Il vertice di Bruxelles dà il via libera al negoziato per l'ingresso della Turchia nell'Unione europea
Berlusconi pone la questione della revisione del "patto di stabilità"
Il vertice Ue svoltosi a Bruxelles il 16 e 17 dicembre ha dato il via libera al negoziato per l'ingresso della Turchia nella superpotenza europea. I 25 capi di Stato e di governo si sono infatti trovati d'accordo col primo ministro turco Erdogan per iniziare i negoziati di adesione il 3 ottobre 2005, poi un percorso definito che durerà una decina d'anni porterà la Turchia ufficialmente nell'Unione europea. Un lasso di tempo definito "ragionevole" per far adottare e acquisire al regime di Ankara tutti gli "status" comunitari. "Possiamo dire - ha affermato il presidente di turno Ue l'olandese Jan Peter Balkenende - che abbiamo scritto la Storia. La Turchia ha accettato la mano che le era stata tesa".
Questo il principale risultato di un summit europeo che ha sancito anche la chiusura dei negoziati con Bulgaria e Romania, destinate a firmare i trattati di adesione il 15 e 16 aprile 2005 e a entrare nell'Unione dal 1• gennaio 2007, e fissato per la Croazia la data d'inizio del negoziato d'adesione il 17 marzo 2005, a condizione che Zagabria cooperi con il Tribunale penale internazionale.
Solo 8 mesi fa abbiamo assistito all'inglobamento di 10 paesi dell'Est e del Mediterraneo; ora un nuovo balzo in avanti imperialista che prefigura in pochi anni un'Unione a 29 paesi. Di fatto l'Ue imperialista calcando le orme dell'impero romano sfonda nei Balcani, varca il Bosforo e apre la porta d'Oriente, proponendosi come una superpotenza sempre più forte e agguerrita sullo scenario mondiale.
"Ieri a Bruxelles, la Turchia ha concretizzato 41 anni di sforzi" ha affermato un raggiante Erdogan al suo rientro a Ankara il 18 dicembre. In effetti la marcia di avvicinamento della Turchia all'Unione europea era iniziata nel lontano settembre 1963 allorché Ankara firmò un accordo di associazione con l'allora Comunità europea, con l'obiettivo di arrivare a un'unione doganale che tuttavia entrerà in vigore solo nel 1996 e stabilisce, tra l'altro, l'abolizione dei dazi. Nell'aprile del 1987 la Turchia presenta una candidatura ufficiale all'adesione e nel 1989 la risposta della Commissione di Bruxelles è negativa, soprattutto per i ritardi capitalisti dell'economia turca. Contro Ankara giocano anche le divisioni con la Grecia, la questione di Cipro e la repressione fascista dei curdi. Nel dicembre 1997 il Consiglio Ue di Lussemburgo oppone un nuovo no alle aspirazioni turche in quanto stima che "le condizioni politiche ed economiche non siano soddisfatte". Qualcosa sembra mutare nel dicembre 1999 allorché il Consiglio europeo di Helsinki accetta di riconoscere alla Turchia la status di paese candidato, ma non indica alcuna data per l'apertura dei negoziati, mentre quello di Copenhagen del dicembre 2002 fissa dei criteri politici da rispettare. Tutto si muove definitivamente negli ultimi mesi con la decisione del 6 ottobre scorso della Commissione ancora guidata da Prodi di dare parere favorevole all'apertura dei negoziati con la Turchia, seguita dal voto favorevole del parlamento europeo del 15 dicembre.
Cosa è cambiato in tutto questo lasso di tempo? La Turchia ha forse abolito la pena di morte, garantito i più elementari diritti civili e politici, riconosciuto la necessità dell'esistenza di uno Stato curdo, riconosciuto Cipro? Niente affatto. La realtà è che con l'inglobamento della Turchia l'Ue allunga le grinfie su altre regioni strategiche del globo. I turchi nei secoli si sono disseminati dalla Siberia, al Caucaso, all'Asia centrale: parlano turco 150 milioni di asiatici, balcanici e mediorientali e con la digregazione dell'Urss sono diventati la componente dominante in Azerbaijan, Kazakhstan, Kirghizstan, Uzbekistan, Turkemenistan. Addirittura i popoli turcofoni sono numerosi nello Xinjiang cinese, in Afghanistan, in Iran, in Iraq, in Bulgaria, nell'ex Jugoslavia, in Russia. Tremila sono i chilometri delle sue frontiere con Siria, Iran, Iraq, Georgia, Bulgaria, Armenia e Azerbaijan.
