzativi. Nel primo caso la tutela rimane intatta, cioè rimane l'obbligo del reintegro nel posto di lavoro più gli stipendi mancanti dalla data del licenziamento illegittimo. Ma non accade mai che un "datore di lavoro" licenzi con motivazioni apertamente discriminatorie. Solo un pazzo potrebbe cacciare un lavoratore perché è ebreo, o nero, o gay, o politicamente e sindacalmente scomodo. Nel secondo caso (licenziamenti disciplinari) la regola diventa l'indennizzo economico. Solo se ci sono motivi "manifestamente infondati" il giudice può decidere, ma non è automatico il reintegro. Anche nel terzo, licenziamenti per motivi economici e organizzativi, riscontrando la illegittimità è più facile che il giudice decida per l'indennizzo economico. Solo nel caso che emerga la "totale insussistenza" dei motivi adottati per il licenziamento, può, ma non è obbligatorio, decidere per il reintegro. A questo punto però spetta al lavoratore, facendosi carico delle spese, dimostrare le reali motivazioni del "datore di lavoro" quali che siano.
Insomma, si passa con tutta evidenza da una situazione dove il reintegro nel posto di lavoro era la regola in tutti i casi di licenziamento illegittimo mentre l'indennizzo era l'eccezione, in una situazione dove l'indennizzo economico diventa la regola e il reintegro l'eccezione. Un indennizzo economico peraltro più ridotto rispetto agli annunci precedenti da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità e non più 15-27 mensilità. E non è tutto. Il ddl prevede un tentativo obbligatorio, finora era facoltativo, di conciliazione da fare entro 7 giorni presso la direzione territoriale del lavoro. Se non si trova l'accordo il lavoratore può ricorrere al giudice. Ma in caso di sentenza negativa perde l'indennizzo economico che gli era stato offerto in prima istanza. E questo potrebbe spingere tanti lavoratori a rinunciare in partenza a far valere il loro diritto di tornare nel proprio posto di lavoro.
Che le cose stiano così, appare in modo chiaro, quasi brutale, dalle parole di Monti di risposta alle lamentele della Marcegaglia, la quale insieme ad altre associazioni padronali ha scritto una lettera al governo. "Le imprese sono insoddisfatte perché avrebbero voluto la sparizione della parola reintegro . Ma col tempo capiranno che ciò avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili". "La presidente - ha proseguito Monti - è rimasta perfettamente al corrente della riflessione del governo". "Si assuma la responsabilità di quello che ha detto. Tre mesi fa Confindustria non avrebbe nemmeno potuto sperare che il licenziamento per motivi economici diventasse in Italia come è nei paesi dove c'è maggiore flessibilità e che il ruolo del reintegro fosse limitato, come in questa riforma a casi di abuso di licenziamenti economici".
 
Precariato, apprendistato
L'intesa Monti-Alfano-Bersani-Casini è stata propagandata come una mediazione. Anche se fosse, si tratterebbe di una mediazione a perdere per i lavoratori e a tutto vantaggio per le imprese. Infatti, a fronte della reintroduzione del principio del reintegro del tutto formale e non reale, Alfano ha ottenuto per conto di Confindustria e delle altre associazioni padronali quanto segue: la trasformazione delle "finte" partite Iva in contratti di lavoro subordinati è stata rinviata di un anno; se prima era previsto che le imprese assumessero il 50% degli apprendisti, ora l'obbligo riguarda soltanto il 30%; per i contratti a tempo determinato fino a sei mesi non sarà più necessaria la presentazione di una "causale" da parte del "datore di lavoro"; l'indennizzo stabilito in una forbice tra 15 e 27 mensilità, ora è stato ridotto a 12 e 24 mesi.
Dalle cose appena dette si rafforza la convinzione che nel ddl Monti-Fornero non c'è nulla per la riduzione del precariato. Non solo non si cancella nessuno degli oltre 40 contratti precari vigenti nel nostro Paese, introdotti a suo tempo dal "pacchetto Treu" quando al governo c'era Prodi e dalla legge 30 quando a Palazzo Chigi c'era Berlusconi. Nessuno, nemmeno i più odiosi (il lavoro in affitto, i co.co.pro., il lavoro intermittente, le false partite Iva) nemmeno quello di "Associati in partecipazione" di cui era stata promessa l'abolizione. Ma sono stati indeboliti anche gli interventi che tendevano a disincentivarne l'uso. I precari rimarranno dunque in prevalenza precari.
Ai giovani, la cui disoccupazione ha raggiunto livelli molto allarmanti, la "riforma" non offre nulla di buono. Riconferma l'apprendistato che c'era già: un contratto che può durare tre anni con trattamenti inferiori a quelli previsti nei contratti di lavoro nazionali, con libertà di licenziamento in ogni momento senza motivazioni. Si pone il vincolo di assunzione non obbligatoria del 30% per potere assumere altri apprendisti nella misure di 2 su tre lavoratori invece di 1 a 1 come è ora.

