Per chi ``la vita è
bella''?
Abbiamo riflettuto a lungo sulle ragioni che
hanno spinto Hollywood a consacrare il film di Roberto Benigni "La vita è
bella" con tre Oscar: quale migliore film straniero, attore protagonista e colonna
sonora drammatica. E ci siamo date molte risposte. Senza dubbio è perché il film è
stato drogato da una campagna di promozione ruffiana e plebiscitaria; perché è stato
imposto all'opinione pubblica internazionale da lobby ebraiche (che, com'è noto, contano
negli Usa e tra le borghesie occidentali su un potere di condizionamento sconfinato) e da
gruppi di pressione politico-affaristici (governo D'Alema, Miramax, Cecchi Gori group)
secondo un copione abilmente scritto da potenti padroni e padrini nostrani e d'oltreoceano
(persino Agnelli si è scomodato alla vigilia per tesserne le lodi); e perché ha
beneficiato della divina beatificazione delle gerarchie cattoliche e, in prima persona,
del papa nero Wojtyla, il quale ha enfaticamente informato il mondo intero di aver
assistito alla proiezione insieme alla famiglia Benigni in Vaticano (ah quanto lontano è
il tempo dell'impertinente "wojtylaccio"). Eppure a un'attenta riflessione tutte
queste appaiono come ragioni di contorno e non decisive.
Ci sono a nostro avviso due ragioni più profonde e decisive e vogliamo esporle ai nostri
lettori che magari sono rimasti impressionati e commossi e hanno riso e sorriso delle
inesauribili trovate del protagonista per evitare al figlio le sofferenze e la morte cui
va incontro.
Non vogliamo giudicare dal punto di vista tecnico la qualità delle interpretazioni,
regia, sceneggiatura, musiche. No, il film è un film politico, anzi è un'operazione
politica e dunque politicamente va giudicato e criticato. Ecco perché denunciamo il suo
impianto reazionario sotto quella veste accattivante e ruffiana, familista e dei
"buoni" sentimenti, intrisa di umanitarismo e "altruismo"
interclassisti laddove sarebbe stato necessario urlare rabbia antifascista e sprigionare
spirito militante anticapitalista.
Si tratta di due ragioni concepite dall'autore come l'alfa e l'omega del suo film: e
infatti vengono enunciate programmaticamente, la prima, nel titolo stesso scelto per
raccontare l'orrenda tragedia dei campi di concentramento nazisti (una frase tratta
volutamente dai diari di Trotzky, com'hanno confessato i coautori della sceneggiatura
Benigni e Cerami, per enfatizzare l'equazione perversa nazismo uguale comunismo) e, la
seconda, a conclusione del film allorché il piccolo Giosuè grida a squarciagola
"abbiamo vinto" sullo sfondo dell'esercito americano liberatore in quelle
immagini destinate subdolamente a imprimersi nelle menti degli spettatori perché
cancellano l'incubo e schiudono alla vita.
Noi non contestiamo in linea di principio la scelta di denunciare la barbarie nazista
attraverso un film comico e non tragico. Già prima di Benigni Chaplin aveva girato sullo
stesso tema il capolavoro de "Il grande dittatore", ed è bastato solo questo
per indurre non pochi apologeti del comico toscano a salutare in lui un secondo Charlot.