Ma la Turchia è anche e soprattutto l'incrocio geopolitico delle vie del petrolio e del gas, da Iran, Iraq, Russia, Azerbaijan e Asia centrale. Migliaia di chilometri di condutture, per terra e per mare, che rappresentano uno degli assetti strategici di questo paese che fanno gola all'Unione europea. Con la Turchia si dominano gli Stretti, si è proiettati in Asia e in Medio Oriente. Insomma "La Turchia - ha affermato il generale Cevik Bir, ex vice capo di Stato maggiore dell'esercito di Ankara, capitano di diverse missioni militari al fianco dell'imperialismo occidentale - è fondamentale per dare all'Unione una dimensione globale". Le sue capacità militari, 520mila uomini più 380mila di riserva, addestrati alla guerra imperialista e forgiati dalla repressione del popolo curdo, dotati di equipaggiamenti e da un'aviazione di primordine, contribuirebbero a dare una spinta alla politica europea di sicurezza e all'esercito europeo.
Infine, ma non certo ultima in ordine d'importanza, la questione economica. L'ascesa al potere del partito Akp del premier Erdogan rappresenta la borghesia musulmana al potere che ha sposato il capitalismo più liberista e liberticida, che ha portato alla crescita record del 12% nei primi sei mesi di quest'anno. In Turchia il grande capitale europeo ha i suoi partner storici. Ad esempio il 90% del settore auto e dell'indotto in Turchia è europeo da decenni. I governanti dell'Ue si sono profusi nel cercare di tranquillizzare l'opinione pubblica e il mondo intero sul fatto che l'ingresso della Turchia nell'Ue consoliderebbe "l'unica democrazia islamica" per "offrire un modello a tutti i paesi musulmani". In realtà il modello offerto dalla Turchia è quello di un paese invaso e saccheggiato dal capitalismo occidentale. E i frutti dell'ingresso nell'Ue saranno appannaggio esclusivo della borghesia al potere e non certo delle masse lavoratrici e popolari.
Ipocriti ma significativi sono risultati i commenti favorevoli all'apertura dei negoziati con la Turchia dei governanti europei al vertice di Bruxelles. Il neoduce Berlusconi ha giudicato "determinante" la posizione dell'Italia nonostante "molte difficoltà e discussioni. Possiamo dire - ha osservato il premier italiano - che con l'ingresso nel 2007 di Bulgaria e Romania e con l'avvio dei negoziati per Croazia e Turchia che abbiamo quattro Paesi che saranno sempre grati e riconoscenti al governo italiano".
Lo stesso Berlusconi ha presentato al vertice europeo il piano italiano per la revisione del "patto di stabilità". Un piano che avrebbe ottenuto "una completa adesione" anche da Blair, Schroeder e Chirac e un "generale apprezzamento da tutti gli altri". La posizione italiana prevede di mantenere invariate le regole fondamentali del famigerato patto europeo, che obbliga i paesi dell'Ue a perseguire politiche liberiste e liberticide, ma "sottolineando in particolare l'aspetto della crescita e introducendo un'interpretazione più flessibile". Ossia interpretazioni di comodo a seconda dei cicli capitalistici.
Il vincolo del 3% (ossia rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo), ha ricordato Berlusconi, è stato sforato in questi due anni da Francia, Germania e Olanda mentre l'Italia "è stata e intende rimanere virtuosa", (in realtà l'Italia governata dalla Casa del fascio non ha sforato ufficialmente il 3% unicamente perché ha fatto un uso spregiudicato di misure "una tantum" come ad esempio i condoni fiscali) ma "ci sono molte ragioni che imporrebbero un sostegno dell'economia in un momento di stagnazione come quello attuale". Di qui la proposta italiana che prevede di correlare il vincolo del 3% all'andamento delle economie: più rigore quando l'economia va bene, più flessibilità in caso di stagnazione "per evitare che degeneri in recessione". Previsti anche degli "sconti" a quei paesi che introducono delle controriforme liberiste, per esempio nel "mercato del lavoro e della previdenza" e il conteggio delle sole quote di ammortamento e non l'intera spesa per investimenti in infrastrutture e tecnologie militari. Per il governo Berlusconi ad esempio i costi per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina o quelli per l'equipaggiamento dell'esercito dell'imperialismo italiano non dovrebbero essere presi in considerazione.

22 dicembre 2004