"Ammortizzatori sociali"
Sugli "ammortizzatori sociali" lo abbiamo detto in passato e ripetiamo, la controriforma Monti-Fornero è un'operazione di demolizione del sistema che ha funzionato sin qui, cancellando in particolare la cassa straordinaria e quella in proroga, in caso di cessazione delle attività, abolendo l'indennità di mobilità che garantivano ai lavoratori interessati, e in tempo di crisi sono stati tanti, il sostegno economico per un periodo di tempo sufficiente per arrivare alla pensione oppure per trovare un altro lavoro. Il tutto sostituito dal nuovo sussidio di disoccupazione denominato Aspi (Assicurazione per l'impiego) che per averne diritto, come nella vecchia indennità, occorre avere 2 anni di contributi versati e aver lavorato 52 settimane negli ultimi due anni, requisiti che difficilmente i giovani precari e disoccupati possono vantare, la durata sarà di 12 mesi ampliati a 18 per gli ultra cinquantenni e la cifra poco superiore a mille euro al mese, ridotta del 15% dopo i primi sei mesi e del 30% dopo ulteriori sei mesi. Se si confronta l'attuale sistema degli "ammortizzatori sociali", composto dalla cassa integrazione ordinaria, cassa integrazione straordinaria e in deroga, mobilità e indennità di disoccupazione col nuovo previsto nella "riforma", composto dalla cassa integrazione ordinaria e straordinaria solo per ristrutturazione aziendale poi licenziamento e sussidio di disoccupazione, non ci vuole molto a scoprire che le tutele sono state ridotte, non aumentate.

Respingere la controriforma
Come era prevedibile, la CISL di Bonanni e la UIL di Angeletti si sono immediatamente schierate a favore della controriforma così come è stata modificata. D'altronde loro avevano accettato anche la prima formulazione che cancellava il diritto di reintegro nei licenziamenti per motivi economici riconosciuti dal giudice illegittimi. Desta invece più stupore la posizione assunta dalla segreteria nazionale della CGIL capitanata da Susanna Camusso, che copre l'inganno introdotto nell'intesa Monti-Alfano-Bersani-Casini, scrivendo nel suo documento del 5 aprile che: "La riconquista dello strumento del 'reintegro' nel caso di licenziamenti economici insussistenti è un risultato positivo che ripristina un principio di civiltà giuridica". Lo ripristina solo formalmente. Da obbligatorio e in tutti i casi di licenziamenti illegittimi diventa una possibilità remota e scarsamente esigibile. Già durante la finta trattativa tra governo e "parti sociali" la Camusso si era espressa per il cosiddetto modello tedesco, peggiorativo rispetto alle norme previste nell'art. 18. Ciò rappresenta nei fatti l'abbandono da parte della CGIL della più importante delle tutele dei lavoratori!
Non tutti in CGIL la pensano come la Camusso, specie alla sua sinistra si moltiplicano i dissensi. A partire dal (risvegliato) Nicola Nicolosi, leader di "Lavoro e Società", che ha criticato apertamente la segreteria nazionale, di cui fa parte, per aver accettato la manomissione dell'art. 18 che invece andrebbe difeso nella sua integrità. Critica anche la Segreteria nazionale della FIOM che in una nota "esprime un giudizio negativo su una riforma che non riduce la precarietà, non rende universali per tutte le forme di lavoro e per tutte le imprese gli ammortizzatori sociali e il sostegno al reddito, il ddl svuota di valore l'art. 18, in quanto il risarcimento economico diventa la regola ... rendendo il reintegro un miraggio non un diritto certo". Una critica esplicita è venuta da "La CGIL che vogliamo". "La soddisfazione espressa dalla segreteria nazionale della CGIL sull'art. 18 - ha scritto il coordinatore nazionale, Gianni Rinaldini - come esce dalle recente versione del disegno di legge sul mercato del lavoro non trova giustificazione alcuna nel testo medesimo, nel quale il reintegro è una palese eccezione scarsamente esigibile dal lavoratore". Pertanto, per Rinaldini, "Le motivazioni per lo sciopero generale proclamato dalla CGIL risultano ulteriormente confermate e rafforzate".
A questo proposito la segreteria nazionale della CGIL ha, per il momento, confermato gli scioperi indetti, compreso quello di 8 ore a carattere e generale. C'è però da chiarire la piattaforma che si pone a base della mobilitazione: giusto il tema delle pensioni, visto che la controriforma del governo Monti ha creato problemi a non finire a partire da quelli dei cosiddetti "esodati" a quelli delle ricongiunzioni onerose dei contributi versati in enti differenti; giusto il tema del fisco, vista la necessità estrema di alleggerire le tasse su salari e pensioni per rialzarne il potere d'acquisto. Ma sul tema del "mercato del lavoro" non si può accettare quanto già definito dal governo e magari limitarsi a vigilare che in parlamento non ne vengano peggiorati i contenuti. Non si può dire che questa battaglia è conclusa. In particolare sui licenziamenti individuali va rilanciata la parola d'ordine: "L'art. 18 non si tocca". E sul lavoro precario deve permanere la rivendicazione della cancellazione di tutti o quasi i contratti che hanno condannato più di una generazione a un lavoro supersfruttato, mal pagato, senza diritti e senza sicurezza del posto di lavoro.
Solo la piazza può respingere la controriforma!
 
11 aprile 2012