Eppure i paragoni tra i due si fermano qui, mentre tutto li divide. Li divide il momento
storico in cui escono i due film: il primo è brandito nel 1940 come un'arma militante da
un combattente antifascista, è un esplicito contributo a quella battaglia quando ancora
l'esito era tutt'altro che scontato, il secondo trasfigura e stempera quella tragedia in
chiave favolistica dando fiato all'imperante "revisionismo storico" e all'opera
di pacificazione tra fascisti e antifascisti. Il primo denuncia senza mezzi termini la
dittatura terroristica nazifascista e, specie alla luce della sua precedente filmografia,
le sue origini che stanno nel regime capitalistico e nella sua sete di dominio e di
profitto, al punto da subire l'ostracismo e l'esilio dei governi americani che gli
impedirono finanche l'ingresso negli Usa in quanto filocomunista; il secondo cancella ogni
memoria storica nelle giovani generazioni che nulla sanno di quella immane tragedia
storica trasformandola ai loro occhi in una farsa e riducendola genericamente nel frutto
della folle malvagità umana, caduta inspiegabilmente dal cielo e vinta altrettanto
inspiegabilmente grazie al prevalere delle forze del Bene sublimate nelle immagini
liberatorie delle truppe alleate dietro la bandiera a stelle e strisce, tanto da
guadagnarsi l'entusiastico riconoscimento della mecca imperialista del cinema con uno
sfacciato sincronismo rispetto a quello riservato alla Casa Bianca da Clinton al
picconatore del comunismo D'Alema. E così non ci stupisce che nella "notte delle
stelle" egli fosse in compagnia del regista Elia Kazan premiato coll'Oscar alla
carriera, famigerato per aver venduto, denunciato e mandato in carcere in pieno
maccartismo sei suoi colleghi che avevano condiviso con lui l'adesione al Partito
Comunista (revisionista) americano, comprandosi così l'impunità. Il primo ironizza su
Hitler che gioca col mondo e ne mette alla berlina le irrefrenabili ambizioni di dominio
assoluto, il secondo inventa un gioco farsesco che nasconde la realtà agli occhi del
figlio impedendogli di capirla e di prenderne coscienza. Ecco perché gruppi consistenti
di sopravvissuti ai lager si sono sentiti umiliati da quella farsa, si sono indignati e
non pochi commentatori hanno denunciato il grave danno che si provoca nei giovani e
nell'opinione pubblica a manipolare la realtà cancellando ogni confine con la fantasia.
Altro che Benigni, i suoi propositi di fondo si presentano particolarmente maligni. Quale
padre non sarebbe disposto a far da scudo col proprio corpo pur di salvare il proprio
figlio in pericolo? Ma Guido, il protagonista, lo fa non con lo spirito del combattente ma
della vittima che va al supplizio rifugiandosi caparbiamente nel ridicolo e continuando a
recitare quella parte persino mentre viene portato dall'aguzzino nazista alla fucilazione.
Tutto per salvare una presunta innocenza infantile dagli orrori del mondo. Questa, della
innocenza infantile, è una categoria che piace moltissimo alle gerarchie cattoliche che
la vedono come la "disposizione dell'animo alla perfezione" (card.
Ersilio Tonini), un dono posseduto da bambini perché sarebbero i più vicini alla
perfezione assoluta del Creatore e i meno contagiati dalla malvagità che appartiene al
mondo terreno; insieme alla categoria dell'Amore assoluto che legherebbe i genitori ai
figli in quanto attori del disegno divino della creazione. Ben altro è stato l'esempio
che ci hanno dato gli eroici partigiani quando venivano condotti a morte.
In una battuta, pronunciata dallo zio aggredito da una squadraccia di fascisti al nipote
che gli chiede spiegazioni dell'accaduto, sta la chiave di quest'aberrante concezione
fatalistica e arrendevole: "Il silenzio è il grido più forte", egli dice. Eh
no, il silenzio è morte, copre con una coltre nera la verità e cancella ogni memoria
storica, favorisce la passività e impedisce la ribellione e la lotta. Come lo zio educa
il nipote nel silenzio senza metterlo in guardia davanti all'avanzare della barbarie
nazifascista, così Guido educa suo figlio finendo per contribuire, lui vittima, a quella
falsificazione storica che giova unicamente a suoi stessi carnefici. E così di
falsificazione in falsificazione Benigni riscrive la storia fino ad attribuire alle truppe
americane il merito storico della liberazione che non ebbero, ben sapendo che ad
Auschwitz, riconoscibilissima per quella sua torre sinistra, dove ha ambientato il suo
campo di concentramento, e dove insieme agli ebrei erano rinchiusi comunisti e oppositori
antifascisti, furono le truppe sovietiche a giungere per prime. E lo fa scientemente: per
additare al mondo e ai giovani che il sistema economico e politico americano è stato
l'unico baluardo contro il mostro nazifascista e rimane una sorta di modello capace di
impedire che possa un giorno ripresentarsi.
Si tratta di prendere coscienza che Benigni ha smesso da un pezzo di mordere e perfino di
graffiare i potenti e il governo, ora che il suo partito di riferimento è entrato nella
stanza dei bottoni. Tanto tempo è passato dal Cioni Mario al libraio Guido, tanto quanto
quello che divide il PCI, partito di opposizione parlamentare ai governi DC, dai DS,
partito del guerrafondaio presidente del Consiglio D'Alema e architrave della seconda
repubblica.
23 gennaio 2002
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